Читать книгу La novellaja fiorentina - Vittorio Imbriani - Страница 7
III.
ОглавлениеLA VERDEA[1].
C'era una volta un legnajolo di corte, e aveva tre figliole. Queste eran ragazze. Dunque il Re gli comanda di andare a fare un lavoro fori via, ma di molto; per cinque o sei anni. Quest'omo non poteva dire:—«Non ci vado!»—A voler mangiare!... Ma gli rincresceva d'andarsene lontano, in un paese, per affare di quattro o sei anni di lavoro. Torna a casa dalle figliole tutto inconsolabile, afflitto; e gli dice:—«Ragazze, Sua Maestà m'ha ordinato questo lavoro. Bisogna ch'io vada via, ch'io vi abbandoni. Ma voglio una grazia da voi.»—«Qual'è, babbo,»—dice—«la grazia?».—Che voi vi contentiate ch'io vi muri l'uscio.»—Dice:—«Oh come questo è, noi siamo contentissime!»—E così quest'omo fa murare la porta. Gli mette tutto tutto tutto quello necessario; gli lascia quattrini; e gli dice:—«Prendete questo bel paniere grande, e la fune del pozzo. E quando passa questi omini che vendon la roba, calategnene, e comprate quel che volete e così mangerete. E addio!»—«Addio!»—Le bacia: potete credere, gua', che pianti! E gli fa finire di murare la porta, perchè ne avea lasciato un pochino per passare; e si mette in viaggio[2]. Lasciamo che Sua Maestà stava dalla parte di dietro del palazzo, affacciato alla finestra. Ed appunto rimaneva di faccia alle finestre di queste ragazze; e le erano tutte e tre alla finestra sulle ventitrè, facevano per prendere un po' d'aria. Gli vien voltato l'occhio per caso e vede queste tre belle ragazze; che l'eran proprio di latte e sangue, belle! Non istà a dire:—«Che c'è stato?»—La mattina si veste da poerone con un paniere di fila d'oro, e va girando:—«I' ho le belle fila d'oro! I' ho le belle fila! I' ho le belle fi'!»—E le ragazze dice:—«Si chiama quest'omo? Intanto che si sta chiuse si farà un bel lavoro, via.»—Lo chiamano; e lui:—«Comandino, cosa vogliono, signore?»—«Quanto le fate le fila d'oro?»—Gli dice il prezzo e loro gli calano i quattrini. Cari l'erano: il prezzo proprio non lo so, ma potrei anche dire immaginandolo. Dirò uno zecchino.—«Ma badino»—dice il Re—«le pesan di molto.»—«Eh!—dice loro—«siamo in tre! «Diamine, che in tre non s'abbiano a potere?»—E che ti fa, lui? S'attacca alla fune, al paniere; e su. Loro credon che le sian le fila d'oro che pesano e invece gli era il Re proprio. Loro, quando vedono che gli era un omo, loro non raccapezzano, no: lo volevan buttar di sotto. Ma lui disse:—«Ferme! sono il Re!»—e s'afferrò alla finestra.—«Avendo saputo che voi èrate sole, son venuto a farvi compagnia.»—Queste ragazze, potete comprendere, vergognate in quel momento, perchè poere; e dissero:—«Maestà, perdonate: noi siamo poere ragazze. Non vi si pol ricevere com'è il vostro merito. Ci vorrebbe altro!»—«Ah!»—dice—«Niente, niente! Io non ricerco la ricchezza. Io vengo da voi perchè di certo so che siete tanto bone ragazze. Ed io vengo per passare un'ora con voi. Quanto mi rincresce»—dice—«che non ci sia vostro padre! perchè io do tre festini: e m'incresce, perchè voi poerine non possiate venire.»—Le fanciulle gli fanno i complimenti:—«Troppo garbato, Maestà, troppo garbato.»—«Ma»—dice—«quando ci sarà vostro padre, io ne darò degli altri ed allora vo' ci verrete.»—Si trattenne un altro poco, un'altra mezz'ora, dirò; e poi gli dice:—«Addio, addio a domani.»—Si rimette nello stesso panierino, e loro lo ricalano con la stessa fune, come gli è salito. Lui va al palazzo e le ragazze rimangon lì chiacchierando di questa cosa. Dice la minore:—«Che credete che questa sera vo' non abbiate a calarmi?»—a calar giù ancora lei.—«A fare icchè»—dice le sorelle—«ti s'ha a calare?»—«Voi mi dovete calare e non ricercare quel ch'io farò.»—Dunque insisteva. Loro di no; e lei sempre:—«Voi mi calerete, vo' m'avete a calare.»—S'erano stancate: dicevan di no e lei la diceva sì.—«Vuoi calare? e tu cala!»—e con la fune la calarono. Questa ragazza l'avea preso un paniere grande. Va all'usciolino secreto di Sua Maestà. Sta in orecchi; non sente nessuno. Lesta lei principia a salire e entra nella cucina. E siccome[3] tutte le guardie erano a guardare, sapete bene, là dove s'appartiene, qua non ci pensavan neppure. Che ti fa? La prende tutte le meglio robe, tutto arrosto, potete immaginare cosa ci sarà stato! e mette tutto nel paniere la meglio roba. E poi l'altra roba, quello che era rimasto lì per Sua Maestà, tutto cenere e acqua, la gnene sciupò tutta. E poi la va via, e va in cantina: prende i meglio vini, le meglio bottiglie, tutte le qualità che lei poteva prendere. E poi dà l'andare a tutte le botti, bottiglie e tutto quel che rimase; e vien via. Corre verso casa.—«Tiratemi su! tiratemi su!»—alle sorelle.—Eccoti le sorelle la tiran su: e videro un paniere di roba, pieno d'ogni grazia di dio. Gli domandano:—«In che maniera?»—E lei:—«Zitto! ve lo dirò. Serrate le finestre e ve lo dirò!»—Serrano e gli dice:—«Io sono stata così da Sua Maestà. Ho fatto questo e questo. Ho preso tutta la meglio roba; e poi ho spento con cenere la roba da mangiare ch'era rimasta. E poi ho dato l'andare alle botti.»—Dice le sorelle:—«O cos'hai tu fatto!»—«Pensiamo a mangiare»—dice—«e non pensiamo ad altro.»—Venghiamo a Sua Maestà che di certo dopo aver ballato, ordina che gli sia messo in tavola: in tutti i festini ci è il suo buffè. Vanno i cuochi in cucina e trovan questo spettacolo. Rimangon più morti che vivi, addolorati molto, perchè non sapevan loro quel che dovevano andare a dire a Sua Maestà. Sua Maestà insisteva:—«Mettete in tavola!»—Allora un di quelli disse:—«Maestà, abbiate la bontà di venir con noi, e vedere la disgrazia che n'è seguita.»—«Ah bricconi!»—dice—«Traditori! Uno di voi gli è che m'ha fatto questo spregio!»—Loro gli si buttano ai piedi piangendo:—«Maestà, noi siamo innocenti!»—«Ah!»—dice—alzatevi. Almeno andate in cantina a prendere qualcosa da bere.»