Читать книгу La novellaja fiorentina - Vittorio Imbriani - Страница 13
IX.
ОглавлениеIL CANTO E 'L SONO DELLA SARA SIBILLA[1]
C'era una volta un Re d'una gran città, che ogni mattina all'otto voleva dell'ova a bere, ma fresche; motivo per cui il su' servitore andava per le strade a girare e gridava:—«Chi ha ova fresche da vendere pel Re?»—Una mattina che passava per una straduccia for di mano, questo servitore sentètte delle ragazze che discorrevano in fra di loro in una casa; sicchè lui si fermò per sapere quel che loro dicevano. Le ragazze erano tre, insenza mamma, nè babbo; e campavano la vita con il su' lavoro. La maggiore dunque diceva:—«S'i' potessi aver per isposo il fornaio del Re, i' farè' pane in un giorno solo quanto ne mangia la corte in un anno. Mi garba tanto quel giovinotto!»—Doppo di lei disse la mezzana:—«E i' vorrei per isposo il vinaio del Re, chè mi va a genio! e con un bicchier di vino vorrè' 'mbriacare tutta la corte.»—Ma la più piccina, che l'era anche la più bella:—«Io poi vorrei per isposo il Re; e se lui mi pigliassi, gli vorrè' fare a un parto du' bambini con una collana d'oro al collo, e una bambina con una stella in sulla testa.»—Ritornato al palazzo il servitore, in quel mentre che lui vestiva il Re, gli raccontò i ragionari di quelle tre ragazze. E il Re incuriosito disse al servitore:—«Vammi a chiamà subbito la maggiore, chè la voglio vedere»—Quando la maggiore gli ebbe quell'ambasciata, tutte e tre le sorelle si sturbarono, perchè avean paura per il discorso fatto dalla più piccina; ma bisognò ubbidire al Re, che è quello che comanda. Arrivata in presenzia del Re, lui volse risapere da lei che discorso aveva fatto. E non gli valse lo scusarsi, che eran parole di chiassata, perchè lui le volse in ogni mo' risentire da lei Sicchè lei gliele disse.—«Non c'è nulla di male,»—disse il Re:—«Si chiami il fornaio e sarà subbito vostro sposo.»—E così fece.—Doppo mandò il servitore che gli menasse la sorella mezzana, e anco lei fu obbligata a rifargli quel discorso sentito dal servitore; e il Re la contentò col dargli il vinaio di corte per marito. Finalmente si viense alla più piccina delle tre sorelle. Bisognava vederla, genti mia! come l'era bella e garbosina, cogli occhi neri e co' capelli neri! e di più, per la vergogna, era diventa rossa rossa in viso.—«State vispola,»—gli disse il Re,—«e non abbiate sospetto. Voglio soltanto che mi ridiciate da voi le parole che v'enno sortite di bocca a udita del mi' servitore. Via, su, dite.»—Lei proprio non sapea da dove cominciare; ma poi, fai e rifai, si diede coraggio:—«Maestà,»—disse,—«si diceva per dire, così per chiassata, insenza un malo pensiero. Gua'! dissi, che se il Re mi pigliava per su' legittima sposa, i' gli arè' partorito, tutti assieme, due bambini colla collana d'oro al collo, e una bambina con una stella isplendente in sulla testa.»—«E saresti bona a mantiener la promessa?»—«Di sicuro, Maestà, che mi credo capace di mantienerla.»—Allora il Re, che a sentirla parlare se n'era innamorato, gli disse:—«Vi piglio in parola, e sarete la mi' legittima sposa, e Regina in sul trono.»—E doppo averla fatta 'struire con una bona educazione, seguirono le nozze con grandi allegrie per tutto il Regno, e le sorelle della Regina il Re gliele messe a servirla in corte per su' compagnia. Ma loro non ci s'adattavano a esser da meno, e l'astiavano con un rodimento di core, che non si pole raccontare; e se gli potevan far de' dispetti, non si risparmiavan mica. Passato del tempo, de' mesi, via, la Regina era gravida e al Re gli toccò a andare alla guerra e lassarla sola nel palazzo; ma lui, prima di partire, la raccomandò a tutti e alle sorelle, che gliela tenessin bene e l'ubbidisseno ne' su' comandamenti, e che poi scrivesseno al campo quando lei partoriva. Difatto la Regina, quando fa il