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DEDICA—PREFAZIONE

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ALLA GIGIA

A te, della quale non ho persona più cara al mondo, ripresento, dopo cinque anni, questo volume, riordinato ed accresciuto, come vedi, assai di mole, ed un poco, oso dire, anche di pregio.[1] Oso dirlo cresciuto di pregio, senza tema di peccar d'immodestia, perchè vino della mia botte qua non ce n'è, sebbene io v'abbia speso intorno molta fatica. Noterai, che il numero delle novelle toscane è stato aumentato di molto: le più, tra le nuove, sono dono del Nerucci. Ma l'incremento maggiore del volume si deve alle Note. Ritroverai in esse tutte le novelle ambrosiane, che componevano la mia Novellaja Milanese[2] ed i Paralipomeni alla Novellaja Milanese,[3] le quali vengono così collocate di fronte o, per dir meglio, in calce alla versione fiorentina, facilitando il raffronto: anche quella raccolta, fatta sotto agli occhi tuoi, doveva esser posta sotto i tuoi auspici. Vi troverai inoltre, nelle Note, alcuni capricci, poche osservazioni filologiche, molti riscontri, molte citazioni. Vi ho riferito per intero lunghi squarci di libri piuttosto rari e che non si scartabellan volentieri. Avrei potuto far certo più e forse meglio: ma non ho voluto dare un carattere preponderantemente scientifico alla Novellaja, ned andare studiosamente a caccia di raffronti: ho solo allegati quelli, che, in questi anni, m'ero venuto notando nel corso delle mie letture. Quanti altri, che ho inciampati nel corso della ristampa, potrei aggiungervi adesso![4] Così viene alquanto rimosso uno de' biasimi rivolti dal D'Ancona alla povera Novellaja Fiorentina, nella Nuova Antologia. Ecco appagato in parte il suo desiderio di più copiosi raffronti. Non li ho aggiunti però, tel confesso, per seguirne i suggerimenti, anzi sol perchè m'è impossibile di aver sott'occhi bozze di stampa senza ricamarvi su. Qui, non potendo innovare nel testo, non potendo aggiungervi o modificarlo, mi avanzava solo di fregiarlo d'annotazioni e di corredar le annotazioni di postille. Quanto in ciò sia stato indiscreto, sel sa l'Editore, che ha visto raddoppiata la mole presunta del volume e della cui tolleranza ed arrendevolezza io rimango non men sorpreso che riconoscente[5]. Il D'Ancona mi biasimava anche di avere stenografato senza ritocchi; secondo lui, avrei dovuto fare come i fratelli Grimm e che so io. Ma io non ho voluto; mi piace far sempre a mio modo, perchè fo sol dopo aver maturamente pensato al da fare; mi ripugna il trascinarmi sopra falsarighe tedesche; nè soglio seguire gli esempi altrui, soprattutto poi quando non mi quadrano. Intendevo dar le novelle tali e quali m'erano state racconte, e c'era il suo perchè. Certo, mi sarebbe stato più facile il narrare rifacendo di pianta la dicitura; anzi, con più ci avrei messo di mio nel lavoro e più mi sarebbe tornato agevole e meno avrei trovato nojoso il compito. Ma mi stava a cuore di ritrarre esattamente la maniera, in cui fraseggia e concatena il pensiero il volgo; e non avrei raggiunto lo scopo, colorendo da me, con qualche lieve ritocco, qualche sfumatura, qualche velatura, qualche piccola sostituzione o correzione. Il disegno non mi era guasto dal ridurre a forma aulica le parole del vernacolo fiorentino; ma ogni menoma giunta od alterazione nella dicitura l'avrebbe sventato. Il Nerucci, che la pensa diversamente da me e che si proponeva un fine diverso, ha tenuto modo diverso nello scriver le sue novelle. Il ringrazio d'avermi impinguato il volume; le novelle, anche raccolte in quel modo, son preziose; ma non ritengo però il suo modo miglior del mio, preferibile al mio: tanto è vero, che, per parte mia, persevero nel mio[6]. Quanto alla vivezza, al brio ed all'evidenza, che sono il carattere comune e generale del parlar fiorentino, secondo il D'Ancona, e che in questo libro, sempre secondo lui, apparirebber di rado, ci sarebbe che dire. Sarebbe storto e stolto lo immaginare, il credere, che ogni fiorentino, sol perchè fiorentino, parli con vivezza, con brio, con evidenza. Qualità rare a Firenze, come dovunque; e che solo di quando in quando dimostra chi più largamente le possiede, in Firenze, come dovunque. Se l'eloquenza e l'efficacia nel dire non fossero dono concesso a pochi, non sarebber parse cosa divina a tutti i popoli, ned affascinerebbero e signoreggerebbero le menti ed i cuori degli uomini, come tutto giorno vediamo accadere. Non cadiamo, per carità, nelle ingenue ammirazioni del Giuliani e d'altri; falsissime ammirazioni. Parecchi ed anche non volgari uomini mi hanno deriso, per avere io, come a lor pare, sciupato il tempo in queste fatiche. Io non io sciuperò a provarne l'utilità. Mi rallegro bensì, che l'esempio da me dato e gl'incitamenti miei abbian mosso parecchi a raccoglier con amore le fiabe e le novelle, che corrono appo i volghi italiani; e nominerò con lode singolare i signori Domenico Giuseppe Bernoni, che ne diè fuori un volumetto in veneziano; e Giuseppe Pitrè, che ne ha pubblicata una raccolta voluminosa ne' vernacoli siculi. Anch'io, sia qui detto tra parentesi, ne ho una numerosa raccolta di più centinaja ne' dialetti delle Provincie meridionali, somministratami da parecchi amici e benevoli. Più anche mi rallegro, sapendo di averti fatta cosa grata, a te, che amo tanto. Felice me, se, quand'io avrò finito di penare e tu sarai ancor fiorente e felice, riprenderai talora con amore questo volume in mano, ripetendo la ingenua preghiera, ch'è scritta sopra un manoscritto del Fiore di filosofi e molti savî, conservato nella Riccardiana di Firenze:

Iddio faccia riposare in pace

L'anima di colui, che lo fece,

Questo libretto, che tanto mi piace.[7]

Addio, Gigia mia. Fa di volere un pochino pochino di bene al tuo vecchio amico, il quale, in questi tempi tristissimi, amareggiato dalle sciagure, cui soggiace l'Italia, dalle vergogne, che tollera ed in cui si compiace la patria nostra, stomacato da questa pretesa riparazione e dalla marea fangosa, che cresce sempre, minacciando l'esistenza stessa della Monarchia e dello Stato, diventa ognor più misantropo ed ipocondrico; ma non cessa dall'amarti dal profondo del cuore. Quando ci rivedremo? Addio. Ricordami alla mamma ed alla Marta, allorchè le scrivi.

Roma, 31. X. 76.

Imbriani.

NOTE

[1]La prima edizione della Novellaja fiorentina, formava un volume in sedicesimo di trecensessantasei pagine, oltre l'occhio ed il frontespizio. La Novellaja fiorentina | cioè fiabe e novelline stenografate | in Firenze dal dettato popolare e | corredate di qualche noterella da | Vittorio Imbriani. || Napoli | Tipografia Napoletana | MDCCCLXXI. V'era impressa in calce la seguente postilla:—«Di questo lavoro, che venne pubblicato nelle appendici del giornale napolitano La Nuova Patria, diretto dall'egregio Raffaele De—Cesare, durante i mesi estivi del MDCCCLXXI, sono stati tirati a parte soli cencinquanta esemplari. Alcune altre Fiabe e Novelline fiorentine vengon pubblicate dal raccoglitore delle presenti, nelle note ad un suo lavoro in corso di stampa, intitolato: La Novellaja Milanese | Esempi e panzane lombarde | raccolte nel Milanese | da | Vittorio Imbriani.»—

[2] Pubblicata sul Propugnatore di Bologna. Se ne tirarono a parte pochi esemplari con questo titolo: La | Novellaja Milanese | Esempii e panzane Lombarde | raccolte nel Milanese | da | Vittorio Imbriani || Esemplari XL || Bologna | MDCCCLXXII, e con la seguente dedica:

A' miei amici di milano

Se tant'è ch'io ve n'abbia.

(In 8.º di 120 pagg. oltre quattro innumerate, che contengono frontespizio e dedica). Vi erano in principio ed in fine due avvertenze, che riferisco, qui sotto, notando, che nel fondere la Novellaja Milanese con la Fiorentina, ho stimato bene di non riprodurre tre novelle, che erano nelle note a quella; cioè, una toscana, intitolata Il Convento delle Monache delle Fotticchiate[i] e l'altre due napoletane, intitolate l'una Voglio—fà', Haggio—fatto e Vene—mm'—annetta e la seconda 'U Barbiere. Null'altro ho ommesso, ed in compenso ho aggiunto parecchie novelline milanesi inedite. Ecco ora le due avvertenze.

