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V.

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IL MONDO SOTTOTERRA.[1]

C'era una volta un omo che aveva tre figlioli. Si sa bene che più che vecchi non si campa; quest'omo, prima di morire, chiama i figlioli al letto e gli dice:—«Sentite ragazzi. Vedete, io sono per morire: mi raccomando che voi stiate in pace. E questo po' di roba, fatene le parti uguali.»—Dunque questo viene a morte, e non se ne parla più; e rimane questi tre figlioli poeri[2].—«Come si deve fare?»—dicono.—«Si venderà questo po' di roba e ci si metterà in viaggio per vedere se si fa fortuna.»—Vendon la roba e poi vanno via. Quando sono per la strada camminan quanton[3] posson camminare, e si mettono in un'osteria a mangiar qualcosa, perchè avevan fame, sapete? Poi si rimettono in viaggio e cammina cammina si trovano sur una bella piazza. E si voltano e vedono una lapide che ci diceva: Il Mondo sottoterra. E questi ragazzi trovano una casa di un contadino e picchiano. Dice:—«Ci dareste un corbello, una fune ed un campanello? Or ora noi vi si riporta?»—Questi contadini gnene dànno e loro si mettono ad alzà' questa lapide. L'alzano. Dice il maggiore:—«Entrerò io in questo corbello. Quando sentite ch'io sôno, tiratemi su; gli è segno che non trovo il fondo.»—Più che gli andava in giù, più bujo, più bujo. Sona il campanello e vien su. Quell'altro fratello—«Ma perchè?»—dice.—«Ora, ora, che vado io!»—Entra lui e va giù. Anche codesto, quando gli è a un dato punto, sona e ritorna in su: gua', non trovava fondo! Dice il minore:—«Anderò io. O che si mora di fame, o che si mora nell'andare giù, gli è la medesima: qualcosa sarà di me.»——E così entra nel corbello e va giù, giù, giù: sino in fondo. E vede un cortile. Guarda: di qui morti, di qua morti, tutti morti attaccati. In mentre gli è lì a guardare i morti, sente dire:—«Che fai tu costì?»—Dice, poerino:—«Siamo venuti a cercar fortuna. Siamo tre figlioli che ci è morto il babbo. Siamo in estremo bisogno.»—«Ah poerino!»—dice—«tu non lo sai? Tu non vedi come sono questi morti? Come sei venuto te? Tu sarai come loro.»—«Perchè?»—«Ora ti dirò il perchè. Abbi da sapere che ci è un gigante che tiene una Regina tutta incatenata. Se ti riescisse d'ammazzarlo, tu l'avresti pur troppo la sorte. Tieni!»—dice:—«Questo è un mazzo di chiavi e questa è una falce. Va avanti. Ci sono sette porte da aprire da questo gigante. Se tu siei bravo e lesto con questa falce di tagliargli la testa, tu siei un signore.»—E sparisce il vecchio. Questo povero giovane comincia ad aprire una porta, ne apre un'altra, infino a sei[4]. Quando gli è all'ultima sente uno scatenìo, un rumore d'armi: era il gigante, che sentendo avvicinare il nemico, arrotava le armi. E lui un timor pànico, non sapeva neppure cosa si fare. Si fa coraggio, apre l'uscio, e con la falce lo piglia così alla gola e il gigante casca a terra. Appena cascato a terra, un urlìo:—«Eccolo il nostro salvatore! eccolo il nostro liberatore!»—Va dietro alle voci e trova la porta in dove era incatenata la Regina. Apre e vede questa disgraziata poerina lì più morta che viva, piena di catene. Gli apre le catene, gli leva tutte quelle che vede. Dice:—«Voi sarete il mio sposo, voi mi avete salvata la vita.»