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Giovedì 18 giugno 2009

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Welcome to America, my love


Il giorno della mia partenza, i miei pensieri non erano focalizzati su quello che mi aspettava dall’altra parte dell’oceano, al contrario, lo erano su ciò che stavo lasciando. La mia famiglia, i miei amici e Sheila, che solo al pensiero di non vederla avrei voluto morire. Un’amica, vedendomi giù di morale mi disse: “È solo che s’idealizza quello che si lascia: luoghi, momenti, e ovviamente persone assumono una perfezione che non avrebbero normalmente. È un artificio mentale”.


La mattina di giovedì 18 giugno è soleggiata. Il vento soffia un poco, ma non abbastanza da abbassare la temperatura.

Mi sveglio e risciacquo la faccia guardandomi a lungo allo specchio: noto che dovrei assolutamente accorciare la barba, ormai troppo lunga. Indosso pantaloni neri, una polo bianca, infilo le D&G blu, metto l’orologio, il bracciale e la catena. Tranquillo mi dirigo verso la sala da colazione. Passo attraverso il prato e le palme della strada che costeggia il mio appartamento, salgo le scale tra la Jacuzzi fumante e la piscina, e arrivo in una grande sala luminosa. La moquette beige s’intona con le sedie un po’ kitsch, e la carta da parati è ancora più sfarzosa. Mi siedo a un tavolo e imburro una fetta di pane da toast dolce, con un retrogusto chimico. Al mio tavolo arrivano con un sorriso smagliante le New entry della scuola d’inglese.

La Spagnola: con un sorriso che pare stampato a colori sull’esile viso, si presenta Cristine, ha ventuno anni ed è di Madrid. Studia storia all’università e si tratterrà per due mesi. Approfitta del fatto che parlo spagnolo per evitare di imparare l’inglese, e non perde occasione per prendermi in giro perché correggo i miei compagni quando parlano inglese scorrettamente. Un misto di dolcezza, passione e fascino, a tratti velati dalla tristezza e dalla nostalgia per il suo ragazzo, Gonzalo, rimasto in Spagna.

L’Ucraina: si chiama Alina. Mi sono fatto l’idea che in Russia per dare il nome a un bambino alla nascita debbano scegliere tra quattro possibilità:


a) Alina

b) Aliona

c) Anastasia (come quella famosa)

d) Dimitri (contrariamente a ciò che si crede, in format unisex)


Ha sedici anni (anche se un velo di mistero cela la sua vera età, poiché evita di mostrare il passaporto) ed è la più piccola del gruppo. Si ferma per due mesi anche lei come Cristine, e s’infuria se le dò della russa (conclusione alla quale sono giunto erroneamente, con tutta evidenza, notando le sue lunghe chiacchierate con il mio coinquilino russo, senza contare che non sono mai stato un genio in geografia).

Canta molto bene, anche se dopo sedici shottini di Bacardi liscio ha perso un po’ l’intonazione (non ha mai smesso di cantare però).


Lo Spagnolo: una sagoma di spontaneità. Ramon, filiforme, ventuno anni, anche lui di Madrid. È innamoratissimo della sua fidanzata, di cui non smette di parlare, e adora cucinare, tanto che una sera mentre stiravo (purtroppo, bisogna fare anche questo) mi ha imbastito una dimostrazione quasi pratica (nel senso che ha tirato fuori padelle e mestoli) di come si cucina una tortilla spagnola. Non ho ben capito tutti i passaggi, ma mi ha promesso che settimana prossima la cucinerà. Fa il calciatore, ha anche giocato nel Lugano per qualche mese, e vuole diventare un maestro di sport. Non c’è modo di parlare inglese con lui, solo spagnolo.