AVVERTENZA

(Stampata in principio della Novellaja Milanese)

Da parecchi anni, io raccolgo fiabe e novelline popolari. Finora ho sempre accumulato materiale, proponendomi di pubblicare in seguito ogni cosa insieme, ravvicinando e confrontando le diverse lezioni del medesimo racconto, diverse per dialetto e pel modo, in cui svolgesi il tema. Adesso, riflettendoci meglio, ho risoluto di stampare separatamente le novelle raccolte in ciascun dialetto. Procrastino il lavoro di raffronto e di paragone, pel quale è necessario un accumulo preventivo di materiale, che da un solo mal può procacciarsi. Se a me non riuscirà mai di eseguirlo, altri più felice sottentrerà prima o poi nel mio luogo; e mi sarà merito l'avergli agevolato il compito. Comincio dal mandar fuori un gruzzoletto di fiabe, facezie e novelline lombarde, raccolte in Milano stessa e nel contado. Le ho stenografate, mentre si narravano da contadine, operaje, domestiche; e quindi trascritte senza farmi lecito di mutar sillaba alla dicitura ingenua primitiva. Non ho cancellata una ripetizione, non un foderamento di parole; non ho supplito lacune. Avrei stimato delitto l'alterar checchessia, anche dove fondatamente poteva credere di migliorare. Malgrado l'ajuto benevolo di parecchi amici, non posso persuadermi di non essere incorso in errore di sorta: è sempre grandissima temerità l'affaccendarsi intorno ad un dialetto, del quale non s'è udito sillaba prima del sesto lustro. Ma dove nessuno fa, chi pel primo fa, quantunque non faccia se non mediocremente, ha forse dritto almeno a qualche indulgenza. Forse! e forse anche la temerità sua merita di venir esemplarmente scorbacchiata e castigata. Della utilità d'un simigliante lavoro per la mitologia comparata, perla novellistica e per la filologia, credo inutile parlare, perchè non suppongo esista al mondo chi la revochi in dubbio. Risparmio al lettore lunghe note intorno alle origini ed alle vicende di ciascuna novella o fiaba; e voglio solo aver dichiarato, che, con questi ventotto racconti, non pretendo mica di aver dato tutte le tradizioni orali di Lombardia, nè la miglior versione di ciascuna delle tradizioni raccolte. So benissimo esser questo lavoro di quelli, ne' quali non può mai farsi tanto, che non rimanga da fare altrettanto e più.

Firenze, xxiii Marzo mdccclxx.

AVVERTENZA

(Stampata già in fine della Novellaja Milanese)

Nel terminare, dopo meglio che due anni, da che venne incominciata, questa pubblicazione, crederei mancare ad un dovere, ad un obbligo sacro, se non vi apponessi un ringraziamento pel chiarissimo commendator Zambrini, alla cui bontà e benevolenza debbo di averlo potuto condurre a termine. Degni l'egregio uomo gradire questo pubblico ringraziamento, come documento della mia gratitudine non efimera. Del lavoro stesso dirò, ch'io non ne sono gran fatto contento. Sapevo, nell'imprenderlo, di non trovarmi in condizione da condurlo bene; sapeva, nel cominciarne la stampa, di aver fatta cosa mediocre: veggo ora anche più apertamente i difetti dell'opera. Sulla tomba dello scultore Flaminio Vacca Romano, nel Pantheon d'Agrippa, è scritto: in operibus, quæ fecit, nusquam sibi satisfecit[ii]. Sono un po' come il Vacca e riconosco volentieri, che ogni scritto mio non val gran cosa; e non aspetterò mai, che altri me ne scopra le magagne, per accorgermene. Ma ripeto quel, che dicevo, principiando la stampa di questa raccolta di fiabe milanesi:—«Dove nessuno fa, chi pel primo fa, quantunque non faccia, se non mediocremente, ha forse diritto almeno a qualche indulgenza.»—Specialmente la spero da' milanesi. E naturale, che, stenografando queste fiabe, abbia talvolta frainteso; che, nel trascrivere, abbia spesso errato; che l'ortografia non sia sempre giusta. Ripeto, io non ho udito sillaba di meneghino prima del sesto lustro. Forse, anzi senza forse, non ho incontrato le migliori novellatrici di Milano; forse, narrando in presenza mia, quelle persone si credevano in obbligo di nobilitare, di aulicizzare il dettato loro, più che non sogliano fare nelle veglie od innanzi ad un crocchio di fanciulli tutti milanesi (perchè già un poco il nobiliteranno sempre nel narrare, in Milano come a Napoli, come in Toscana e come in ogni altro luogo). Ma sarò troppo lieto, se un Ambrosiano puro sangue, per mostrarmi come avevo a fare, vorrà sobarcarsi ad una fatica consimile. Non pretendevo se non dare un esempio; non mi considero se non come un precursore. Fortunato, se potrò destare in altri l'amore per questi studî. Almeno sarà pruova dell'assoluta comunanza d'interessi e di studî fra tutti gl'Italiani; dell'affetto profondo con cui le varie provincie si amano; del sentire ciascuna di esse come cosa propria anche ciò, ch'è più speciale delle altre; questo fatto, che sarebbe stato impossibile fino a pochi anni sono: cioè, l'aver dato fuori un Napolitano di Napoli la prima raccolta di esempi e panzane milanesi.