—E va da' signori e dice:—«Signori, ci è questo e questo. Si contenteranno di rinfrescarsi. Ormai la disgrazia qui c'è: qualche astro maligno, qualche fata che mi vol male assoluto.»—Gli òmini di corte vanno alla cantina e trovano il lago, più di mezz'omo. Urlano!—«Maestà, abbiate bontà di venire con noi, perchè...»—Va giù e vede tutto un lago, tutto buttato. Torna in su e dice a' signori:—«Signori, abbiano bontà. Veggon bene, non ho neppure da dar loro a rinfrescarsi. Questi birbanti chi sono?»—E piangeva per la vergogna.—«Ma domani sera, signori, metterò le guardie doppie. Così non seguirà. Perchè il primo che io posso scoprire, il pezzo più grosso dev'essere un chicco di rena. Questo ladro, questo birbante...»—I signori si licenziarono a corpo voto e Sua Maestà si mette a piangere; e pianse tutta la notte dicendo sempre:—«Sconta[4] delle mie bambine, che mi voglion tanto bene, con questi traditori che mi voglion tanto male.»—Venghiamo alle ragazze.—«Oh!»—dice—«tra poco c'è da aspettarselo, Sua Maestà; c'è da vederlo, gua', chè ce lo promesse. Non facciamo vistosità che s'è fatta questa cosa.»—E così, dopo un quarto d'ora, Sua Maestà:—«Ho le belle fila d'oro![5]»—«Eccolo!»— dice. Gli calan la fune, e lui vien su; afflitto, con gli occhi rossi.—«Maestà, cos'avete oggi?»—gli dicono.— «Ah le mie bambine, ora vi conterò quel ch'i' ho,»— dice.—«Vi ricordate voi ieri che io dissi, che io dava tre festini?»—«Sissignore.»—«Abbiate da sapere che ieri sera all'ora che io doveva far mettere in tavola, i miei vanno in cucina e trovano tutta la roba con cenere e acqua, tutto straziato, ma uno strazio impossibile a dirlo. Loro rimasero più morti che vivi, questi miei servitori. Io insisteva che mettessero in tavola. Allora si buttarono ai piedi e dissero: Maestà, venite a vedere il caso brutto che è seguito. Ed io gli dissi: Ah, traditori, bricconi, uno di voi siete. Loro si gittarono ai piedi e conobbi bene la sua innocenza. Ma qui un astro maligno c'è, o una fata; o un traditore c'è. Ma se io lo scopro dev'essere più grosso un chicco di rena della sua persona! dev'essere spezzato più fine che un chicco di rena.»—«Ma come si fa a fare queste cose?»—gli rispondono le ragazze.—«Mentre che il Re è tanto il bon signore. Come si fa a fargli questi strazii di buttargli la roba?»—«Oh, ma stasera ci sono le guardie doppie, oh!»—Egli fa come a dire, gli pare d'averla tra le mani questa persona. Si trattiene un altro poco, poi se ne va:—«Addio, addio, a domani.»—Quando gli è verso le ventitrè, dice la sorella minore:—«Che credete voi che non abbiate a calarmi stasera?»—Dice le sorelle:—«Oh questa sera poi, non ti si calerà davvero. Avresti aver sentito! Gli ha detto, s'egli scopre questa persona, gli ha da essere più grosso un chicco di rena. Noi non ti si cala.»—No e sì, no e sì, bisogna che la calino, son costrette a calarla. Quando l'hanno calata, lei via dall'usciolino solito. Sta in orecchi, cheh! non sente un'anima. Tutti erano attenti dove potevan credere che venivan le genti, ma di qua non c'era nessuno, non sapevan dell'usciolino segreto. La ragazza lo sapeva, perchè gnene aveva detto suo padre. Prende tutta la roba più dell'altra sera, perchè c'era più roba e più squisita; e fa l'istesso: quello che rimane tutto cenere ed acqua e tutto un piaccicume. Va alla cantina e piglia la meglio roba che ci possa essere, mah! bottiglie più squisite, sempre più della prima volta. La dà l'andare alle botti e poi la scappa a casa.—«Tiratemi su, tiratemi su!»—Va su; e le si mettono a mangiare in festa, tutte allegre. Venghiamo a Sua Maestà, che dice ai signori:—«Questa sera non è come ieri sera, no! Io ho messo le guardie doppie.»—«Mettete in tavola!»—dice ai cuochi, alla servitù. Vanno in cucina e trovano peggio dell'altra sera: tutto cenere, acqua; un marume.—«Maestà»—dice—«abbiate la bontà di venir di qua da noi.»—«Ahn? forse ci sarebbe lo stesso tradimento?»—«Maestà, venite a vedere.»—«Ah traditori, ora poi conosco che siete voi davvero. Con le guardie doppie non è entrato qui nessuno.»—Questi urlavano appiedi:—«Maestà, salvateci! siamo innocenti.»—Maestà dice:—«Qui c'è qualcheduno che mi vole un male a questo punto! Alzatevi, io vi perdono. Andate almeno in cantina: questi signori scuseranno, e si contenteranno di rinfrescarsi.»—Vanno alla cantina, e se la prima sera gli veniva sin qui a mezza persona, questa poi non si poteva neppure entrare, si affogava dal lago. Maestà è costretto a dire a que' signori:—«Vengano a vedere la disgrazia che ho addosso. Non solo... ma che quest'astro maligno vi sia e di non lo potere scoprire!»—E quei signori ebbero a andare con le trombe nel sacco, come si suol dire, senza prender niente, quella seconda sera.—«Ma»—dice il Re—«domani sera ci sto in persona io.»—Vanno via. Venghiamo al Re che dà in un dirotto pianto. Piange sempre dicendo:—«Le mie povere bambine quanto mi voglion bene, e questi traditori quanto mi voglion male!»—Venghiamo alle ragazze.—«Oh!»—dice—«badate! Non ci sarà molto, che ora verrà Maestà. Procacciamo di non fare vistosità, sennò noi siam morte.»—E così dopo mezz'ora, ecco Maestà con le fila d'oro: non avea nemmanco fiato.—«Oh»—dice—«eccolo! coraggio!»—Calan la fune e lui va su, più morto che vivo.—«Felice giorno, Maestà. O come va? che si sente male?»—Un viso gli aveva, morto. Dice:—«Ah le mie bambine, voi non sapete! Iersera fu peggio dell'altra sera il tradimento.»—«Ah, ma come mai, signore? gli è tanto il bon signore! che gli debban fare queste cattività?»—«Eh, ma stasera ci sto in persona. Non ci sarà scusa. Eh se lo posso avere!... se io posso scoprire!... vi replico quel ch'io vi dissi: il chicco d'arena dev'essere più grosso di questa persona quando lo mando in tritoli.»—«Oh l'ha ragione! È tanto il bon signore!»