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Sabato 6 giugno 2009

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Solo a Hollywood succede


Boxer bianchi a cuori rossi. Ecco la prima cosa che vedo mercoledì mattina. Il Russo ha pensato di regalarmi un risveglio ancora più tormentato della notte precedente, riempita da pensieri e nostalgia per la partenza di Andrea. Con frenetica impazienza mi vesto e mi accorgo che dalla cucina proviene un odore nauseante. Il Russo si dirige verso di me con una padella di patate e pollo e mi dice: “Help yourself…”.

La risposta che mi viene dal cuore è impronunciabile e irriferibile, ragion per cui opto per un raffinato: “Man, mi spiace ma oggi non è giornata, scusami tanto”. Se però domani si presenta con una qualche zuppa per colazione, giuro che gliela rovescio addosso.


A scuola la giornata passa in fretta tra un esercizio di grammatica e una discussione sul surriscaldamento terrestre.

I pensieri sono da tutt’altra parte ed è comprensibile dunque che il tempo passi più veloce, semplicemente perché non ci penso.

Mercoledì sera io, il Germanico e il Belga ci troviamo nel mio appartamento. Il Germanico ha pensato bene di rifornirsi di Budweiser e di venire a tirarmi un po’ su il morale. Tra un discorso e l’altro, salta fuori che ho realizzato un cortometraggio in Svizzera, 3:45. Glielo mostro e rimangono stupefatti. Ah, gli effetti dell’alcol.

Il giorno dopo nell’aula studenti si tiene una sorta di riunione sulle attività della settimana. Arrivo un po’ lungo perché stavo disperatamente cercando di far funzionare Skype sul mio iPhone. Ho appena comprato un telefono americano, cinquanta dollari e posso chiamare e mandare sms gratis in tutto il mondo. Però è più elegante usare il mio iPhone. Entrando in sala riunioni, vedo sessanta studenti raggruppati attorno a un tavolo che commentano il mio cortometraggio, appena mostrato dal Germanico. Il mio lavoro attira l’attenzione de Il Kazakistano: molto strano. Forse quello che mi spaventa di più (anche più del Russo, che tra l’altro è diventato il suo migliore amico poiché entrambi parlano russo. Mah, io mica lo sapevo che parlavano russo in Kazakistan. Si chiama Dimitri (ve l’avevo detto che c’era...), vive a Compton (il ghetto di Hollywood, con un elevatissimo tasso di criminalità) e vuole fare il regista. Anche lui sta confezionando un piccolo film e me lo avrebbe mostrato appena finito. In lontananza si avvicina Il Turco: si chiama Can ma si fa chiamare John (molti ragazzi cambiano il proprio nome a causa delle difficoltà di pronuncia da parte degli americani). È un tipo tranquillo, ci vado molto d’accordo, parla a monosillabi ma si fa capire. Stava per cambiare scuola ma alla fine ha deciso di rimanere, ed è un bene perché è lui a scarrozzarmi a scuola ogni giorno. Così evito il bus. Ridacchiando mi dice che il video del Kazakistano è un po’hard: c’è una scena di sesso girata dal vivo, i due attori erano due suoi amici strafatti di cocaina. Benvenuti a Los Angeles!

Dopo scuola torno a casa con l’idea di rilassarmi sul divano, ma quando entro pare di stare a un rave party alla foce del fiume Maggia. Incontro:

L’Arabo: non mi piace e fa troppo lo sbruffone. Pare sia il figlio di un petroliere, veste da testa a piedi super griffatissimo e interrompe sempre in un inglese scorretto “You know I go here and I does not have to pay for petrol”. In sostanza cerca di spiegarmi, senza osservare nessuna regola grammaticale, come lui non debba pagare la benzina, poiché nel suo paese vantano numerosi pozzi di petrolio. Sì, certo, vai così Dubai!

