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Giovedì 18 giugno 2009

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Che cosa successe la notte di giovedì 18 giugno


La verità è che non c’era nessun party. O meglio, nessuno lo ricorda.


Il primo giorno di scuola, apro la porta e mi si presenta davanti un ragazzo alto più o meno come me, con i capelli biondi e spettinati, occhi chiari e il sorriso di chi è ancora giovane e dominato da un’ingenuità che fa tenacemente a pugni con la voglia di sembrare più grande. Si chiama Jean Frivole, viene dal Belgio, ed è in questa scuola da sei mesi. Vive nel residence, a dire il vero dormiva nel mio stesso letto prima che io arrivassi, ma a causa di un’eccessiva attitudine festaiola qualche mese fa l’hanno cacciato, costringendolo così a vivere in una famiglia. Nonostante la proibizione di rimanere nel residence, le notti che passa con noi sono più di quelle che trascorre con la sua famiglia americana. Non una presentazione impeccabile, e non mille domande sul mio passato. La prima volta che lo incontrai voleva solo una birra, una sigaretta e sedersi a chiacchierare sulla spiaggia. Al momento non mi sembrò un grande piano, ma poi si rivelò più che ottimo. Liberatorio da tutti quei rigidi schemi che ero solito seguire. Ho scoperto che, a volte, ascoltare e ascoltarsi non è poi così male. Diretti, senza nessun tipo di formalità, da quel giorno in poi abbiamo solo lasciato che il treno che avevamo preso continuasse ad andare.


È mezzanotte di giovedì 18 giugno e Sheila sta quasi dormendo, ancora assonnata per il viaggio. Il bus ha appena parcheggiato e il Germanico mi ha detto che la festa sarebbe continuata al piano di sopra. Ci vado con costume, maglia bianca e infradito, lasciando il cellulare americano in stanza. Ciò che vedo quando raggiungo l’appartamento al piano di sopra è quasi raccapricciante: una trentina di persone, tra cui il Turco, il Belga, il Germanico e tutti i miei compagni, assolutamente ubriachi marci. Mi sono accorto ormai che qui, in California, l’alcol è come la gazzosa da noi, in Ticino. Dunque non dovrei essere così sconcertato alla vista di qualche saltello per l’appartamento. Ma la verità va ben oltre a ciò che potrei aspettarmi. Carta igienica srotolata ovunque, divani rovesciati e bottiglie di birra che “valorizzano” la mobilia.

A un certo punto un ragazzo, mai visto prima, spalanca la porta e annuncia che una nostra amica è caduta da un balconcino, ma nessuno reagisce con particolare stupore né mostra di allarmarsi. La risposta generale è del tipo “Una birra e passa tutto”. Io e la Turca (una nuova arrivata che merita un capitol intero), che siamo gli unici sani, corriamo di sotto a vedere chi è. Ci precedono però due compagne, che stanno già portando in spalla la ragazza ferita. Si tratta di Melanie la Belga, la migliore amica di Jean il Belga. Il viso pieno di sangue, difficoltà a camminare e non sente il braccio.

C’è bisogno di aggiungere che il suo tasso alcolemico fa a gara con la sua temperatura corporea? La facciamo sdraiare e mi precipito in cucina a prendere un po’ di ghiaccio. Non lo trovo. Le porto una lattina di Budweiser che non so chi (probabilmente il Russo) ha messo nel congelatore. Beh, si fa quel che si può. Cerco di capire che cosa sia successo, ma Melanie non ricorda e piange a dirotto.

“Sei inciampata?”. “Non lo so, non ricordo niente!”.

Non si ricorda niente, è concia da buttare, e sono l’unico che se ne accorge. Parlo con il tizio che era in sua compagnia, forse le ha dato qualche tipo di droga oppure una quantità esagerata di alcol, ma lui nega. Poi mi dice che stavano pomiciando, ha visto un muretto, l’ha spinta un po’ indietro per appoggiarsi ed è caduta. Grande man, tu sì che sei un cavaliere!