—le replicano. Sua Maestà va via dopo essersi trattenuto un'altra mezz'ora. Ci era andato per passarvi un'altra mezz'ora, non per fin di nulla, via. Quando gli è andato via:—«Che credete che stasera non mi abbiate a calare?»—disse la minore di tutte.—«Ah che non ti si cala davvero noi, stasera. Non ti si cala; e si scriverà al babbo in qualche maniera, perchè noi non si vole di queste cose.»—Che volete? Sì, no, si, no; furono costrette a calarla anche stasera. Figuratevi, entra nell'usciolino: chè se la prima sera ci era d'ogni bene di dio, l'ultima non si pole spiegare, ecco! Prende il suo paniere e comincia a metter roba, tutta la più meglio che ci fosse. L'altra, fa il solito: tutt'acqua e cenere; la mette giù nel camino tutta sciupata come l'altra sera. E va in cantina. Scende in cantina, prende il meglio vino e le bottiglie le migliori[7], poi si volta e vede un vaso di verdea. Lesta lei, lo prende e lo mette nel panierino. Dà l'andare alle botti, poi lesta a casa:— «Tiratemi su, tiratemi su!»—La va su a mangiare con le sorelle. Lasciamo là quelle che sono in gaudeamus, a cenare come principesse, e venghiamo a Maestà che dice:—«Signori, stasera non sarà come l'altra sera: ci sono stato da me a guardare.»—E questi signori tutti contenti dentro di sè. Ora ordina di mettere in tavola. I cochi entrano in cucina e veggono più cento volte straziato delle prime sere. Più lesti andierono da Sua Maestà, perchè:—«Se stasera»—dice—«c'è stato da sè, non ci pole incolpare.»—«Maestà, venite a vedere.»—«E cosa c'è da vedere?»—«Venite a vedere»—dice. Va a vedere, che? figuratevi la cosa!—«Qui c'è un astro maligno, qualche fata che si gioca di me!»—Va dai signori:—«Signori, siamo alle medesime. Venghino a vedere anche loro!»—Poveretto, gua'. Vanno alla cantina, figuratevi, tutto un lago: non si vedeva proprio dove andare. Tutto cascato il vino e poi tutto mescolato. Dice a questi signori che gli abbino pazienza, ma che dei festini non ne dà più, perchè non poteva dar loro nemmanco da rinfrescarsi. Tutto un lago giù, non ci si raccapezzava nulla. Piangendo, sospirando, gli pareva mill'anni d'arrivare alla mattina, d'andare alle sue bambine. Dice:—«Le mie povere bambine quanto mi voglion bene, e questi traditori quanto mi voglion male!»—Per tornare un passo addietro, queste ragazze:—«Dove si metterà»—dice—«questo vaso di verdea?»—La verdea, l'è roba che si mangia come una conserva, io m'immagino; ma cosa sia appuntino io non so[8]. Le non ci avevan posto: pensano di metterlo sotto al letto, rimpetto alla finestra, questo vaso. Eccoti Maestà:—«Ho le belle fila d'oro! ho le belle fila! ho le belle fi'.»—«Eccolo, eccolo! per l'amor d'iddio non ci facciamo conoscere. Ci vuol coraggio, gua'.»—Calano il paniere, le funi solite; lo tiran su. Piangeva a calde lacrime.—«Oh Maestà! Ma cos'avete?»— lo vedevan troppo disperato.—«Ah quel ch'i' ho? Peggiore di tutte l'altre sere! Non basta essere stato da me in persona. Questo è qualche astro maligno o qualche fata. Ma io non ne darò mai più di questi festini.»—Discorrevano del più e del meno, loro dicendo sempre:—«Tanto bon signore!»—e sempre replicavano questa parola. Sua Maestà si è trattenuto altra mezz'ora, come il solito, da queste ragazze, e se ne va:—«Addio, addio, a domani.»—Nel mentre le ragazze lo calano, lui vede il vaso della verdea sotto il letto:—«Oh traditore!»—gli dice, e fa per ritornare su in casa. E loro lo buttano di sotto senz'altri discorsi. Chi lo buttò fu la sorella minore. Sua Maestà si fece un male, ma male passabile. Lascio considerare le ragazze maggiori come rimasero, dicendogli, alla sorella:—«Qualunque sia il caso, la rea tu siei te. Noi non ci s'ha colpa.»—Venghiamo a Maestà. Va nel suo quartiere e subito scrive al suo padre, delle ragazze, una lettera fulminante: che in due ore e mezza, lui fosse al palazzo, altrimenti, pena la testa. Lascio considerà' quest'omo nella massima disperazione, pensando a più cose e non sapendo perchè Sua Maestà gli avea detto per sei anni e in capo a pochi giorni lo manda a chiamare:—«Eh, qualcosa ci è!»—dice.—«Le mie figliole non possan essere, perchè gli ho murato l'uscio; impossibile!»—Si mette in viaggio, più morto che vivo con questa pena, con questo pensiero; e arriva al palazzo. Dice:—«Sua Maestà mi ha mandato a chiamare.»— E così Sua Maestà sente che gli è arrivato, dice:—«Fatelo passare.»—E passa quest'omo.—«Che mi comanda Sua Maestà?»—«Mettetevi a sedere»— dice. E quest'omo si mette a sedere.—«Ditemi, quante figlie avete voi?»—Lui, si sente una stilettata, perchè:—«qualcosa c'è sulle mie figliole!»— Dice:—«Tre, Maestà.»—«Bene: si potranno vedere queste tre figlie?»—«Maestà, quando Lei voglia. Ma si ricordi, che noi siam poverelli, noi. Non si pò riceverla come Lei meriterebbe di certo.»—«Non m'importa!»—disse Sua Maestà.—«Io bramo di conoscerle; ed una di loro la voglio in isposa.»—Quest'omo si butta a' piedi dicendo:—«Maestà, io sono un pover'omo. Impossibile che voi vogliate abbassarvi a prendere una delle mie figliole.»—«Oh io vi replico che una di tre io la voglio.»—«Allora,»— dice—«Maestà, mi permetterete che io faccia smurare l'uscio, perchè io gli ho lasciato l'uscio murato. E allora potremo andare.»—Va e fa buttare giù l'uscio, e va su dalle figliole, tutto... non sapeva nemmen lui quel ch'egli era.—«Oh babbo!»—Gli fanno le feste, lascio pensare.—«Oh babbo, ben tornato. In che maniera così presto?»—«Maestà mi ha mandato a chiamare, e io son dovuto tornare, eh. E mi ha detto:— «Quante figlie avete?»—Loro, figuriamoci, le maggiori, il suo core dove gli andiede:—«Ci siamo, gua'!»—«E io gli ho detto: Tre, Maestà; tre figlie ho.—Si potrebbero vedere? Io gli ho detto: Maestà, sapete bene, noi siamo poveri; non vi si potrà ricevere secondo il vostro merito. E lui ha detto: Cheh! no, no, vi replico; io voglio vederle, perchè una di tre la voglio per isposa. Quella che mi vole.»