Roma, xv Giugno mdccclxxii.

[i] Il Liebrecht annota:—«Es ist nichts anderes, als eine ins Volk gedrungene Version von Strapar. IX, 4. (vgl. Dunlop—Liebrecht S. 497 zu Morlini, n.º 726; Pfeiffer's Germ. I, 270. Von dem Moler mit der schön Frauen.»—Cf. Sacchetti, Nov. LXXXIV, del dipintore Sanese, ecc. ecc.)

[ii] Gli è quel Vacca appunto, che ha scolpito uno de' leoni, che sono sotto la loggia de' Lanzi in Firenze. Ecco per intero l'epitaffio:

D · O · M ·

FLAMINIO · VACCÆ ·

SCULPTORI · ROMANO ·

QUI · IN · OPERIBUS · QUÆ · FECIT ·

NUSQUAM · SIBI · SATISFECIT ·

[3] Pubblicati sul Propugnatore di Bologna: se ne tirarono una trentina di estratti. Eran tre novelle: La coa, La sciora e la serva, El cœugh. Le due ultime vengon qui ripubblicate, la prima è stata incorporata in un altro mio lavoro, che vede la luce contemporaneamente al presente, sotto il titolo: XII Conti | Pomiglianesi | con varianti | Avellinesi, Montellesi, Bagnolesi, | Milanesi, Toscane, Leccesi, ecc. | Illustrati da | Vittorio Imbriani || Napoli | Libreria Detken e Rocholl | Piazza Plebiscito | M.DCC.LXXVI.—A' Paralipomeni era premessa un'avvertenza, in data di Roma 10. II. 73. che diceva:

—«Capitato l'autunno scorso in Lombardia, per meno d'una settimana, ebbi pure occasione di raccogliere la fiaba e le due novelline seguenti, che debbo all'amicizia benevola dell'egregio commendator Zambrini di poter qui pubblicare, come una prima Appendice alla Novellaja Milanese. Spero di poterne aggiungere quandochessia altre, attingendo a quella fonte inesauribile, ch'è la tradizione popolare. A coloro, che si occupano di cosiffatti studî e che bramassero maggior copia di riscontri, indicherò un articolo del prof. Felice Liebrecht, traduttore tedesco del Pentamerone, negli Annali letterari d'Heidelberg (Heidelberger Jahrbücher der Literatur; numero quadragesimoquinto dell'annata mdccclxxii). Il dotto mitologo, ragionando appunto della mia pubblicazione, addita per ciascuna fiaba o novella, non picciol numero di riscontri ed analogie.» ecc. ecc.—riferendo i riscontri indicati dal Liebrecht allo esempio Èl Tredesin, Vedi pag. 340 del presente volume.

[4] Voglio solo aver indicato qui, che la Novella del Lando, riferita a pag. 113 nella quarta Nota alla Novella VII e trattata anche dal Firenzuola, si ritrova pure presso il Bebelio, con alcune modificazioni:—«Erat cuidam civi Augustensi pica humanam vocem edocta, quæ cum saepe audisset famulum proclamare, vinum domini quatuor denariis vendi, clamavit et ipsa. Cum autem nocte quadam palmites vitium ex pruina magno incommodo affecti essent, ut vina postridie duobus denariis carius venderentur, proclamavit nihilominus pica vinum quatuor denariis: unde magnus concursus populi ad domum domini factus est pro emendo vino, quod alibi sex denariis venderetur, adeo ut iurgiis virum impeterent, quod virum non daret uti proclamasset. Quare concitatus dominus, picam in lutum deiecit Quæ, cum sublevata esset, vidit suem accedentem, qui totus erat lutosus et stercore inquinatus. Ad hunc pica: Proclamasti ne, inquit, etiam vinum quatuor denariis? Putavit enim uti se, ita et suem in lutum deiectum, quod vinum quatuor denariis proclamasset»—