Le Brasiliane: sembra che tutte le ragazze della scuola siano o cinesi o brasiliane. Sto parlando di Maju, Manu e Mariana. Non ci ho parlato molto a dire il vero, ma la metà dei ragazzi al residence stravede per loro. Almeno, per Manu e Mariana. Maju ha 17 anni ed è bruttina, poretta, e anche un po’... spontanea (un evidente eufemismo). A scuola, per esempio, stavamo facendo un esercizio sugli errori che si commettono nella vita. Lei doveva fare una domanda a tutti (eravamo tutti maschi) e l’unica cosa che è riuscita a dire è stata “Chi di voi piange e mangia gelato dopo aver fatto uno sbaglio?”. OK, torna a Rio, va. Non gliel’ho detto io, però è praticamente quello che le ha risposto il Belga.

Venerdì pomeriggio mi arriva un messaggio da un amico che vive a Los Angeles e mi dà appuntamento a Beverly Hills sabato sera, dove faremo aperò con un produttore per ABC.

Sabato mattina il sole splende su Los Angeles. Non ho ancora trovato un modo per arrivare a Beverly Hills. Considerati la distanza e il traffico, mi ci vorrà almeno un’ora.


Chiamo un taxi e gli chiedo quanto costa: troppo caro. Provo a chiedere al Turco e al Kazakistano (sì, sono veramente alla canna del gas) ma nessuno può darmi un passaggio. Allora provo a noleggiare un’auto con il nome del Turco, ma non ci sono auto disponibili da nessuna parte. Grandioso. Provo a richiamare il servizio di Shuttle e tento di contrattare sul prezzo. Niente da fare. Dunque beh, lo prendo lo stesso (non che abbia altre opzioni). Mentre mi preparo per il mio debutto a Hollywood, arriva il Russo. Un gelido terrore mi scende nelle vene: siamo solo io e lui.

Questa volta cerco di fare un po’ il gentile e gli chiedo cosa ha fatto durante il giorno. “Ho cercato un dentista... perché voglio comprare un dente ma mi ha detto che costa 2500$, quindi ora vedo se riesco a trovare un dentista russo che magari mi può fare uno sconto”. I più mi avrebbero risposto:

“Sono andato in spiaggia… Ho fatto la spesa... Ho giocato a tennis... ”. Lui no. Sono quattro giorni che è negli Stati Uniti e si fa il giro di LA in taxi per trovare un dentista che gli aggiusti un dente scheggiato. Neanche un dente davanti, che si vede, era un molare scheggiato, che nessuno vede. E lui vuole cambiarlo tutto. La cosa migliore è ignorarlo e corro verso lo Shuttle.

Sul bussino sono in compagnia di una simpatica signora spagnola che flirta con me modello Via col Vento! Sto pensando in italiano, cercando di parlare in inglese e rispondendo in spagnolo alla signora, che continua a rivolgersi a me nella sua lingua madre. Passo un’ora a parlare con la signora del più e del meno, e ogni tre frasi la vispa ottantenne accenna alla coetanea che le sta seduta di fianco: “Come parla bene! Non sapevo che gli svizzeri parlassero spagnolo! Fa proprio freddo in questo bus!”. E mentre lo dice mi lancia occhiate terribilmente maliziose.

Dopo un breve aperò al Roosevelt Hotel, in Hollywood Blvd., il produttore mi congeda con la fretta di un tipico americano.


Il vero problema però è che sono le 20.00, e il Germanico, che dovrebbe portarmi a casa, è ancora a Santa Monica a guardare il tramonto con le Brasiliane, e ci rimarrà ancora fino alle 22.00. Decido dunque di andare al famosissimo Chinese Theatre a vedere Terminator Salvation.

L’entrata è maestosa, le luci sono soffuse e l’aria condizionata soffia sopra il venditore di popcorn. Non so bene quale sia la sala dove proiettano Terminator, a dire il vero non so nemmeno se ci sia più di una sala. Poi la vedo: una sala immensa, con le poltroncine rosse, le pareti e le colonne infinite decorate in stile cinese. Passo dopo passo, respiro dopo respiro, mi perdo nella solenne sontuosità di un cinema che è molto di più di un semplice edificio.

È il simbolo di ciò che ho sempre desiderato: il cinema.