—Prendono tutte le ricchezze che c'eran lì: e mettono tanta roba nel corbello; sonano e i fratelli tiran su, e veggono questa gran ricchezza di quattrini, d'oro, di tutto. Ricalano il corbello: per quattro volte il corbello fu pieno di queste gran ricchezze. Finalmente il fratello minore mette la sposa nel corbello, perchè la tirin su. I fratelli che veggon tutta questa gran ricchezza e questa bella donna, che fanno? Buttan giù la lapide, vanno a riportare il corbello e la fune e si rimettono in viaggio con la Regina e i tesori. Il fratello minore sta lì ad aspettare il corbello per venir su: l'aspetta ancora. Sente l'istessa voce del vecchio che s'affaccia:—«Vedi tu, se tu siei stato tradito? Ora tu siè' morto: che vuoi tu fare? Non c'è' altro scampo»—dice—«chè alle dodici viene il drago. O senti: li vedi questi morti? Mettigline tre o quattro costì; ed empigli un bel bigotto d'acqua.»—Questo ragazzo obbedisce subito a quel che dice il vecchio.—«E quando tu senti che gli ha mangiato tutti questi morti, e gli ha bevuto; lui s'addormenta. Vai adagio, adagio; attaccati al collo. Lui va via e ti porta via da questo posto.»—E questo vecchio si vole che fosse l'anima di suo padre, de' tre fratelli. Questo ragazzo gli fa tutta l'obbedienza; prepara tutta la roba come aveva detto e si mette da sparte d'un cantuccio, niscosto. Quando gli è le dodici, eccoti il drago, bruummatatapum! Si mette a mangiare tutti questi morti; beve; e poi si mette a dormire saporitamente. Questo ragazzo adagio adagio si attacca al collo; e il drago che sente e non sa che sia, via fori della buca. E lui, gli riesce di attaccarsi ad un albero.[5] Dunque la mattina, sapete bene, i contadini vengon giù presto, all'alba; quando sono a questo posto, dice:—«Oh c'è gente sopra quegli alberi.»—Dicono gli altri:—«Eh, c'è davvero, io vo' a casa.»—E tornano tutti addietro. Vanno a casa; e prende la falce, prende la vanga:—«Perchè»—dice,—se è qualche traditore, in tanti si ammazza.»—Aspettan che si faccia lume e veggon che gli è un omo davvero:—«Che fai costassù?»—«Ahn!»—dice,—«sono un povero disgraziato! Èramo tre fratelli: siamo venuti per far fortuna...»—e gli fa tutta la spiegazione. Dicono:—«Questo de' esser quello! Io ho inteso che avete trovata la ricchezza?»—«Sì, appunto.»—Dicono:—«O non sapete che a mezzogiorno uno dei vostri fratelli gli è sposo della Regina che voi avete liberata?»—Gli metton delle funi, s'imbraca e vien giù questo poero disgraziato.—«Noi»—dicono i contadini—«vi accompagneremo sino alla casa de' vostri fratelli, poerino!»—Vanno alla casa e picchiano. I traditori s'affacciano e veggono che gli è il fratello.—«Che nessuno apra! che nessuno apra!»—Picchia picchia e nessuno apriva. Che ti fanno i contadini? Vanno alla giustizia e gli raccontano il caso. La giustizia picchia; e nessun risponde. E buttan giù la porta, oh lo credo, io!—«Oh traditori iniqui»—dice—«ora per voi è finito il bene stare!»—Li ammanettano, gli legano le braccia e li portano al bargello.—«E voi sarete lo sposo»—dice il giudice al fratello minore.—«E lo sposalizio seguirà a mezzogiorno con la vostra sposa.»—Ah potete credere la sposa quando lo vedde (può immaginarsi! il suo liberatore!) che gioja ch'ella ebbe. Segue lo sposalizio, com'era fissato; e all'ora del pranzo i fratelli furono impiccati tutti e due. Questo fu il pago che ebbero. E così loro, gli sposi, senza più paura e timore se ne vissero insieme in pace. E così questa novella è finita. O non è bella?