su' mese, partorì du' be' bambini colla collana d'oro al collo e una bambina colla stella luccichente in sul capo. Figuratevi l'ascherezza delle su' sorelle maligne! Che ti fanno? S'accordano assieme; e di niscosto, che nissun se n'avvedde, cavonno dal letto quelle tre creature e ci messano invece du' cani e una cagna; e poi, diviato scrissano al Re che la Regina aveva mantienuto la su' promessa a quel modo, col partorirgli du' cani e una cagna. Quando il Re lesse la lettera cascò 'n terra istramortito dal gran dolore; ma rivienuto in sè, mandò ordine in corte che la Regina fusse in nel momento presa e murata viva a piè della scala di palazzo, e che tutti quelli che passavano di lì, pena la testa, gli avessino a dare uno stiaffo o sputargli 'n faccia; e le sorelle eran sempre le prime a fargli quelli spregi e la martirizzavano quella povera donna innocente in tutte le maniere. Ma torniamo alle creature, che le zie avean cavato dal letto della Regina. Loro mandonno a chiamare una vecchiaccia, di nome Menga, e gli dissano:—«Piglia queste creature, mettile in una scatola di legno e buttale in mare, chè l'affoghino. E bada di stare zitta, se ti garba la vita.»—Poi alla vecchia gli regalorno di molti quattrini; e lei, ubbidiente al comando, se n'andiede al mare e ci buttò la scatola colle creature dientro: la scatola imperò, perchè era di legno, rimase a galla, e l'acqua, dimenala di qua, dimenala di là, la fece approdare a un'isola, in dove steva un eremita. Quest'eremita un giorno spasseggiava per la su' isola e vede a un tratto la scatola in sulla spiaggia: lui corre e la piglia di peso in mano e l'apre e rimane com'un allocco a trovarci dentro quelle tre belle creature vive, ma che cominciorno a piangere dalla fame che avevano. L'eremita ritornò subbito alla su' capanna; e siccome[2] teneva delle capre, gli messe sotto le tre creature, che poppavano poppavano, e non ismessero se non quando satolle. A questo modo l'eremita rallevò le creature; e quando le furon cresciute, gl'insegnò a leggere e a scrivere; e in su i tredici o quattordici anni, i ragazzi andavano a caccia per il campamento, e la ragazza badava a casa e lavorava. Ma poi, doppo del tempo, l'eremita sentì di dover presto morire; gli prese un male, che non ci fu scampo; le coja vecchie tanto non reggono! Allora lui chiamò intorno al su' letto i ragazzi e la sorella e gli fece un bel discorso, che stessin d'accordo e si volessin bene, e che i fratelli difendessino sempre la sorella, e che forse, abbenchè poveri a quel mo', potevan col tempo diventar ricchi e ritrovare i genitori; e alla ragazza gli regalò una bacchetta fatata, che picchiandola in terra compariva quello che si voleva; e doppo rendette l'anima a Dio. A mala pena che l'eremita fu spirato, con pianti e lamenti loro gli dettano sepoltura e poi pensorno al modo di sortire da quell'isola, e colla bacchetta fatata la ragazza comandò d'esser tutti portati in nel Regno vicino. Quando si trovorno in terra, camminavano insenza sapere che strada era quella, e a bujo eccoteli tutti e tre in mezzo a un bosco, con una fame che proprio non ne potevan più. Dice il maggiore:—«Qui bisogna fermarsi. Sorellina, via, colla tu' bacchetta fa' comparire qualche cosa di bono.»—«Volentieri,»—disse lei:—«farò comparire un bel palazzo tutt'ammannito a darci albergo e con una cena imbandita in sulla tavola.»