—La maggiore dice a suo padre:—«Io no, io non lo prenderei davvero.»—La seconda:—«Neppure io, sa, babbo; perchè...»—La minore:—«Lo prenderò io»—dice.—«Io lo prenderò volentieri.»—Eccoti Sua Maestà che viene in casa con suo padre e va su, e si mette a parlare, a discorrere del più, del meno. Suo padre è costretto a dirgli:—«Sua Maestà una di voi vi accetta per isposa.»—La maggiore dice di no:—«Non per... ma che vole! ci vorrebbe altro! io non posso essere capace...»—La seconda l'istesso:—«Noi non siamo istruite, quel che Lei merita.»—La minore dice:—«Lo prenderò io, io sono contenta.»—Era lei che aveva fatta la mancanza. Ecco, conchiudono le nozze; fecero presto, in quattro o sei giorni. Così il giorno dello sposalizio, dopo l'anello, un momento di libertà ci vole. La gli dice alle sue damigelle:—«Io voglio fare una celia al Re.»—«Cosa, signora, vol fare?»—«Stai zitta. Io voglio fare una celia. Voglio far fare una donna tutta di pasta, e da qui in su tutta zucchero e miele: e poi ci siano ordinghi da potergli fare dire di sì e dire di no.»—Figuriamoci, non aveva finito d'ordinare che gli era bell' e fatta!—«Perchè la voglio mettere nel letto, voglio fargli una celia al Re. Come a dire invece d'io[9] che ci sia questa donna di pasta[10].»—Ed appena fatta, la fa mettere in letto con la berretta, tutta vestita, come se la fosse stata lei in persona. Dopo pranzo, dopo la cena, dopo tutta l'allegria, vien l'ora di coricarsi. E chiede lei d'andare prima un momento a letto. Invece di spogliarsi entra sott'il letto e si prepara con questi ordinghi, se mai, a tirare e a dire di sì e di no. Venghiamo a Maestà che dice ai servi:—«Non occorre che mi spogliate stasera: faccio da me.»—Entra in camera, e serra. E dice:— Briccona! Ti ricordi eh, quando io diedi tre festini e mi eran fatti quegli spregi; e che te andavi dicendo: è tanto bon signore!, traditora.»—Lei, sotto al letto:—«Sì, me ne ricordo.»—E tirava i fili, perchè dicesse sì la donna di pasta.—«Ah, te ne ricordi, eh?»—«Sì»—la dice.—«Me ne ricordo.»—«Adesso è tempo della mia vendetta.»—Prende la spada e va al letto e la ferisce; via, ferisce quella bambola ch'era lì coricata. E gli spruzza tutto zucchero e miele.[11] E lui sentendo dolce, zucchero e miele, comincia a dire:—«Oh Leonarda mia di zucchero e miele! se io ti avessi ora ti vorrei gran bene.»—Lei dice:—«Io son morta.»—Lo dice, gua'! con una voce flebile. E lui insiste:—«Ah Leonarda mia di zucchero e miele! se ti avessi ora ti vorrei un gran bene.»—E lei ridice:—«Son morta.»—Quando la vede che lui gli era veramente per ammazzarsi (lui s'ammazzava), la sorte fôra e dice:—«I' son viva, son viva!»—S'attaccano al collo, si baciano, si perdonano, e nessun seppe nulla, perchè rimase in loro. Se l'ammazzava davvero, era morta: ma fu celia. La mattina s'alzarono, come fanno il solito. Leonarda la fece venire il padre e le sorelle e li fa i primi signori del palazzo. E così una cosa di celia, le riuscì di divenire una Regina. E visse bene, ma ci vol di quelle furberie.
NOTE
[1] È sottosopra l'argomento della Sapia Liccarda, Trattenimento quarto della terza giornata del Pentamerone:—«Sapia co' lo 'ngiegno ssujo, essenno lontano lo patre, sse mantene 'nnorata co' tutto lo male esempio de le sore. Burla lo 'nnamorato, e previsto lo pericolo che passava, repara lo danno. Ed all'utemo lo figlio de lo Rre sse la piglia pe' mogliere.»—Variante della presente è la fiaba di questa raccolta, intitolata: La bella Giovanna. La chiusa di questa novella (cioè, l'episodio della bambola) è identica con quella dello esempio milanese seguente, che è una fusione di due cunti del Pentamerone, cioè della Sapia Liccarda e di Viola (Trattenimento III della giornata II.—«Viola 'mmediata da le sore, dappò assaje burle fatte e recevute da 'no prencipe, a despietto loro le doventa mogliere.»—)
LA STELLA DIANA[i]
Gh'era ona voeulta on spezièe, che el gh'aveva ona tosa[ii]. L'era vedov, el gh'aveva minga mièe[iii]. El ghe voreva tanto ben a sta soa tosa; e lee, l'andava a imparà a cusì de biancheria in d'ona soa amisa. E sta soa amisa, ghe piaseva tanto i fior; la gh'aveva ona terrazza; e tutti i dopodisnàa[iv] l'andava a dacquà sti fior; e per contra gh'era on poggioeu[v] e gh'era semper là on scior. Lu el saveva, che lee, la gh'aveva nomm: Stella Diana. El ghe diseva:—«Stella Diana, quanti foeuj[vi] fa la soa maggiorana?»—E lee, la ghe dis:—«E lu, sur nobil cavalier, quante stelle gh'è in del ciel?»—Lu, el dis:—I stell che gh'è in del ciel non se pol contare.»—E lee, la ghe dis:—«La mia maggiorana non si può rimirare.»—E lu, el gh'aveva tant piasè de vedella de visin sta tosa, l'è andaa intes con quella dove l'era in casa lee; el s'è vestìi e l'ha fint de vess on pessee[vii], de andà là a vend el pess. Quella dove l'era in casa da laorà[viii], la ghe dis:—«Famm el piasè a toeu de quel pessin.»—E la ghe dis: cosse l'è ch'el voreva. E lu, el gh'ha domandàa on prezzi carissim. E lee, la gh'ha ditt che le voreva minga, che l'era tropp car. E lu, el gh'ha ditt de fagh on basin, ch'el ghe dava el pessin. S'ciao! lee, la gh'ha fàa el basin, e lu, el gh'ha dàa el pessin. Al dopdisnàa la torna anmò su la terrazza; e lu, el ghe torna a dì:—«Stella Diana, quanti foeuj fa la soa maggiorana?»—E lee, la ghe dis:—«E lu, sur nobil cavalier, quante stelle gh'è in del ciel?»—E lu, el dis:—«I stell che gh'è in del ciel non se pol contare.»—E lee, la ghe dis:—«La mia maggiorana non se può rimirare.»—E lu, el ghe dis:—«Per on pessin, la m'ha faa el basin.»—Lee, l'era rabiada perchè el gh'ha fàa sto scherz; e lee, la pensava de faghen vun a lu. L'ha miss ona bellissima zenta[ix] in vita, magnifica, e l'ha ciappàa ona mula, e l'è andada a cavall e l'è passada via dove el stava lu, a posta pe fass vedè, che la gh'aveva sta zenta inscì preziosa. E lu, l'ha veduda e l'ha ditt:—«Oh che bellezza d'ona zenta! come me piasaria, che la fuss mia!»