È la prima volta che vado al cinema da solo. È sensazionale, posso fare tutto quello che voglio senza paura di essere giudicato da chi mi sta vicino: ridere, piangere, perfino cercare di imitare le facce degli attori e nessuno mi dirà niente. Nonostante tutta questa libertà, non mi lascio troppo andare. Terminator non è un film né da piangere né da ridere né tanto meno da imitare, anche perché non voglio proprio rovinarmi la carriera prima di averne una.

Finito il film, rimango a guardare i titoli di coda fino alla fine, realizzando quanto importante sia vivere le cose fino in fondo, assaporarle fino all’ultimo istante, cercando di capirle soprattutto. Le ultime settimane sono state un sovraccarico di emozioni, e non sempre ciò che mi accadeva o che cercavo ha coinciso con ciò di cui necessitavo. Ma è proprio in questa città, Hollywood, che ho capito che devo stringere i denti e smetterla di piangermi addosso, perché è proprio in una città come questa, dove tutto sembra essere possibile, che devo dare il massimo e farlo accadere.

Esco dal cinema e il Germanico mi dice che non ci metterà ancora molto. Già, perché capisco il tramonto, ma il sole è già da un pezzo dall’altra parte della Terra! Tipo un’ora e trenta. Un’ora e trenta?!

Faccio l’unica cosa possibile per passare il tempo in questo angolo d’America: analizzo le impronte impresse nel cemento e controllo quale di loro combacia esattamente con la forma del mio piede. Sono così concentrato che ci metto più di qualche secondo per realizzare che l’impronta del mio piede, più larga che alta, corrisponde alla perfezione a quella di Donald Duck. Poi mi faccio un giro per Hollywood Blv., ricolma di gente vestita da cartoni animati o attori famosi (i quali bisognerebbe evitare poiché, non appena scatti una foto con loro, ti rincorrono per farsi pagare.

Seguo uno spettacolo di breakdance al limite del penoso, ma gli lascio un dollaro proprio perché mi fanno quasi pena. Faccio su e giù almeno otto volte della Walk of Fame leggendomi tutti i nomi delle stelle, e mi soffermo ad ascoltare una ragazza che canta Tears in Heaven di Eric Clapton. Bionda, occhi azzurri, vestiti neri alla buona. Guardarla mi ricorda quanto il dettaglio possa fare la differenza. Il raggiungimento di un obiettivo dipende dalla costanza e dall’impegno che ci si mette nel raggiungerlo.

Questa ragazza è brava, ma non ci crede abbastanza. Aspetta qualcosa senza ben sapere cosa, o chi. Lascio un dollaro anche a lei e me ne vado.

È quasi l’una di notte del Germanico nemmeno l’ombra. Due blocchi più in la, le luci di un McDonald illuminano la strada e decido di prendermi un caffè.

Mentre sono alla cassa mi si affianca una zingara, una delle tante che spalleggiano gli homeless, con una faccia da fare un baffo a Platinette e avvicinando le mani al mio portafoglio mi dice: “Comprami un panino”. Niente “Salve, buonasera, come sta?”. Sfacciatamente niente. Dopo tutta una serie di buone azioni compiute durante la serata, alzo il, sopracciglio sinistro e le dico con voce di chi disprezza “I don’t think so. Puff!”. Lei ancora più sfacciata mi manda aquel paese benedicendomi. A Hollywood anche gli zingari mi fanno sentire in colpa.

Mentre sorseggio il mio caffè con la spensieratezza di un bambino tra i prati di una valle sperduta, mi si avvicina un signore, dai tratti messicani, che m’invita a entrare in una Limousine parcheggiata in un vicolo. Da queste parti macchine così sono molto comuni: le riempiono di prostitute e alcol, acchiappano il farfallone di turno e poi lo obbligano a pagare all’uscita. Grazie a Dio mi chiama il Germanico e ripartiamo verso Long Beach.


Nell’auto penso a quanto in America sia tutto più grande: le confezioni di cibo, le bottiglie d’acqua e persino le emozioni: Le senti di più, e per questo ti spaventano e ti ammaliano come non mai, ti saziano il cuore di cose mai provate prima.

Già, a volte succede di trovarsi soli a Hollywood, ma emozioni così, solo a Hollywood puoi provarle.

L'Oscar di Cioccolata

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