NOTE

[1] Il Liebrecht (art. cit.) annota:—«Gehört zu Grimm K.M. n.º 91. Das Erdmänneken. Vgl. Köhler zu Gonzenbach n.º 64. Die Geschichte von der Fata Morgana, und meine Bemerkung Gött. Gel. Anz. 1870. Seite 1421 (zu Radloff 3. 518. 'Hämra).»—Vedi anche Pitrè (op. cit.) La Jisterna, Lu munnu suttanu, Lu cuntu di lu magu e di li tre frati. Nello Jahrbuch für Romanische und Englische Literatur, Anno MDCCCLXVII, volume VIII, il Köhler ha pubblicata una fiaba di quel di Sora, raccolta da un certo Arminio Grimm in Roma, dalla bocca di un modello, e malissimo raccolta, come potevamo aspettarci da un tedesco, che poco sa la lingua e niente i dialetti nostri. Eccola, del resto, con poche emendazioni. Si noti che non è mica nel vernacolo di Sora: nient'affatto.

I TRE FRATELLI E LE TRE PRINCIPESSE LIBERATE.

C'erano una volta tre fratelli che andavano alla caccia. Quando venne la notte avevano perso il cammino nel bosco. Disse il più giovane:—«Io voglio montar su quest'albero: forse posso veder dove siamo.»—Quando fu montato, vide un palazzo illuminato. Scese e disse ai fratelli in che direzione dovevano andare. Quando furono al palazzo, lo trovarono illuminato tutto tutto e la porta chiusa. Bussarono co' fucili, ma nessuno rispondeva. Disse il più piccolo:—«Vogliamo sforzar la porta.»— E così entrando, girarono dappertutto senza trovar nessuno; ma in un gran salone stava una tavola con tre piatti e tre bicchieri e tre sedie e molta roba da mangiare. Alfine, perchè avevan fame, si messono a tavola; e poi, quando furono sazî, trovando una camera con tre letti apparecchiati, si coricarono. Ma soltanto i duoi più grandi dormivano, e il terzo restò senza dormir tutta la notte, ma non si fece veder niente. L'altro giorno presero consiglio di rimaner nel palazzo, e che il più vecchio restassi per cucinare immentre che gli altri andassero a caccia. Quando quelli furono via, entrò in cucina un uomo grande grande:—«Cosa fai qua?»—«Io sto cucinando per me ed i miei fratelli.»—«Chi t'ha fatto entrare in questo palazzo?»—«Noi siamo entrati perchè non c'era nessuno per aprirci ed abbiamo mangiato perchè avevamo fame.»—«Io ti voglio dare tante bastonate quanti giorni l'anno ha.»—«Misericordia!»— gridava—«non me ne date tante.»—«Mettiti in posizione per ricever le tue bastonate.»—E il più vecchio fratello si messe in posizione e ricevette tante bastonate quanti giorni l'anno ha. La sera, quando i fratelli ritornarono, non disse niente.—«Cos'hai, fratello, che se' tanto pallido?»—«Io ho avuta la febbre,»—disse—«ho avuto un mancamento.»—L'altro giorno restò il mezzano in casa. Entrò il gigante.—«Cosa fai?»—«Io fo la cucina pe' fratelli e per me.»—«Come sei entrato nel palazzo?»—E la stessa risposta del primo.—«Io ti darò tante bastonate, quanti du' anni hanno giorni.»—«Misericordia! non me ne date tante.»—«Mettiti in posizione!»—E gli dà tante bastonate quanti du' anni hanno giorni. Quando i fratelli vennero la sera, domandava il terzo:—«Cos'hai fratello, che sei tanto pallido?»—«Io ho avuto un mancamento»—rispose. Ma al primo, che non diceva niente, fece un'occhiatina. E così il terzo giorno resta il più giovane. Ma aveva veduta quella occhiatina, e quando i fratelli furon via, se ne andò dietro pian piano per ascoltar cosa dicessero. Disse il primo:—«Io ho ricevute tante bastonate quanti l'anno ha giorni. Tu, quante?»