—L'è andàa de bass, e gh'ha ditt cosse l'è ch'el voreva (perchè l'era vestida de omm) per quella zenta. E lu (che l'era lee vestida de omm) l'ha ditt[x]: che lu le vendeva minga; che chi ghe faseva on basin in del cùu alla soa mula, el ghe dava la zentura. S'ciao! e lu, l'ha guardàa, l'ha vedùu che gh'era nissun attorno e la zenta la ghe piaseva tant, el gh'ha fàa el basin, e l'ha ciappàa la soa zenta e via! l'è scappàa via subet. Al dopdisnàa tornen de capp: lee, in su la soa terrazza, e lu, in sul poggioeu. E lu, el ghe dis:—«Stella Diana, quanti foeuj fa la soa maggiorana?»—E lee, la ghe dis:—«E lu, sur nobil cavalier, quante stelle gh'è in del ciel?»—Lu, el dis:—«I stell che gh'è in del ciel non se pol contare!»—E lee, la ghe dis:—«Anca la mia maggiorana non si può rimirare!»—E lu, el ghe dis:—«E per el pessin, la m'ha faa el basin.»—E lee, la ghe dis:—«E per la zentura, el gh'ha basàa el cùu a la mia mulla[xi].»—Quand l'ha sentìi, che lee, la gh'ha faa sto desprèsi[xii], allora lu el pensa de faghen on alter anmò a lee. L'è andaa in dove l'era in casa lee a laorà e l'è restaa intèe de fagh on scherz. Al dopdisnàa, lee, l'ha faa per andà a cà, quand l'è in su la scala, gh'è i basej[xiii] con denter di sfor, di bus, che l'è la scala che sott ghe resta la cantinna. El se prepara là e menter che la passava el cascia su la man e el ghe tira la vesta. Lee, la diseva:—«Sura maestra, la scala mi tira, la scala mi lascia: gh'è nissun che mi abbraccia?»—Lee, la maestra, l'amisa, la diseva:—«Va, va, che la scala ti lascerà.»—Lee, adess la s'è ammalada e l'è stada on poo de temp senza podè andà a la soa scola. Dopo l'è andada e torna la stessa storia sulla terrazza. Lu, el ghe dis:—«Stella Diana, quanti foeuj fa la soa maggiorana?»— E lee, la ghe dis:—«E lu, sur nobil cavalier, quante stelle gh'è in del ciel?»—E lu, el ghe dis:—«I stell che gh'è in del ciel non se pol contare.»—E lee, la ghe dis:—«Anca la mia maggiorana non si può rimirare.»—E lu, el ghe dis:—«Per el pessin, la m'ha faa el basin.»—E lee, la ghe dis:—«Per la zentura, l'ha basàa el cùu a la mia mula.»—E lu, el ghe dis:—«Sura Maestra, la scala mi tira, la scala mi lascia; gh'è nissun che mi abbraccia? Va, va, che la scala ti lascerà.»—Lee, la sent sti robb tutta rabbiada, la pensa de faghen vunna pussèe[xiv] bella. Donca la va a cà del so papà e la ghe dis de faghel sto piasè, de dagh di danèe:—«ma tanti, perchè ghe n'hoo de bisogn.»—Lu, el ghe dis:—«Cosa te n'hê de fann?»—Lee, la dis:—«Tel diròo, quand gh'avaròo faa, quel che gh'hoo intenzion de fà mi.»—E l'è andada e l'ha pagaa di servitor de la casa in dove el stava lu, per lassalla entrà ona sera in di stanz in dove stava el so padron. E lee, la s'è missa on lenzoeu in testa, bianch; ona gran torcia in man e on liber; e al moment che l'entrava in stanza de lu l'ha pizzaa sta torcia. E lu, a vedè sta fantasma tutt'on tratt, con sto ciar a comparì, el s'è stremìi.—«Questa l'è l'ultima ora de la toa vita: ti te devet morì!»—E lu, tutt stremìi, el diseva:—«Morte mortina, lasciami stare, che son giovinetto; va da mio padre ch'è più vecchio di me!»—E lee, la ghe diseva:—«No, questo è il tuo momento e non è il momento di tuo padre![xv]»—E poeu l'ha smorzaa[xvi] la soa torcia, e via la gh'è scomparsa. Lu, el pessèga, el sona el campanin e el dimanda la servitù tutt stremìi con paura: el fatt l'è che l'ha faa ona malattia de la gran paura che l'ha ciappàa e l'è stàa tanto temp in lett. Quand l'è andaa ancamò in sul so poggioeu, l'ha veduu la Stella Diana. Lu, el ghe dis:—«Stella Diana, quanti foeuj fa la soa maggiorana?»—E lee, la ghe dis:—E lu, sur nobil cavalier, quante stelle gh'è in del ciel?»—E lu, el ghe dis:—«I stell che gh'è in del ciel non se pol contare.»—E lee, la ghe dis:—«Anca la mia maggiorana non si può rimirare.»—E lu, el ghe dis:—«Per el pessin, la m'ha faa el basin.»—E lee, la ghe dis:—«Per la zentura, l'ha basaa el cùu a la mia mulla.»—E lu, el ghe dis:—«Sura maestra, la scala mi tira, la scala mi lascia; gh'è nissun che mi abbraccia? Va, va, che la scala ti lascerà.»—E lee, la ghe dis:—«Morte mortina, lasciami stare che son giovinetto! va da mio padre ch'è più vecchio di me.»—E lu, el sent che la gh'ha faa sto scherz, el dis:—«La m'ha fàa de sti azion! Adess me vendicaròo mi deversament.»—El va e le cerca al so pa per sposalla. E lu, el so pader, el ghe dis che l'è impossibel perchè l'è fioeu del Re. E lee, la tosa, la ghe dis a so papà:—«Lassa pur ch'el me sposa; mi el sposi subet volentera.»—Donca fann el contratt. Fissàa el dì di sposalizi, lee, cosa l'ha faa, lee? La pensa de fa on'altra robba innanz che l'avess avùu de sposalla, fa fà ona gran pigotta[xvii] granda, le mett in camisa cont on gipponin de lett[xviii] e la gh'ha faa mett ona vessiga, chì, in del stomegh, piena de lacc[xix] e vin e zuccher. Poeu la sera che l'è andada a cà dopo sposada, lee, la gh'aveva scondùu la soa pigotta in d'on vestee[xx]. Intrettant ch'el passeggiava in stanza, che lee la se disvestiva per andà in lett, la gh'ha miss in lett la pigotta. E lee, la s'è sconduda. E lu al va là, cont on stil:—«Ah!»—el dis—«adess me vendighi mi! Quest chì, l'è propi el to ultim moment, e l'è minga el mè.»—El ghe dà ona stillettada in de la vessiga: la, l'ha credùu de daghela in del coeur, e gh'è andaa on poo de sto vin e lacc dolz in bocca:—«Oh poer a mi! come l'è dolz el sangue della mia Stella Diana! Poer[xxi] a mi! coss'hoo mai fàa!»—a piang tutt desperaa.—«L'è vera che sont on Re; ma se fuss el Re de tutt i Re, la mia Stella Diana la farìa diventa viva anmò!»—Lee, l'ha lassaa piang desperàa. E poeu l'è vegnuda foeura e la gh'ha ditt;—«No, sont chi ancamò. La toa Stella Diana l'è minga morta.»—S'ciao! lu, dopo el gh'ha voruu ben; e lee, l'è stada soa mièe.