—E pigliata la bacchetta, in un battibaleno, appare il palazzo, ma ricco, con tanti lumi, e la cena in sulla tavola; sicchè non fecien'altro che entrar dientro e mettersi a siedere a mangiare. A farla corta, que' tre stavan lì come in casa sua; e i ragazzi sortivan fori tutte le mattine a cacciare, e la ragazza teneva il quartieri ravviato o leggeva o cuciva, secondo come più gli garbava. Infrattanto il Re lo rodeva sempre la passione: dalla guerra gli era torno vincitore, ma a vedere la su' moglie murata lì a pie' della scala, non si poteva dar pace, e se non fussi stato per la su' parola di Re, l'avrebb'anco fatta le mille volte levare da quella pena. Ma per isvagarsi, lui sortiva quasi ogni giorno la mattina presto, e andava pe' boschi a caccia; e gira e gira, sicchè quando ritrovava il palazzo gli era tanto stracco, che non si reggeva in piedi dallo strapazzo. In somma, una volta gli accadde che lui si smarrì per un bosco, e aveva perso la via a rivienirsene alla città; sicchè a notte fatta, per non essere sbranato dagli animali, abbenchè avessi detto a ogni momento che per lui era meglio morire, s'arrampicò in vetta a un albero folto coll'idea di aspettar lassù il giorno. In nell'assettarsi per non cascare, vede a un tratto un lumicino lontano lontano, e ripensò che ci doveva essere qualche casa laggiù in fondo: scende e s'avvia per quel verso; e tanto camminò, che alla fine viense per l'appunto al palazzo de' su' figlioli: ma lui non lo sapeva che gli erano i su' figlioli. Picchia al portone e di dientro la ragazza domanda:—«Chi è, a quest'ora?»—«Sono un Re e mi son smarrito a caccia per la selva. Datemi un po' d'albergo, chè ho paura degli animali che mi sbranino.»—Scesero tutti con de' lumi e apersano al Re, e lo menorno in una cammera al foco, e l'asciugorno tutto dalle guazze e poi gli diedano de' panni perchè si mutasse; e quando si fu riavuto lo volsano a cena con loro. Il Re non capiva in sè dall'allegrezza per quell'accoglienze, e badava a dire in cor suo:—«Ecco, potevo anch'io avere di questi figlioli, se non era la mi' moglie a mancarmi di parola. Paian proprio quelli che m'aveva impromesso.»—Alla mattina quando fu giorno, il Re s'alzò da letto per andarsene, e doppo colizione gli abbracciò e baciò tutti que' giovinotti e non si sapeva staccar di lì; pareva che ci fosse inchiodato: ma alla fine si fece animo e gli disse addio, con questo però, che lui volse che andasseno a trovarlo e stessero a desinar con lui nel su' palazzo, almeno tra una settimana. Loro l'accompagnorno giù al portone, e daccapo con abbracci e baci e pianti del Re, ognuno se n'andette per il fatto suo. Arrivato il Re alla su' casa, a corte, in quel mentre che era a tavola, raccontò tutte le cose che gli erano intravvenute, e di quelle belle creature che gli avevan dato albergo con tanta carità, e che lui l'aveva anco invitate a desinare. In nel sentire queste novità, le zie, ossia le cognate del Re, ci mancò poco che non si caconno nelle gonnelle dalla pena, perchè loro capirno bene che que' giovinotti colla ragazza erano i figlioli del Re; e se lui lo scopriva, loro dicerto l'ammazzava. Sicchè dunque infuriate corsano dalla vecchia:—«Oh! Menga, e che ne facesti voi di quelle creature che vi si diede per buttarle in mare e affogarle? Ci aresti vo' tradito?»—Dice la vecchia:—«Gua', la scatola ce la buttai nel mare, ma l'era di legno e stava a galla. Se poi gli andette a fondo o no, non stiedi mica a vedere.»—«Oh! sciaurata,»—dissan le zie;—«le creature son sempre vive e il Re l'ha 'ncontrate; e se le riconosce per sue, siem tutte morte.»—«Che rimedio c'è?»—«Il rimedio è questo. Che vo' andate, Menga, al palazzo nel bosco, quando i giovinotti son fori a caccia, a chieder la lemosina. Vierrà la ragazza e nel discorrere gli avete a dimandare se i su' fratelli gli voglian bene. Lei dirà di sì. Ma vo' avete a rispondere: Se vi volessin bene vi porterebbano il Canto e il Sôno della Sara Sibilla. Se loro vanno a cercarlo, non tornan più mai, e la su' sorella creperà dalla pena.»—La Menga subbito si vestì da pitocca e diviata se n'andette a quel palazzo nel bosco e picchia al portone.—«Chi è?»—«Una povera vecchia tribolata. Fatemi un po' di lemosina per amor di Dio e n'arete rimerito in Paradiso.»