Il 18 giugno è un giorno memorabile. Uno di quelli che ti svegli con un sorriso che neanche la madre di tutte le tempeste potrebbe spazzare via. Faccio spesa, riordino, pulisco la cucina, il bagno e la sala. Passo l’aspirapolvere e lavo gli specchi. Ordino i vestiti per colore e cambio le lenzuola. Accendo lo stereo per iPod e schiaccio play: Lamb. Tiro un respiro e mi guardo allo specchio. Mi ricordo che devo accorciare la barba. Doccia, asciugacapelli (pochi ma che comunque vanno asciugati), deodorante e qualche scoordinato spruzzo di profumo. Dò un’ultima passata alle scarpe e mi siedo al computer. Creo un CD con le canzoni più significative. Esco e prelevo. Aspetto di fronte al residence. Passa la prima e non mi vede. La rincorro. Mi dice però che non è quella giusta. Cinque minuti dopo, eccola puntuale: nera, lunghissima.

In America le limousine sono quasi scontate, ma è difficile credere che possano costare meno di un taxi. Apro la bottiglia di Vodka e ne verso un po’ nel bicchiere con la Sprite. Non ne metto molta, solo per fare un po’ di scena. Abbasso i finestrini, mi metto gli occhiali da sole e ascolto il vento che vi passa attraverso mentre la schiena suda a contatto con i sedili di pelle nera.

Una volta all’aeroporto, un poliziotto mi borbotta qualcosa addosso perché l’autista mi ha fatto scendere nel posto sbagliato, ma ho una limousine, nulla può togliermi il sorriso dalla fronte (sorrido così tanto che è arrivato fino lì). Aspetto.

I minuti sembrano diventare ore e l’impazienza aumenta.

Cerco di sbirciare sopra le teste di altre persone appena sbarcate a El Pueblo de la Iglesia de Nuestra Señora la Reina de Los Angeles de Porciúncola, l’antico e lunghissimo nome di Los Angeles. Finalmente la vedo: così, come l’avevo lasciata un mese fa, ha scavalcato l’oceano e mi ha raggiunto. Gli occhi sono lucidi, un abbraccio, mille baci. Di solito quando si è estremamente felici si sentono le farfalle nello stomaco, ma in questo momento, mentre abbraccio Sheila, mi pare di avere una prateria in fermento nel cuore. Purtroppo però, il fermento nella prateria viene bruscamente interrotto da un addetto alla sicurezza che bruscamente ci suggerisce di baciarci mentre camminiamo perché stiamo ostruendo il traffico. Saremo anche giovani ma certe cose le facciamo ancora alla vecchia maniera: io con il bicipite tirato (quale bicipite?) e Sheila con la gamba destra piegata. Come in quei vecchi film in bianco e nero.

Ho spiegato a Sheila che il traffico a LA è particolarmente intenso, che dunque il Germanico avrebbe fatto un po’ fatica ad arrivare in tempo. La verità invece è che le limousine non possono sostare di fronte all’aeroporto e dunque l’autista si sta facendo un giro di LAX, l’aeroporto internazionale di Los Angeles. Sotto lo sguardo incredulo della mia ragazza, lo chauffeur ci chiama dall’altra parte della strada: “Mr. Sussigan!”. Poi, nel caldo del suo completo nero e camicia bianca, carica le valigie e si dirige verso Long Beach.

Una volta a casa, mentre il sugo della pasta al tonno ribolle, Sheila svuota la valigia e arrivano il Belga, il Turco e il Germanico. Sheila ed io decliniamo saggiamente l’invito al Busparty, che è esattamente come un Limoparty solo più grande e più devastante, organizzato in onore della partenza di Jean il Belga, che domani tornerà in Belgio.

Sdraiato sul mio letto, che al fianco di Sheila è diventato infinitamente più comodo, penso alle parole della mia amica:

a volte idealizziamo ciò che ci manca, facendogli raggiungere un grado di perfezione assai superiore a quanto nella realtà sia possibile. Ma ora, ora che tutto sembra così in equilibrio, posso certo dire che la perfezione esiste. Eccome.


È mezzanotte e Sheila sta già quasi dormendo. Il bus ha appena parcheggiato, e il Germanico mi avverte via sms che avrebbero continuato il party al residence. M’infilo le prime cose che mi capitano in mano: il costume e una maglietta bianca. Lascio il cellulare americano a casa e dico a Sheila che tornerò tra mezz’oretta.


Non sarebbero mai stati trenta minuti. Il panico sta per scatenarsi a Los Angeles.

L'Oscar di Cioccolata

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