[i] Identico è il conto siciliano di Ficarazzi La Grasta di lu basilico presso Pitrè, Fiabe, novelle, racconti ed altre tradizioni popolari siciliane; e l'altro Von der Tochter des Fürsten Cirimimminu oder Unniciminu, presso la Gonzenbach, Sicialianische Märchen.
[ii] Tosa, fanciulla; pl. Tosànn. Da intonsa.—Celio Malaspini, Duecento Novelle, Parte II, novella XLVI:—«Il che veduto da lui, per il grandissimo spavento che lo soprapprese, egli rimase più morto che vivo. E poi si pose a fuggire con la maggior celerità del mondo, gridando: Ahimè nostra Donna di San Celso (chiesa molto celebre e devota di quella città) io mi vi raccomando insieme con i miei poveri figliuoli! o tosane ch'egli dicesse nello idioma milanese.»—Ibid, XXXIII.—«Al quale ella rispose:.... Per ora io non vi voglio dire altro, se non che voi lasciate la cura a me di questo negozio, sperando io di ridurre quelle tosane (le quali in Milano così si chiamano le figlie da marito) in tale stato che ve ne contenterete....» Il Pulci, Morgante, XXVII, 243:
Le donne e le tosette scapigliate Correvan tutte come cosa pazza Ed eran dalla gente calpestate.
Anche il Boccaccio nel Decameron adoperò questo lombardismo.
[iii] Miée, moglie.
[iv] Dopdisnàa o dopodisnàa, dopopranzo. Dacquà, adacquare, annaffiare.
[v] Terrazza, terrazzo, terrazza, altana, belvedere, verone. Poggioeu, terrazzino, il balcone de' meridionali. Linghèra, ballatoio.
[vi] Foeuja o foglia, femm. (pl. foeuj), foglia. Foeuj, masch. foglio.
[vii] Vess, essere. Pessée, pescivendolo, pesciajuolo. Pess, pesce. Pessin, pesciolino, pesciatello.
[viii] Il Cherubini, nello stupendo suo Vocabolario Milanese—Italiano, registra solo lavorà.
[ix] Zenta, cinta, cintolo, scheggiale. Zentura, cintura, cintola.
[x] Dice il Marino nell'Adone, Canto XIV, stanza XXVII, in una situazione consimile: Ei rivolto a colei ch'era colui.
[xi] Mula e Mulla, femm.; Mul masch.
[xii] Desprìsi, dispetto.
[xiii] Basell sing.; basej o basij, plur. Gradino, scalino, scaglione. Bus, buco, foro, pertugio. Sfor, luce, apertura, ogni vano nelle fabbriche.
[xiv] Pussée, più, dippiù; da più assai (?).
[xv] Nel seicento ebbe gran voga un libro d'educazione morale intitolato: L'Utile col dolce, cavato da' detti e fatti di diversi uomini saviissimi, che si contiene in tre decade di arguzie dal padre Carlo Casalicchio della Compagnia di Giesù; per ricreazione e spiritual profitto di tutti e consolazione specialmente de' tribolati et afflitti e per efficace antidoto contro la peste della malinconia. Nell'arguzia seconda della terza decade della parte terza, si mostra a qual precipizio conduchi la passione dell'interesse narrando un furto tentato da tre birbe a danno di un oste decrepito ed avaro, secondo il racconto del padre Giacomo Bidermano:—«Alle due o alle tre ore di notte, quando sentirono che l'oste tutta via russava, Andrea, chè questo era il nome di un de' tre ladri, apre pian piano la porta della camera del vecchio, e mascherato con una maschera che rappresentava la morte, e tenendo una tovaglia assai lunga in capo, che gli scendeva insino ai piedi, nella destra un arco con la saetta e nella sinistra un orologio di arena, sen va a dirittura verso del letto dove tuttavia dormiva il vecchio e crollatolo con una gran scossa, lo chiama per nome con orribilissima e luttuosa voce e gli annuncia ch'è necessario senza dimora alcuna partire da questa vita per passarsene all'altra. Qui il vecchio (che per lo stordimento del sonno, che per l'imagine di colui che pur vedeva col debil lume che gli dava una lampada accesa e che per le tenebre della notte spaventosissima gli pareva, ebbe veramente a morire) tutto tremante prega la Morte e la scongiura per dio e per li santi tutti del cielo, che voglia avergli compassione, così appunto dicendole: Morte non esser così spietata et inumana con un povero vecchio che avendo faticato e stentato tutto il tempo di vita sua ed avendo acquistato parecchi denari e molte ricchezze, avessi poi a morire senza disporre del mio e senza aggiustare che i miei figli abbino a godere ognuno per la sua parte i miei sudori! E giacchè siete stata sempre con me sì insino a questo tempo così amorevole e cortese che non me avete reciso il fil della vita, benchè l'abbiate fatto, senza nessuna misericordia, con tanti e tanti altri giovani e che non avevano nemmeno la metà de' miei anni, siatelo ancora, io non dico per anni o mesi benigna e cortese verso di me stesso col non togliermi la vita, ma per un giorno. Ciò stava dicendo colui ed Andrea interrompendolo così gli soggiunse: Non occorre più pregare nè dar suppliche, è venuto il tempo, nè si può differire, che tu abbi in ogni modo a passare all'altro mondo. Questa è quella destra e quella saetta che toglie lo spirito anche ai primi Principi e Potentati del mondo. Questo è quel ferro che uccide gl'Imperatori e i Re. Questo è quel dardo così crudele e potente che non la perdona a sorte veruna di persone e tutto insieme uccide e distrugge poveri e ricchi, giovani e vecchi, di qualsivoglia condizione e stato alla rinfusa e senza alcuna differenza. Questa, questa saetta dunque ha da toglierti la vita et ora et in questo punto et in questo momento. Haec regios elisit hasta spiritus, Hic mucro principes viros, hic Caesares ictu potente fodit. Idem pauperes Evitat idem divites, dum sanguine promiscuo laetatur. Hoc telo et tuum denique caput petetur.»—Nei Detti et fatti piacevoli et gravi di diversi principi, filosofi et cortigiani, raccolti dal Guicciardini et ridotti a moralità, v'è il seguente aneddoto: La Morte dare grande spavento alle persone, massime alle molli et feminili:—«Una matrona molto onesta et amantissima del marito, piangeva et si doleva d'una grave malattia che egli avea, pregando Iddio, che se dovesse morire, mandasse piuttosto la morte a lei. In questo comparisce la morte d'aspetto orribile. Laonde la donna tutta spaventata et del suo voto pentita, prestamente disse: Io non sono quel che tu cerchi; egli è là nel letto, mostrandole il marito.»—
[xvi] Smorzà e Smorzà gio', spegnere.