—La ragazza dunque, che era sola in casa, scese colla lemosina e la diede a quella vecchiaccia malandrina, e cominciorno a attaccar discorso.—«Chi siete? Da dove venite?»—«Son di lontano, e vo a cercar di pane: non ho più nessun de' mia. E voi che ci state sola in questo bel palazzo?»—«Chêh! i' ho anco du' fratelli, che mi vogliono un ben dell'anima. Ma tutte le mattine vanno a caccia.»—«Vi voglion bene? Perdonatemi: se vi volessin bene...»—«Che volete vo' dire? Mi parete una bella sfacciata.»—«Eh! gnora no. I' so ben quel ch'i' dico. Se vi volessin bene, non vi porterebbano i vostri fratelli degli animali morti soltanto, ma il Canto e il Sôno della Sara Sibilla. Quello davvero sarebbe un bel regalo.»—Alla ragazza (si sa le donne son tutte compagne) quelle parole della vecchia gli messano il foco 'n corpo, per la smania d'avere quel regalo: sicchè dunque, quando i su' fratelli tornorno dalla caccia, lei non era più allegra e contenta al solito. Dicon loro:—«Oh! che hai? T'è accaduto qualche disgrazia?»—«No.»—«Ti senti male? ti dole i' corpo?»—«No, no.»—«Oh! dunque, che c'è' di novo?»—«C è che vo' non mi volete tutto quel bene che vo' dite.»—«Come non ti si vol bene? Che ti manch'egli? Tu non siè' la padrona spotica d'ogni cosa e a tu' modo? Via, di' su: che ti manch'egli?»—«Cari fratelli, mi manca il Canto e il Sôno della Sara Sibilla; e se vo' mi volete bene andatemelo a prendere.»—«Ma in dov'è questo Canto e Sôno? Se si sapesse in dov'è, fuss'anco in capo al mondo, s'anderà per esso, perchè tu sia contenta.»—«Ma! i' non lo so. Ma esserci ci ha da essere: me l'ha detto una che lo sapeva; il su' luogo però non me l'ha detto.»—Insomma, per non vederla a quel modo appassionata la sorella, e anco avevan promesso all'eremita d'ubbidirla in tutto, il fratello maggiore deliberò d'andare il primo a cercarlo (se lo trovava) il Canto e il Sôno della Sara Sibilla; e innanzi di partire messe sur una tavola una boccia d'acqua chiara e disse:—«Se quest'acqua intorba, vuol dire che sono o sperso o morto, e che non tornerò più. Addio.»—Parte e camminò dimolti giorni, insino a che giunse a un luogo dove c'era un vecchino:—«Dov'andate, giovinotto?»—Ma lui, ingrugnito, gli rispose:—«La gente di bon affare non dimanda delle cose degli altri.»—«E vo', tanto superbioso, non tornerete addietro.»—E così gli accadette, perchè il giovinotto nel logo in dove andò ci rimase statua di marmo. Doppo questa disgrazia, l'acqua della boccia diventò torba, sicchè il fratello minore volse subbito partire anche lui, tanto per trovare il fratel maggiore che il Canto e il Sôno della Sara Sibilla; e come quell'altro, lasciò una boccia d'acqua alla sorella, perchè s'accorgesse se lui era sperso o morto. Arriva dopo dimolti giorni a quel vecchino:—«Dov'andate, giovinotto?»—«Vo dove mi pare; e se vo' avessi un po' di giudizio, non mi dimanderesti de' fatti miei.»—«Andate, andate pure: anche un altro, superbioso come voi, addietro non c'è tornato.»—Ma il giovinotto non lo stiede a sentire, e arrivato al posto del su' fratello, rimase statua di marmo. Figuratevi la disperazione della sorella quando vedde intorbita l'acqua della boccia del fratel minore.—«Son io la sciaurata, che gli ho morti. Ma gli vo' andare a ricercare.»—Difatto si mette in via, e lei pure arriva in dove era il solito vecchino: ma lei non gli rispose a traverso, quando lui gli domandò:—«Ragazzina, dov'andate a codesto modo sola?»—«Che volete! i' avevo du' fratelli e mi viense la brama che mi portassino il Canto e il Sôno della Sara Sibilla; e loro andettero a cercarlo, ma non gli ho più visti e di certo son morti. Me sciaurata! son io che gli ho morti.»—«Eh! se mi devan retta, la disgrazia non gli accadeva,»—disse quel vecchino.—«Come? oh! che gli avete visti? Dov'enno? per carità, ditemelo. «Ma che son morti?»