Avviso Amy, la professoressa libertina che oramai fa parte della nostra combriccola di scapestrati. Il Belga, pieno come una spugna, è nel letto della Spagnola a limonare con una delle brasiliane. Insomma, se dovessimo rappresentare questa situazione culinariamente, immagino una padella per la paella riempita con patatine fritte e banane. Dopo qualche bestemmia il Belga mi raggiunge e andiamo all’ospedale perché la situazione si complica e la ragazza sta sempre più male. Prendiamo l’auto della professoressa, ma visto che anche lei ha bevuto, l’unico che può guidare sono io. Una piccola parentesi: io non mi definirei un pilota di formula uno, quindi le prospettive per la serata non stanno per migliorare. In auto Amy, Jean il Belga, Melanie la Belga sanguinante, Marc il Francese ed io. Arriviamo all’ospedale dopo ben cinque inversioni a “U”.

A complicare la situazione ci si mettono anche le regole stradali americane. In California, se non sei residente, hai la possibilità di utilizzare una patente internazionale. Quella Svizzera, per esempio, poiché tradotta già in diverse lingue, vale come tale. Se invece si risiede a Los Angeles come vero e proprio cittadino, la legge californiana richiede un test pratico e teorico. La patente californiana non è difficile da ottenere, ma le trafile di scartoffie amministrative che la precedono e susseguono la rendono qualcosa che non ho proprio intenzione di fare. Quando si guida in California però, bisogna tenere conto di qualche dettaglio particolarmente importante:


1) quando il semaforo è rosso, si può svoltare a destra se non ci sono macchine che passano perpendicolarmente. Da evitare una volta che si torna in Europa;

2) nelle preselezioni, anche se il semaforo è verde, bisogna sempre dare la precedenza alle macchine che arrivano in senso contrario;

3) solitamente, quando è verde per le macchine, è verde anche per i pedoni. Prestare particolare attenzione a questo dettaglio. In America dove tutti possono fare causa a tutti, i pedoni sono i primi che sperano di essere travolti per poi essere pagati a vita;

4) superare a destra è consentito.


All’accettazione del pronto soccorso troviamo un’infermiera che poteva tanto prepararmi una tortilla nel tempo che ci ha messo a trovare i moduli d’iscrizione per l’ospedale.

Melanie la Belga sanguinante, non ha con sé la borsa, dunque né documenti né informazioni sulla cassa malati o assicurazione, è la fine.


Sono le 2.00: io e il francese siamo seduti in sala d’aspetto, Jean il Belga dorme nell’auto, e Amy è con Maeline e il dottore.


Sono le 3.00: la vita del Francese mi pare di saperla a memoria (e viceversa). La chiacchierata è piacevole, anche se avrei preferito essere a casa, o perlomeno avere dei vestiti normali e non da spiaggia considerando che sto morendo di freddo. In California non sanno regolare i condizionatori. Nessuna notizia da parte dei dottori. Nessun’idea di cosa diavolo sta succedendo.


Sono le 4.00: dopo una trentina di “Never have I ever…” sia io che lui abbiamo cominciato a ripeterci ad intermittenza. Guardo il mio telefonino svizzero, mando un messaggio a Sheila sapendo bene che non lo riceverà mai a causa della cattiva ricezione. Ogni tanto osservo dalla porta di vetro Jean il Belga che si è appisolato nell’auto. La sua migliore amica sta quasi morendo nella sala d’aspetto di un ospedale californiano e lui dorme il sonno dei giusti.


Sono le 5.00: da una buona mezz’ora sto dormendo sulla sedia della sala d’aspetto. Il Francese ha seguito il mio esempio, anche se non è proprio dei più comodi.