[xvii] Pigotta (anche Popòla e Popoeura), bambola, fantoccio, pupo.
[xviii] Gipponin, farsettino, giubbettino. Il Cherubini non registra Gipponin de lett, bensì Gipponin de nott.
[xix] Lacc e Latt, più gentilmente.
[xx] Vestèe, armadio, armario.
[xxi] Il Cherubini ha solo pover.
[2] Nella Grattula—Beddattula e ne La figghia di lu mircanti di Palermu, appo il Pitrè (op. cit.) vi sono similmente de' padri, che partendo lasciano le figliuole murate in casa.
[3] Siccome nel senso di poichè, ben è dell'uso fiorentino odierno, come pure dell'uso universale in quel gergo infranciosato che fa le veci dell'italiano a' dì nostri: bene ha numerosi esempli di scrittori valenti come l'Alfieri; ma sarà sempre cansato, come un brutto gallicismo, da chiunque vuol serbar fattezze italiane nello scrivere. Il costrutto, veramente nostro, sarebbe col gerundio: Ed essendo tutte le guardie a guardare ecc.
[4] Sconta delle mie bambine: va in compenso. Saggio di Scherzi Comici, Firenze 1819. Nella stamperia del Giglio. Si vende da Pasquale Albizzi presso le scalere di Badia. Nel secondo scherzo, intitolato: L'amicizia rinnovata, ossia La Ragazza vana e civetta. Commedia in tre atti. Atto I, scena prima:—«Propio chi nun mor si riede. Ghi è tant'anni che nu' un ci siam viste. Sconta di quand' e' si staa tutt' a due 'n via Porciaia. Da ragazze si staa dirimpetto e da maritache cas' accanto. Un passaa giorno che nu' un ci trassim' assieme.»—
[5] Sarà forse non inopportuno il dar qui una scelta delle voci de' venditori ambulanti o di strada in Firenze, ossia di quegli intercalari co' quali profferiscono la loro mercanzia al pubblico, alcuni de' quali sono notevoli per umorismo e molti per gli equivoci licenziosi. Ma già l'Italiano è sboccato di natura.
Donne, laceratevi la camicia! c'è' il Cenciajolo! (Il cenciajo).
I' ho la bella bionda! (L'avellanajo).
Assuntina, ce l'ho un bocconcino, o Meo! (Il trippajo).
A chi le taglio le palle! (Il cavolfiorajo).
Chi ha i' dente diacciolo, 'un l'accosti (L'acquacedratajo).
Eccolo, i' vero medico! (Il perecottajo).[i]
Chi mi dà un soldo, gnene do due! (cioè: due scatole, non mica du' soldi come parrebbe. Il fiammiferajo).
Meglio che di cera! (Il zolfanellajo),
I' l'ho con l'uva! (sottintendi: la stiacciata).
Che robe! (Il merciajo).
Canarini che ballano! (Venditore di polenta fritta, napoletanescamente detta: scagliozzi).
Un soldo pieno, una crazia pieno! (cioè, il misurino di castagne secche).
Vero Cancelli! (Il pentolajo).
Queste le cavo ora! (Il caldarrostajo).[ii]
Co' i' pelo la càtera! (cioè: le mandorle ancor lattiginose, che mangian col guscio e col mallo).[iii]
Tutti drento dal sor Luigi! (Il venditor di siccioli).
Beccatelo ritto! (cioè: il carciofo).
Voitta come le ridono! (cioè: le testicciuole d'agnello).
I' ho de' bei bambini senza la mamma! (Il figurinajo).
Tre volte ve l'ho salati! (Il lupinajo).
Bolle, bolle, bolle, bolle. La me lo senta come l'ho caldo! (cioè: il castagnaccio).
Semina trastullino! (cioè: semi di zucca. In Sicilia i semenzari sogliono gridare: Svia—sonnu).
I' ho i moscioni! (Il marronajo).
A chi lo sbuccio i' gobbo! (L'ortolano).
I' l'ho co' i' mantiglione! (cioè: le barbebietole).
Rompi, bambino, rompi! (Il bicchierajo).
Come la me gli ha fatti la monachina! (Il brigidinajo).
Ce l'ho di Bologna! (cioè: le spazzole di padule).
I' ho i' core! (cioè: le susine).
Queste le vendo! (cioè: le granate di saggina)
Donne, buttachevi di sotto! (Il cenciajolo).
Gli è per l'oche! Ci 'ole i' pittore! Votta che tocchi! Questo ve lo do a taglio! Zucchero, oh! Sangue di drago! (Il cocomerajo), ecc. ecc.
[i] E da questa voce sembra a me che il Giusti abbia tolta l'idea di quel suo sonetto che incomincia: Verso le due m'intesi un po' malato, e termina:
Nota, il dottore, che me l'ha (le tonsille) toccate, Era un buon semolino, un pollo allesso, E un bel piatto di pere giulebbate.
[ii] Ad Italiani è supervacaneo il dire cosa sian le caldarroste. L'autore dell'articolo su Pietro Aretino, nella Biographie Universelle, traduce caldallesse, e caldarroste per bouilli et rôti chaud. Che cognizione della lingua nostra, eh?
[iii] Nel Saggio di Scherzi Comici, Firenze 1819. Nella stamperia del Giglio, si vende da Pasquale Albizzi presso le scalere di Badia; e precisamente nella Scena IV del II Atto dell'Amicizia rinnovata, ossia La ragazza vana e civetta. Commedia in tre atti, v'è il seguente dialogo:—«Lisabetta. O questa, Liberata, la unnè la ostra figliola Caterina?»—«Liberata. Ell'è lei; ma che volech'o ch' i' vi dica; se egli è entrach' ibbaco di un voler essecchiamaca Caterina? Dice che gli è un nome vilio; la se l'è mutaco 'n Calorina.»—«Caterina. Carolina e non Calorina.»—«Liberata. Nè l'un nè l'oltre, dic'iccontadino. Ittò compare, requiesca, e' ti pose nome Catera; e io ti ó chiama Catera flnch'i' arò gola.»—«Lisabetta. E fache bene. Se ghi è tanto bello innome di Caterina: s'è' c'è fin le mandorle della Caterina. Vu un ghi sentiche gridà pelle strade: I' ho la Caterina, I' ho la Catera grossa: grossa, grossa la Catera.»—
[7] Altro barbarismo dell'uso e de' più goffi, de' più ripugnanti all'indole della nostra lingua, è questa reduplicazione dell'articolo. In Italiano si dirà sempre le bottiglie migliori o le migliori bottiglie; e l'intrusione d'un secondo articolo innanzi allo aggettivo (le bottiglie le migliori) sarà sempre non solo un pleonasmo, anzi pure uno sproposito majuscolo, un francesismo imperdonabile; un peccato mortale e non già veniale di lingua.
