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Sabato 16 maggio 2010

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Un dolce e amaro lago di sale


Salt Lake City prende il suo nome dal lago che ne bagna le rive, nel quale, a causa dell’elevata salinità, poche specie viventi sono in grado di vivere. La più rappresentativa è costituita dai gamberetti chiamati Sea Monkeys, letteralmente “scimmie di mare”.


Sono oramai le 23.00 e siamo quasi a casa. Sul sedile di pelle di una jeep, mia zia ci descrive il paesaggio circostante intercalando qualche domanda riguardante la mia vita in Svizzera. Da lontano, la sagoma di una tipica casa americana si avvicina rendendo nitide le luci che la ricoprono. La differenza di fuso orario è di ben otto ore e dunque ci corichiamo in fretta, esausti, pronti per cominciare la nostra avventura “Made In USA”.

L’indomani comincia come un telefilm americano standard: cereali di tutti i tipi in scatole formato famiglia. Da uno scaffale grande circa come la cucina del mio appartamento a Locarno, sbuca lui, il Peanut Butter, ingrediente immancabile nelle cucine americane, cremoso e calorico al punto giusto in caso di tristezza o depressione. Dopo colazione, la giornata prosegue seguendo un programma di assoluto riposo. Spesa da Costco, grande magazzino famoso per le confezioni gigantesche che affollano gli scaffali dove la carta igienica è venduta in pacchi da 108 rotoli.

Laviamo l’auto in una stazione di benzina, passeggiamo tra le aiuole di quartieri abitati da benestanti cittadini con strade costeggiate da case da sogno, e terminiamo la serata al cinema, a vedere un film che, chiaramente, è in inglese.

La domenica è il giorno del grande BBQ; per l’occasione vengono a trovarci alcuni amici di mia cugina Tessa, che però si è recentemente trasferita in Idaho, uno stato quasi fantasma verso il sud del Canada. Osservando la tavola imbandita con pannocchie, hamburger giganti e salse ranch che grondano dalle bistecche, si fa sentire un po’ di nostalgia per le grigliate al fiume a base di luganighetta e costine. Il gusto agro-dolce caratterizza tutto il cibo portato in tavola, ma non mi lamento perché capisco che è solo l’inizio di un necessario quanto inevitabile adattamento a una differente cultura culinaria.

La sera di nuovo cinema (e se vi state chiedendo se sono venuto in America per andare al cinema, beh, la risposta è no, ma per ora è la cosa più semplice da fare). Breve parentesi, considerando che sono ancora sballato per il fuso e che il film è in inglese, un po’ di buon senso mi dovrebbe portare a scegliere film semplici e senza troppi fronzoli. Invece no! Io voglio fare lo sbruffone e scelgo “Angeli e Demoni”, che pullula di parole in latino e intricati misteri. Non contento e non già abbastanza confuso, la sera dopo mi godo l’ultimo capitolo della saga di Star Trek! Non solo non ho mai visto nessuno dei film precedenti, ma da metà film non capisco nemmeno più se si tratta di una storia nel presente, nel passato o nel futuro.

Per smaltire i grassi accumulati già nei primi due giorni di permanenza negli States, e anche per smussare un po’ il mio senso di colpa per aver peccato così sfacciatamente di gola, mia zia mi porta alla Gold Gym, la catena di centri fitness più grande al mondo, la quale, nella sede di Venice Beach in California, ha ospitato i più grandi body builder di sempre, tra cui Arnold Schwarzenegger. Veniamo accolti da Pamela, tacco 12 e minigonna, che ci fa riempiere un modulo d’iscrizione. Mentre Andrea allena addominali e bicipiti, io leggo sulla cyclette. I nostri sforzi si rivelano del tutto vani quando, dopo tanto esercizio, ci ritroviamo a Salt Lake City Downtown, che letteralmente indica il centro della cittadina, a mangiare l’ennesimo hamburger. Purtroppo la mia confidenza


con l’inglese non è tale da permettermi di capire che l’House Pepper Burger è un hamburger ricoperto di pepe, optional che non digerisco proprio.

Il mercoledì della stessa settimana partiamo per Boise, la capitale dell’Idaho, dove vive mia cugina Tessa. Sono cinque ore di viaggio su una strada dritta, di quelle che ti regalano una porzione di cielo supplementare perché le montagne non esistono. Con l’iPod nelle orecchie cerco di confondere la tristezza tra le note di Bob Marley.

Boise è una cittadina molto tranquilla, contornata dal deserto ma abbondante di piante, con un’allegra moltitudine di scoiattoli che corrono per le strade. Ci sediamo nella terrazza di un ristorante italiano, dove mangiamo bruschette al pomodoro e discutiamo della storia di questa piccola cittadina con mia cugina che sorseggia un Merlot della California. Nella piccola casa di legno di Tessa, le nostre chiacchiere spaziano dai nostri progetti futuri al cibo americano, e Andrea, dopo un lunghissimo silenzio imposto da un inglese ancora troppo acerbo, salta fuori con: “Bah, meglio non mangiare messicano” proprio quando mia cugina sta accennando alle super Fajitas che il suo fidanzato nel frattempo è intento a preparare. Durante la cena scopro che Scott, il fidanzato di mia cugina legge i tarocchi. Il mio sguardo s’incupisce, la mia voce si fa roca e, con la gravità di un sacerdote in confessione, gli chiedo: “Che cosa mi riserva il futuro?”.

“You’re pretending to be happy”, mi dice Scott.

E così è. Non sono contento, fingo solo di esserlo e non riesco a gestire le mie emozioni, così confuse dal giorno della mia partenza.

Passiamo la notte in un hotel mediocre, che sarebbe carino se il copriletto di Andrea non fosse ricoperto da macchie di dubbia origine e natura. Ripartiamo verso Salt Lake City, dove faremo un veloce pit-stop di una notte. Organizziamo i bagagli, doccia veloce, tagliamo l’erba, piantiamo cespugli e sistemiamo le aiuole. Facciamo i giardinieri improvvisati professionisti prima di partire per Vegas, io con delle Hogan costose e Andrea con le infradito.


I primi giorni in America sono passati così, con la nostalgia dell’abbandono addolcita dalla gentilezza e disponibilità delle persone al mio fianco. Mi sento un po’ come quelle “scimmie di mare”, adattato a vivere in un posto che, malgrado tutto, continua a essere una pozza d’acqua terribilmente salata.

L'Oscar di Cioccolata

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