A pag. 313 aggiungerei volentieri l'esempio seguente di una condanna pronunziata dal colpevole stesso in proprio danno. Racconta Ludovico Domenichi nelle Facezie.—«Il Re Lodovico decimo di Francia, facendo un convito a' suoi Baroni, disse che il Re d'Inghilterra, suo zio, gli aveva scritto et domandato il parer suo; che pena aveva meritato un servitore ignobile, il quale avea tradito un suo nobilissimo Signore. Era a tavola Eberto, il quale, non sapendo che ciò fusse detto per lui, domandato del suo parere, rispose: che colui meritava il capestro. Et così condannato di sua bocca et strascinato dal convito, venne impiccato per la gola. [Il meschino si diede la sentenza contra da sè stesso.]»

[5] L'Edizione è riuscita molto corretta. E poi, come dice un poeta vernacolo:

Pe' quacche errore, che trovato avisse,

O lejetore mmio, drinto 'ste carte,

Mormorare è bregogna, ca chest'arte,

Porzì ad Argo la fa, comm'autro disse.

Solo voglio avvertire, che a pag. 276, linea 7 va letto pacchia e pecchia, invece di pacchia e pacchia; e che a pag. 337, linea 21 s'ha da porre c' 'o agliaro, invece di co' agliaro e cancellare del tutto la postilla (a). Per gli altri errori o dell'autore o del tipografo, ci raccomandiamo alla indulgenza del benevolo leggitore.

[6] Il D'Ancona, del resto, ripeteva solo un appunto più temperato del Liebrecht:—«Imbriani hat es sich angelegen sein lassen, das ihm Erzählte stenographisch aufzuzeichnen, in der augenscheinlichen, nur zu billigenden Absicht, damit lediglich das wirklich im Volksmunde Vorhandene, ohne alle fremde Zuthat wiedergegeben werde. Allerdings entspringt aus dieser unveränderten Wiedergabe des Vernommenen eine gewisse, auf die Dauer ermüdende Unbeholfenheit der Erzählung, wie sie meist dem Volke eigen ist, und welche durch eine leichte, mit vorsichtiger Hand geübte Nachhülfe, wie sie in unübertroffener Weise in den Grimm'schen Mährchen in Anwendung gebracht ist, hätte beseitigt werden können, ohne dass die Treue der Darstellung irgend welchen Abbruch zu erleiden branchie. Andrerseits wird Dem, welcher die eigentliche florentinische Volkssprache genau kennen lernen will, allerdings durch wortgenaue Aufzeichnung einer so grossen Zahl von Erzählungen ein umfangreiches Object zum studium jenes Dialects geboten, so dass der berührte Nachtheil durch diesen Vortheil wieder aufgewogen wird.»—

[7] Curiosissima sarebbe una raccoltina di tutti i versicoli, che s'era prima soliti a scrivere da' proprietarî su' frontespizî de' manoscritti e de' libri a stampa. Qui mi basta citar una quartina, che si legge sopra un codice modanese del Decameron:

Tu, che con questo libro ti trastulli,

Rendimel tosto e guardal da' fanciulli;

E fa con la lucerna non s'azzuffi,

Se tu non vuoi, che nell'olio s'attuffi.

Gli scolaretti tuttora disegnano rozzamente un impiccato, e vi scrivono sotto:

Aspice, Pierino appeso. Quid hunc librum non ha reso; Si hunc librum reddidisset, Pierino appeso non fuisset.

Scrivono anche talvolta la tiritera seguente:

Questo libro è di carta.

Questa carta è di straccio.

Questo straccio è di lino.

Questo lino è di terra.

Questa terra è di Dio,

Questo libro è il mio.

Se piacesse a qualcheduno,

Se ne vada a comprar uno;

Quando io lo comperai,

. . . . . . soldi lo pagai!

E facendo oh! oh!

Questo libro non è il to'!

E facendo ih! ih!

Questo libro lascialo lì!

La novellaja fiorentina

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