[8] Verdea è veramente una specie di vino. Tassoni, Secchia rapita, vi, 46:
I tedeschi del vino ingordi e ghiotti
Dietro a certi barili eran trascorsi,
Che ne credeano far dolce rapina;
E in cambio di verdea trovâr tonnina.
[9] Il caso obliquo de' pronomi usurpa tante volte il posto del retto, che non è da stupire se anche il retto qualche volta in bocca del popolo s'intrude nel posto dell'obliquo. Chi la fa, l'aspetti.
[10] Questo episodio della bambola si ritrova anche intruso in fine delle Novelle sicule Die Geschichte der Sorfarina, appo la Gonzenbach e Trisicchia (di Ficarazzi) ricordata dal Pitrè in nota a Li tridici sbannuti. Alquanto variato è nella fiaba veneziana El diavolo, appo il Bernoni. Matteo Bandelle narra come Faustina romana fosse informata che il marito Marc'Antonio intendeva ucciderla e fuggirsi con una Cornelia:—«E volendo alla mina del marito fabbricare una contrammina, ebbe segreta pratica con uno eccellente legnajuolo, e fece fare una statua e della grandezza che ella era, ma di modo fabricata, che se le accomodava benissimo la pelle d'una bestia attorno; alla quale, ella avendo inteso il determinato punto che il marito voleva ucciderla, acconciò certe vessiche piene di acque rosse assai spesse, acciò facessero fede di sangue. Ella soleva la state ne l'ora del merigge corcarsi nel letto e dormire una e due ore; onde il marito in quel tempo voleva ammazzarla. Ella venuta l'ora andò in camera, e la immagine fatta acconciò nel letto, che pareva proprio che Faustina fosse quella che dormisse. Avevale anche concio certe funi, per far a suo piacere, stando sotto il letto, scuoter l'imagine. Avendo poi di già messo tutto ciò ad ordine che seco voleva portare, che era roba, come dicono i soldati, da manica, dicendo a le fantesche che voleva dormire, si mise sotto il letto, serrate le finestre de la camera. Venne il marito a casa, et intendendo che la moglie dormiva, mandò via due donne che in casa erano in certi servigi, che bisognava che stessero due ore a tornar a casa. Erasi già prima disfatto di quanti uomini soleva tenere. Fatto questo, se n'andò di lungo dentro la camera, ove credeva che la moglie dormisse. Quivi arrivato, quanto più chetamente puotè se n'andò al letto; e per esser l'uscio aperto, eravi pure un cotal barlume, dal cui splendore ajutato, vide, come egli pensava, la donna che sovra il letto boccone giaceva. E stesa la mano sinistra e quella posta sovra il capo de l'imagine, tirò fuor un pugnale, e con quanta forza puotè, quello ficcò ne le schiene a la statua. Faustina che sotto il letto era e sentì la percossa, tirò le funi, di modo che l'imagine tutta si scosse. Marco Antonio, pensando che la moglie volesse levarsi, le diede un'altra ferita e passolla di banda in banda. Era da la prima ferita uscito di quell'umor rosso pure assai, e medesimamente dalla seconda[i]; il perchè egli sentendo che la moglie più non si moveva, pensando quella portar via, prese la statua, e quella in un necessario, che in camera era, gettò.»—Polieno, nel libro viii degli Stratagemmi:—«Poichè Cleomino prese Tito, gli domandò per lo riscatto due città: una delle quali si chiamava Epidauro e l'altra Apollonia. Non volle altrimenti dargliele il padre di Tito, ma comandò che lo ritenesse. Così Tito essendosi procurato la propria immagine a guisa di persona addormentata, la pose nella sua abitazione, e montato su d'un naviglio, mentre che le guardie badavano all'immagine, si fuggì secretamente.»—
[i] Una vescica piena di sangue, destinata a far credere ad alcun gonzo un ussoricidio simulato, vien ricordata dagli annotatori del Malmantile, alla stanza XXVIII dell'XI cantare, dove si parla di Celidora.
Che là nel mezzo a' suoi nemici zomba, Di modo ch'essi sceman per bollire; Che, dove i colpi ella indirizza e piomba, Te gli manda in un subito a dormire, Che nè meno col suon della sua tromba Camprian gli farebbe risentire; E quanto brava, similmente accorta, A combattere i suoi così conforta.
Ecco l'annotazione:—«Questo Campriano fu un contadino astuto, come s'è accennato sopra, Canto IV, stanza XLVII»—Vedi in nota alla fiaba di questa raccolta intitolata: Manfane, Tanfane e Zufilo—«e come si vede dalla sua favolosa storia stampata col titolo: Storia di Campriano, il quale per far denari trovò diverse invenzioni di gabbare le persone semplici: e fra l'altre quella d'una pentola, che bolliva senza fuoco, perchè da esso levata mentre che gagliardamente bolliva, e portata in mezzo a una stanza, la fece vedere al corrivo a cui voleva venderla. Costui, vedutala veramente bollire, senz'aver fuoco avanti, subito se ne invaghì, ed accordossi di comprarla pel prezzo che convennero. Giunto poi questo tale a casa con la pentola, e volendo senza fuoco farla bollire e non gli riuscendo, si querelò con Campriano dicendogli che l'avea ingannato. Campriano chiamò la moglie e la sgridò, dicendo che non potev'essere, se non che ella l'avesse cambiata. La donna, fingendo un gran timore, con gran lacrime confessò, che per averla inavvertentemente rotta, glien'aveva data un'altra simile, per la paura che avea del marito. Di che Campriano mostrandosi fieramente adirato, cavò fuori un coltello, e con esso ferì la moglie nel petto, dove ella avea ascosa sotto i panni una gran vescica piena di sangue, il quale sgorgando pareva che uscisse dalla ferita fattale da Campriano; per la quale fingendo la donna d'esser morta cascò in terra. Il gonzo si doleva che Campriano per causa così leggiera avesse commesso un delitto così grave; ma Campriano con faccia allegra gli disse: sebben la donna è morta, io saprò risuscitarla quando vorrò; perchè basta, che io suoni questa trombetta. E stimolato dal semplice a farlo, gli compiacque: e sonata la tromba, la donna si rizzò, mostrando di risuscitare; onde il semplice con grande istanza chiese la tromba a Campriano, il quale dopo molte preghiere a gran prezzo gliela vendè. Costui, andato a casa, prese occasione di gridar con la moglie, ed in fine le diede una pugnalata con la quale l'ammazzò; e poi si messe a suonar la tromba; ma quella infelice, essendo veramente morta, non risuscitò altrimenti. E per questa causa, e per altre sue sciagurataggini, fu Campriano condannato alla morte che dicemmo sopra C. IV, st. XLVII. E di questa tromba parla il poeta nel presente luogo.»
[11] I costumi toscani richieggono che il latte ed il miele spruzzino casualmente sulle labbra del Re. Nelle varianti meridionali ch'io posseggo, con miglior motivazione (dal punto di vista estetico), il Re lecca quel sangue volontariamente sul coltello, perchè la superstizione popolare porta, che chi così fa, non è poi tormentato da rimorsi.