—«Morti no, ma quasimente. Son diventi du' belle statue di marmo, e della compagnia non gliene manca. Ma se mi date retta, ragazzina, vo' potresti riaverli sani e vispoli, purchè vi rinusca[3] impadronirvi del Canto e Sôno della Sara Sibilla. Del coraggio n'avete? Ma badate, veh! che ce ne vole dimolto, ma dimolto.»—Dice lei:—«Purch'i' ritrovi i fratelli son disposta a tutto. Coraggio non me ne manca e n'ho a dovizia. Che ho da fare?»—«Ecco: vo' vedete questo stradone lungo lungo: bisogna camminare per insino in vetta; lassù c'è un prato, e d'attorno tante statue di marmo, e le prime son quelle de' vostri fratelli; tutte l'altre, di cavaglieri, di Regi e di principi, che cercavano il Canto e il Sôno della Sara Sibilla e rimasono lì impietriti in pena del su' ardimento. All'entrata del prato ci stanno du' feroci leoni a far la guardia; e non lascian passare, se non gli si dà un pane per uno a mangiare; mangiato che hanno, s'abboniscono e vanno a accompagnare il forastiero. Quand'uno è dientro al prato, bisogna che non si fermi mai, e giri e giri in tondo a guardar tutte quelle statue. Poi, alle ventiquattro, che sarà buio, deve mettersi ritto fermo in mezzo al prato e aspettar che soni la mezzanotte. A mezzanotte in punto nasceranno di gran rumori e comparirà una scala di cento scalini; subbito bisogna montarla per insino a cinquanta scalini e lì aspettar daccapo. Ma non ci vole temenza; perchè si vede scendere un'ombra smensa[4], co' capelli lunghi ciondoloni per le spalle, che è la Sara Sibilla. Lei scende insenza sospetto; e però bisogna di repente acciuffargli i capelli colle mane e badar che non iscappi. Allora incomincerà a urlare:—Ohi! ohi! che cercate da me?—Cerco il Canto e il Sôno della Sara Sibilla.—Chi ve l'ha detto? chi vi ci ha mando?—Rispondete diviato:—Vo' non ci avete a pensare. Datemi il Canto e il Sôno e po' vi lascio.—Lei dirà:—Lo volete rosso? lo volete celeste? verde?—Dovete risponder sempre di no, in sin tanto che non dice:—Lo volete color di rosa?—Quando la Sara Sibilla v'avrà dato quell'arnese, lei sparirà colla scala, e vo' dovete restar in sul posto in mezzo del prato insino allo spuntar del sole, e poi toccando le statue col Canto e il Sôno della Sara Sibilla, le statue ridiventeranno omini vivi. Avete vo' 'nteso?»—La ragazza, tutta contenta delle 'struzioni del vecchino, lo ringraziò ammodo, si fece dare i pani per i leoni, e via per lo stradone, sicchè arrivò all'entrata del prato ch'eran vicine le ventiquattro. Insomma lei ubbidì in tutto e per tutto alle parole del vecchino, e più brava di quelli che c'erano stati prima di lei, potette impadronirsi del Canto e Sono della Sara Sibilla: e quando l'ebbe avuto in mano codesto arnese (un arnese, ma com'era fatto non si sa) si messe a toccar le statue e in un momento il prato fu pieno di persone vive. I fratelli l'abbracciavano la su' sorella; i cavaglieri, i Regi e i principi badavano a ringraziarla del su' coraggio, e chi gli profferiva una cosa, chi un'altra, o ricchezze, o tesori, o il Regno con la mano di sposo: lei però non volse nulla. Dissano i su' fratelli:—«E ora in dove si va?»—Dice lei:—Non s'ebbe l'invito di andare a desinare dal Re? Dunque andiamo a mantenergli la promessa.»—Si messano subbito in viaggio con tutto quel corteo dreto, perchè tutti volsan fare onoranza a quella che gli aveva liberati da morte a vita. Al vedere arrivare in città quella schiera di cavaglieri con alla testa la ragazza, che gli splendeva la stella in sul capo, la gente correva e gli accompagnò per insino al portone del palazzo. Il Re scese a incontrargli; e, quando fu per salire la scala, disse:—«Qui c'è' una legge: prima di vienir su, bisogna dare uno stiaffo o sputare in faccia a questa sciaurata confitta nel muro.»—Dice la ragazza:—«A questa legge noi non ci si sta. Chê: non si fanno di simili birbonate.»