Altro che Dr. House. La verità è che serie televisive come quella, o come E.R, o come Gray’s Anatomy hanno successo perché il sistema ospedaliero americano fa scandalosamente acqua da tutte le parti! Chiaramente lo spettatore medio americano rimane stupito da miracoli infermieristici e dottori eccellenti – quelli sì che sono colpi di scena. Se non fosse per l’aria condizionata e le luci al neon, parrebbe di stare in un centro infermieristico di un campo profughi. Sembra un paradosso: l’America, una delle nazioni più potenti e tecnologicamente avanzate al mondo, offre ai suoi cittadini un servizio sanitario così scadente e mal organizzato che c’è da chiedersi se forse sia il caso di tagliare i costi in attività molto meno indispensabili. Principalmente penso ai costi per il conflitto in Iraq, ma anche alle spese ridicole che vengono effettuate per manifestazioni quali il Super Bowl o la Notte degli Oscar. Si potrebbe risparmiare su carri armati e scenografie faraoniche e destinare quei soldi alla formazione del personale ospedaliero e al miglioramento del sistema.

Mi sposto nell’auto nella speranza di trovare un ambiente un po’ meno polare. Qualche minuto dopo mi segue il Francese, anche lui esausto.


Sono le 6.00 del mattino, ne ho piena l’anima per vari motivi:


a) fa un freddo cane anche in auto;

b) sono stanco morto e tra due ore devo essere a scuola.

c) per quanto ne so la ragazza potrebbe essere grave, viva o morta;

d) non posso chiamare nessuno e Sheila mi aspetta a casa;

e) non mi spiego come sia possibile trovarsi in una situazione simile.


Sono le 7.00: Amy entra in auto. Ci dice che l’infermiere è nuovo e sta andando a tentativi: “Mah, io direi che è meglio se le faccio una punturina. Sì, dai, un cerottino anche qua non sta male. Forse, mah, forse è quasi una buona idea farle delle tac...”.

Ci vorrà un’altra oretta. Eh no eh! Se è grave me ne vado e torno dopo. Se sta bene la porto a casa. Allora entro, torno dall’infermiera Tortilla e le chiedo di farmi entrare. Melanie è l’unica paziente e ci sono almeno venti persone tra dottori e infermieri che discutono animatamente. Il commento che più si avvicina a una diagnosi è: “Oddio! Questo è il tuo cane! Dovresti tagliargli il pelo, è troppo lungo!”.

Non sto scherzando.

Con passo lento e svogliato si avvicina il premio Nobel infermieristico e mi dice di portarla a casa. La scena è pressappoco terrificante: il viso è gonfio, non riesce a camminare e il braccio è legato al collo. L’infermiere mi dice: “Potrebbe avere rotto lo zigomo ma non abbiamo abbastanza garanzie che la sua assicurazione paghi”.

Ah beh! Io che cosa dovrei farle, un flyer?!

Con l’aiuto del Francese la trascino in auto, e finalmente, alle 7.35 arriviamo al residence dove mi aspetta una Sheila solo leggermente imbufalita. Colpa mia.

Arrivano il Belga, il Turco, il Germanico e una brasiliana.

Io mangio un donut, il Belga fuma una sigaretta e finisce la lattina di birra della sera prima al ritmo di una musica minimal in sottofondo. Mi sento nella parte finale di Trainspotting.

A scuola ci arrivo in ritardo, con due occhi da far invidia a Terminator e con un malumore che non ci s’immagina.


L’ultimo giorno di scuola della settimana tra il 15 e il 21 giugno non è un giorno ordinario. È l’ultimo giorno di scuola di Jean Frivole, il Belga. Un ragazzo come un altro che però forse più di tutti mi ha insegnato che vivere a Los Angeles è come vivere in un mondo parallelo: non si seguono schemi e non si va dietro a nessuno. Ognuno pensa a se stesso, al massimo acconsente a farsi seguire.


Ho sempre pensato che tutto debba essere programmato e calcolato in ogni minimo dettaglio. A volte però, bisogna dimenticare complicati schemi e lasciare che tutto vada come debba andare.

L'Oscar di Cioccolata

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