—Disse l'altro:—«Io tante, quanti du' anni hanno giorni.»—Il terzo torna nel palazzo e si metteva a cucinare, quando quel gigante entrò:—«Cosa fai?»—«Quel che mi pare.»—«Come sei entrato nel palazzo?»—«Come m'è piaciuto.»—«Io ti voglio dar tante bastonate, quanti tre anni hanno giorni.»—«Io te ne voglio dar quanti sei anni hanno giorni.»—«Io sono più grande di te,»—disse il gigante.—«Io sono più grande di te»—rispose il giovane e si pose sur una sedia.—«Io sono più grande,»—disse il gigante, e si recava in alto, allungandosi d'un palmo.—«Io sono più grande,»—rispose il terzo fratello e salì sulla tavola. E la terza volta messe la sedia sulla tavola e vi saltò sopra.—«Io sono più grande»—disse il gigante e faceva il collo lungo lungo.... Pan! Il giovane prese la sciabola e gli tagliò la testa. Giù! E la tagliava in pezzi e li gittò nel pozzo. Quando vennero i fratelli, disse loro che voleva scender giù in quel pozzo. Si attaccò ad una corda e prese una campanella e disse che con la corda lo calassero, lo lasciassero andar giù: aspettassero tre giorni. Se dopo tre giorni non avrebbe sonato la campanella, sarebbe stato segno ch'egli era morto. E così scese e al fondo trovò una buca per la quale vidde un vasto prato con erbe e be' fiori; e c'era una vecchia con un fuoco sopra al quale bolliva un caldajo.—«Cosa fai, vecchia?»—«Ohimè, ho perduto il mio figliolo; l'hanno tagliato in pezzi. Io lo voglio mettere in quel caldajo per rendergli la vita.»—Pun! Prese la vecchia e la mise nel caldajo, che vi morì. Cammina cammina, giunse ad un palazzo grande, dove il portone era chiuso. Bussa alla porta; ed apparisce alla finestra una bellissima giovane:—«Fammi entrar nel palazzo.»—«Ohimè, come capiti a questo palazzo, dove non vengono mai cristiani?»—«Io sono cristiano»—e fece il segno della santa croce—«fammi entrare!»—«Ci sono due serpenti che ti mangeranno.»—«Non ho paura.»—«Ci sta mio marito in letto: è un mago; ti mangerà.»—«Io non ho timore.»—Lo fece entrare allora, e gli si messono incontro i duoi serpenti. Pan! tagliava loro la testa. Andò su e trovò il mago nel letto.—«Oh! benvenuto, ti mangerò per pranzo,»—«Io ti mangerò, io.»—Pan! gli taglia la testa; e taglia un pezzo del suo corpo, un pezzo di serpente e se ne fece un arrosto. Allora venne la bella giovane:—«Felice me, che mi hai liberata di quel mago che mi ha rubato: portami via; andiamocene insieme.»—Disse che non poteva portarla via, perchè aveva ancora da fare.—«Ma come ti ricorderai di me?»—disse la giovane.—«Ecco un anello, ch'io ti do.»—Prese l'anello e andò via. Venne ad un palazzo più bello e più grande ancora. Bussa alla porta: e s'affaccia alla finestra una giovane molto più bella di quell'altra.—«Ohimè come sei venuto a questo palazzo, dove non vengono mai cristiani?»—«Sono cristiano io»—rispose—«aprimi la porta.»—«Ci sono due leoni che ti mangeranno.»—«Non ho paura.»—«C'è mio marito in letto che ti mangerà.»—«Non ho timore.»—Taglia la testa ai leoni e la testa al mago come la prima volta e si apparecchiò un pranzo con la sua carne e con quella dei leoni. E quando se ne volle andare, la giovane gli dette un fazzoletto, che non la dimenticasse. Trova allora un terzo palazzo più bello e più grande ancora ed una giovane che soprappassava le due altre di bellezza:—«Oimè, come sei venuto a questo palazzo, dove non arrivano mai cristiani?»—«Sono cristiano»—e fece il segno.—«Ma ci sono due tigri feroci.»