—E senza tanti discorsi se n'andette co' su' fratelli a albergo in una locanda. Il Re gli era disperato; perchè e' non voleva mancare alla su' legge, e gli dispiaceva che quelle tre belle persone non stessero a desinar con lui, anco per rimerito del bene che gli avean fatto nel bosco. Manda un'ambasciata, che lui si contenta che passino in senz'obbedire alla su' legge. Ma la ragazza disse:—«Quando si viene a desinare dal Re, a tavola ci ha da essere anche la padrona. Non si pole stare allegri colla padrona a quel gastigo.»—Il Re non sapeva propio come contenersi. Ma poi lo vinse la brama che que' tre stessano alla su' mensa, e comandò che la moglie si cavasse di drento al muro e fusse rivestita da Regina. Poera donna! gli era secca finita, allampanita, che non si reggeva in sulle gambe, tanto aveva patito per tant'anni! Quando tutti furono a tavola che mangiavano allegramente (all'infuori delle zie, che tremavan come foglie dalla paura che si scoprisse ogni cosa), la ragazza tirò di tasca il Canto e il Sono della Sara Sibilla, e quell'arnese principiò a ballare e sonare in sulla mensa, e cantava a tutto potere:—«Quest'è la mamma, e questi i su' figlioli: e le zie l'hanno tradita.»—Il Re a sentir quel canto venne in sospetto; e le zie in quel mentre eran casche in terra tramortite. Sicchè lui le fece arrestare e mettere in prigione; e la su' moglie gli raccontò quel che loro gli avevan fatto. Cercorno della Menga e si seppe da lei tutto il tradimento. Il Re allora inviperito comandò che si rizzasse in piazza una catasta di stipa, e sopr'essa volse che ci si bruciasser vive tutte e tre quelle porche lezzone[5], e così gastigate fu finita la miseria.
NOTE
[1] Novella narrata dalla Luisa Ginanni del Montale (Pistoiese), e raccolta dall'avv. prof. Gherardo Nerucci. È una variante delle precedenti. 'A 'Ndriana fata, Cunto Pomiglianese, Per Nozze. Pomigliano d'Arco, M.DCCC.LXXV è un riscontro che non ha potuto esser mentovato prima, con gli altri, perchè pubblicato dopo la stampa del foglio in cui essi si contenevano. Nella prefazioncina a quell'opuscolo è riferita anche una variante avellinese.
[2] Sic. Uff!
[3] «Riesca.» G. N.
[4] «Immensa.» G. N.
[5] Questo termine ingiurioso, tutto toscano ed ignoto a' rimanenti italiani, mi rammenta una graziosa novelletta, che si trova nell'opuscoletto: Rime bernesche di G. Zanetta, Napoli, 1830. Dalla tipografia di N. Pasca, Strada Toledo, sotto la casa del Principe d'Angri, num. 31 (e sulla copertina: Rime bernesche di G. Zanetto. Napoli, 1830. Prezzo grana 20. In duodecimo di novantasei pagine).
Un certo fiorentino
Si recava ad un pubblico festino
Di soppiatto alla moglie. Se n'accorse
La scaltra donna; corse
Gridando come ossessa
A trattenerlo e volle andarvi anch'essa.
Frattanto, indispettito,
Il povero marito
Le disse:—«Moglie diavola, vedrai
«Che te ne pentirai.
«Credimi, per tuo danno,
«Benchè in bautta, ti conosceranno.»
Giunti appena al ridotto, un giocatore,
Ch'era stato più volte perditore,
Spogliando una primiera,
Forte sclamò:——«Lezzona! sei venuta!»—
Lo sposo allor:—«Consorte, ei ti saluta.
«Dàgli la buona sera.
«Se' tu ancor persuasa?
«T'hanno già conosciuta. Andiamo a casa.»
È una facezia popolare; e m'è piaciuto riportarne questa lezione del Zanetto, per ravvicinarla all'altra, più nota, del Pananti:
Il penultimo dì del carnevale,
Desiderò d'andar Berta alle sale
Ove un grosso si fa pubblico giuoco.
Pier, suo marito, sen curava poco;
Ma quella tanto si raccomandò,
Ch'ei disse di condurla:—«Ma però
«Purchè riconosciuta tu non sia;
«Se ti conoscon, ti conduco via.»—La
donna allora si contenta e tutta
La faccia si copri con la bautta.
Vanno; e appunto si mettono davanti
A un giocatore pieno di disdetta.
Che attaccata l'avria con tutti i santi.
Fe' primiera, e gridò dalla saetta:
—O B....., alfin ci sei venuta.»
Allor Pietro:—«Andiam via, t'ha conosciuta.»—