—«Non ho paura.»—«Ma mio marito ti mangerà.»—«Non ho timore.»—Entra, taglia la testa alle tigri e la testa al mago, e la giovane gli dette per regalo una piccola bacchetta. E così la condusse via, e poi le altre due: che erano tre sorelle, figliuole d'un Re, rubate da que' maghi. E quando giunsero al pozzo, il giovane suonò con la campanella e fece tirar su prima la meno bella delle tre. Quando i fratelli videro quella donna tanto bella, cominciarono a disputarsi. Uno:—«Io la voglio.»— «No, io la voglio,»—l'altro.—«Date la corda!»—gridava il terzo. E così tirarono su la seconda; e vedendola più bella, cominciarono a litigare, volendol'avere ciascheduno tutta per sè. E così per la terza. Restava allora il terzo fratello nel pozzo. Ma lui, invece di attaccarsi alla corda, vi attaccò un gran sasso. Ben glien'incolse. Chè i fratelli, quando fu mezzo in su, lo lasciarono ricadere ad un tratto, pump! e credendolo morto se ne andarono con le tre principesse. Ma il terzo fratello, non sapendo cosa fare, toccò la bacchetta.—«Cosa volete che si faccia?»—«Ah»—disse—«fatemi uscire da questo pozzo.»—Eccolo subito portato sopra. Tocca di bel nuovo la bacchetta.—«Cosa vuol che si faccia?»—«Fatemi il più valente, il più bello, il più istruito, il più ingegnoso giovane che mai sia stato al mondo.»—E subito, perchè prima era piccolo, divenne grande e forte. S'incammina e va finchè giunge nel Regno del padre delle tre principesse che avea salvate. Quando entra nella città, vede preparare una gran festa. E non poteva trovare alloggio. Si dovevano celebrar le nozze de' due fratelli suoi con due figliole del Re. Entra nella bottega d'un calzolajo.—«Posso io stare in casa vostra?»—«Sì, ma io non vi posso dare a pranzare.»—L'altro giorno il terzo fratello tocca la bacchetta:—«Cosa vuol che si faccia?»—«Io voglio un cane forte.»—Ecco subito il cane.—«Vattene nel palazzo del Re e prendi la tovaglia dove stanno a pranzare, e fa cader tutto a terra.»—Il cane entra nel palazzo e fa come gli era ordinato. Disse il Re:—«Questa è una gran disgrazia. Guardie! un altro giorno non fate più entrar quel cagnaccio.»—L'altro giorno il terzo fratello tocca la bacchetta.—«Cosa volete che si faccia?»—«Un cane più forte ancora.»—Ecco il cane.—«Mettiti sotto la tavola dove pranzano e levati in su, che si rovesci la tavola.»—E il cane fece come gli era ordinato. Ma le guardie lo inseguirono; e quando lo videro entrare dal calzolajo, presero quello per condurlo in carcere. Ma il calzolaio gridava:—«Io non ho cani; domandate a tutti i vicini miei, se io ho avuto mai cani.»—Subito venne allora il terzo fratello dicendo:—«Quei cani erano miei.»—Lo condussero a palazzo.—«Appiccatelo alla forca»—disse il Re.—«È permesso che io pure dica due parole?»—«Dite.»—«A chi appartiene quest'anello?»—«È mio»—grida la più piccola delle tre figliole del Re—«me l'ha dato la mamma, quando aveva tre anni.»—«A chi appartiene questo fazzoletto?»—«È mio»—disse la mezzana—«me lo diede mia madre.»—«Chi mi ha data questa bacchetta?»—«Sono io,»—disse la terza;—«l'ho data a chi mi liberò dal mago.»—Spiegò allora chi era, e come i fratelli l'avevan voluto far morir nel pozzo. E i fratelli furono condannati alle forche e appiccati. E lui prese per moglie la più bella delle tre sorelle; e vi furono subito altri regnanti, che presero le altre due; e furono felici e vissero molti anni.

[2] Poero, che più esattamente si scriverebbe Póhero, giacchè il v non isparisce del tutto, anzi lascia dietro sè una lieve aspirazione. Il Fagiuoli, nello scherzo scenico La Virtù vince l'Avarizia, fa equivocar così un pedante ed un monello.—«Fidenzio. Heu, heu, tu puer!»—«Menghino. Dov'è egghi i' poero?»—«Fidenzio. Dico a te.»—«Menghino. Io non dico d'esser ricco; ma io non sono anche tanto poero, quanto io vi son paruto; me' pa' lagora su il suo, e non dovide quil po' ch'egghi ha con nessuno.»—«Fidenzio. Io non ho detto che tu sia poero.»—«Menghino. Ma io ho inteso a coresto mo', che ci faresti voi?»—«Fidenzio. Io t'ho chiamato puero, idest infante impubero.»—«Menghino. Io non sono infranto, nè son di sughero, io. Vo' m'ate scambiato: io son Menghino figghiol di Goro di Beco del Ficca dal Borratello.»

[3] Sic. Probabilmente lapsus linguae, per amore delle altre n, antecedente e seguente.

[4] Tutti sanno quanto di frequente ricorrano vasti palagi sotterranei in tutti que' racconti che pretendono al meraviglioso. Darò un esempio di simili descrizioni tolto dalla Dianea di Gianfrancesco Loredano, Nobile Veneto (MDCXLII):—«Floridea volle fuggire, ma oppressa o da stanchezza o da timore, fu costretta per non cadere appoggiarsi ad una pietra, che sporgeva più dalle altre fuori del monte. La toccò appena, che si mosse da sè stessa, quasi che le pietre avessero quella pietà, che non poteva ritrovare negli uomini. La spinse un poco più addietro e s'avvidde che serviva per turare l'entrata d'una grandissima grotta, per quanto si poteva comprendere a prima vista. Era quivi posta sopra alcuni cardini con tanto artificio, che con facilità chiudeva ed apriva quella bocca. Al di fuori mostrava molto meno la sua grandezza, ed era situata in maniera che pareva prodotta dalla natura, non fabbricata dall'arte. Si apriva dalla parte di dentro e quando fosse stata assicurata coi puntelli, tutta la forza del mondo non sarebbe stata bastevole a muoverla. Stette per un poco sospesa la principessa: credeva di sognarsi, o pure si persuadeva che gli dei, mossi a pietà delle sue lagrime, le avessero fatto nascere quel ricovero, che solo le poteva difendere l'onestà e la vita. Le pareva strano il seppellirsi da sè stessa in una caverna; pure il timore presente di non cadere nelle mani del Duca, le fece precipitare ogni considerazione dei pericoli futuri. Entrata nella grotta, dubitando d'esser seguita, volle assicurare l'entrata con alcuni catenazzi fortissimi, ch'erano posti a quest'effetto. S'incamminò frettolosa verso dove la chiamava un grandissimo lume. Arrivò in un cortile, che adornato di bellissime colonne e di finissimi marmi, mostrava essere stanza piuttosto degli dei, che sepolcro, come s'aveva immaginato, degli uomini. Tenea nel mezzo situata una grandissima fontana, che da sette statue di politissimo alabastro mandava fuori acque limpide e cristalline. Quivi si fermò la Principessa; e trattasi la sete cagionatale dal timore e dalla fatica, dubbiosa tra sè stessa di quanto potesse sperare negli estremi delle sue infelicità, fu rapita da un soavissimo sonno, effetto o della sua stanchezza o del mormorio di quell'acque.»—La duchessa di Bel—Prato spiega in seguito a Floridea il mistero del sotterraneo:—«Quest'isola è l'amoroso Regno di Cipro. È fama che questa grotta fosse fabbricata da Venere per nascondere gli (sic) suoi amori; oppure da i primi Regi per assicurarsi dalle insidie. Ha sette bocche, che tutte corrispondono al mare, tanto distanti l'una dall'altra, quanto che può servire la vista d'un uomo. Credo, che sotto apparenza di religione, si proibisca la coltura a questa parte dell'isola, per levare l'occasione agli abitanti di spiare questi recessi o di osservare qualcheduno che se ne fuggisse. Tutto il contenuto è sacro; e l'uccidere una fiera o 'l recidere un arbore è delitto capitale. Per un lunghissimo giro restringendosi la bocca va a terminare in un palagio che si denomina dal Segreto. Crede il volgo, che abbia preso il nome da una fonte, che, bevendosi delle sue acque, fa rappresentare in sogno le cose venture; o, come io mi persuado, per queste cave sotterranee palesi solamente alla Maestà del Re e della figliuola, che per ordinario se ne sta qui per essere il più forte e più delizioso luogo dell'isola. Nell'ultima stanza di Sua Altezza si ritrova l'entrata. È in una parte meno osservata: otturando il foro alcune tavole incastrate in maniera che ingannano gli occhi e il tatto. La facilità di levarle può esser solamente capita da coloro, che le veggono levate.»—

Chi ci darà un buon libro intitolato: Grotte e caverne nella fantasia del popolo Italiano? La natura è stata povera e meschina nel creare sotterranei e nell'adornarli, appetto alla inesausta immaginazione e balzana del popol nostro.

[5] Questo drago rimette in mente l'Ippogrifo: ed il cavallo alato della novella palermitana Dammi lu velu (Pitrè, Op. cit.) dov'è anche un tradimento simile al fraterno della nostra. Un Levantino conduce seco in luoghi impervii, appiè d'una balza inaccessibile, un picciotto disperato. Vergheggia il terreno: n'esce un pegaso, sul quale il ragazzo vola a raccoglier tesori in cima al monte per conto del Levantino. Così tre volte. Alla quarta lo stregone gli dice:—«Quel che piglierai è tuo.»—Lo rimanda lassù e poi fa sparire lo aligero destriero ed abbandona il meschinello sul cacume.

La novellaja fiorentina

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