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II.
La Rosa.

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Alcuni mesi prima che venisse alla luce l'amabile e privilegiata creatura che descrissi alla meglio, in un villaggio tre leghe discosto dalla città, nasceva un'altra bambina che doveva dividere con essa il latte materno. Nasceva senza aspettazioni, senza complimenti, quasi quasi senza levatrice; fu battezzata col nome di Maria, e il padre e la madre, buoni mezzajuoli del conte di Susans, vedendola vegeta e tarchiatella si dissero fra loro: — In pochi anni ci aiuterà al campo, e si farà il corredo filando. — Fu spoppata di sei mesi, perchè metteva già i denti ed appetiva altro cibo, e la Margherita s'offerse per balia alla bambina della propria padrona nata a quei giorni. Questa approfittò dell'occasione, dimenticò i libri che raccomandano alle madri questo primo dovere d'allattare i propri figli, consultò il medico di casa, il quale, interrogati prima gli occhi di lei, dichiarò che la sua salute non permetteva l'allattamento, e quietata così la coscienza, si mandò la figliuola a balia dalla Margherita. Chi vedeva quelle due bambine non poteva trattenersi dal paragonarle fra loro. Quella era vera figlia del campo, piena di vigore e di sangue, un bel boccino di primavera; questa era languida, sparutella; somigliava ad una di quelle roselline tardive che nascono alla seconda vegetazione d'autunno, e sentono già il verno imminente. Non avevano di comune che il latte della villana, e anche questo per puro accidente.

Questo accidente non fu però inutile alla Maria. La madre, dal punto che fu assunta all'onore d'allattare la figlia della contessa padrona, divenne oggetto di mille attenzioni. Le fu dato agio di ben nutrirsi, perchè il latte scorresse più salubre e sostanzioso nelle vene aristocratiche della bambina; le furono ripetuti e dalla dama e dal medico non so quanti avvertimenti d'igiene, dei quali la buona donna non aveva mai udito parlare al villaggio, ma che pure le parvero comodi e buoni a seguire. Conosciuta l'utilità di queste norme, le usò del pari per la propria figliuola che per l'altrui, e dei buoni brodi che le venivano amministrati godeva più la figlia naturale che l'adottiva, o almeno giovavano più alla prima che alla seconda. Tratto tratto la contessa faceva una corsa al villaggio e non dissimulava l'invidia che quella disparità le svegliava nell'animo. Anzi talora le spuntò il rimprovero, quasi che Margherita trascurasse la bambina a lei confidata per badare alla propria. Poi si racconsolava dicendo: — Si vede bene che codesto è sangue villano, mentre nei delicati lineamenti di mia figlia traspare la nobiltà del lignaggio! — Così, dato un bacio alla propria, e un pizzicotto all'altrui figliuola, rimontava in carrozza, e accompagnata dai suoi staffieri e dal medico, se ne tornava in città.

Mentre i due nobili parenti almanaccavano sulla educazione da darsi al proprio sangue, i due genitori del contado pensavano a Maria un po' meno che ai bachi da seta di cui solevano tenere una bella partita a metà. Ella veniva su come la mal'erba nell'orto, senza l'opera della vanga nè della zappa. Ma l'aria aperta, il sole, gli alimenti semplici e sani, svolgevano mirabilmente la sua buona natura, e fino da quei teneri anni si poteva augurare assai bene della futura rosa del contado.

Era davvero un bel bottoncino di rosa; paffutella, vermiglia, begli occhi neri, capelli folti, vispa come una anguilla, voce intonata e vibrante; correva, sguizzava fra le anitre e le galline, senza cuffia e quasi senza abiti, al sole e alla pioggia, senza timore d'infreddature, senza bisogno di magnesia nè d'altro.

Certo non sapea nè la Bibbia nè il Kempis. La madre le aveva insegnato l'orazione domenicale e l'Ave Maria, non senza qualche storpiatura inevitabile di pronuncia. Di tre anni fu mandata all'Asilo che proprio in quell'anno era stato aperto nel villaggio, secondo il metodo dell'Aporti. Quivi imparò a leggere, a filare, a cantare, mentre il padre e la madre badavano alle loro faccende, e si tenevano felici d'esser dispensati da quel pensiero. Quando la sera la rivedevano pulita, compostina, e più sveglia di prima, si sogguardavano fra loro con tacita compiacenza e benedivano la carità del buon fondatore. — Se avessimo avuto questa fortuna a' dì nostri! — dicevano — adesso non avremmo bisogno di ricorrere ad altri per una lettera e per un conto! — Quella buona gente riconosceva con queste parole la bontà dell'istituzione che fino dal suo nascere ebbe tante calunnie e tante opposizioni dagli illuminati del secolo e della Chiesa.

All'età di sette anni cambiò i denti e mutò d'occupazione. Andò ai campi, falciò l'erba, aiutò la madre in molte faccenduole domestiche, e così snodò le membra e divenne svelta ed aitante della persona. La sua musica si limitava al cantare la preghiera domenicale e l'Ave Maria colla semplice cantilena che aveva imparata all'Asilo; ma quando si trovava nei prati, o girava l'arcolaio dinanzi alla porta della casa, canterellava i patrii stornelli senza bisogno di maestro e senza cercarne l'intonazione sul pianoforte. Il ballo lo avrebbe imparato più tardi senz'altro insegnamento che l'esempio delle compagne: il disegno poi.... il disegno lo lasciava ai pittori, ed il dono delle lingue agli apostoli.

Questa è l'educazione fisica, spirituale e morale della Maria. Felice lei se non avesse pensato più in là, se la sua vita come quella di sua madre, fosse potuta scorrere fra l'angusta sfera delle idee d'una contadina!

Ciò sarebbe forse avvenuto senza l'accidente che pose per alcun tempo a contatto la figliuola del povero con quella del ricco. La contessa, anche dopo aver ritirato la sua bambina, ebbe più volte la degnazione di visitare la donna che aveva adempite presso di quella le funzioni di madre; fosse per bontà di cuore, o perchè quella specie di trasfusione di un sangue nell'altro avesse innalzato a' suoi occhi l'umile Margherita. E questa, piena di riconoscenza per tali atti di bontà, ed incoraggiata dall'affetto quasi materno che aveva concepito per la sua figlia di latte, recavasi qualche volta al palazzo colla sua bimba, e vedeva con gioia e con orgoglio assai perdonabile, quel resto di dimestichezza che regnava ancora fra quelle due creature destinate più tardi ad una vita così differente. Queste visite continuarono, benchè più rare, anche in seguito: cosicchè le due fanciulline ebbero agio di parlare insieme, di comunicarsi senza saperlo una parte delle loro idee, dei loro istinti e delle loro abitudini. Matilde mostrava alla villanella i suoi balocchi, le sue stampe, i suoi libri, tutti quei nonnulla di cui la circondavano i suoi genitori e gli amici di casa, nel Capo d'anno, nel Natalizio e nel giorno onomastico. La Rosa apriva tanto d'occhi, lodava questo, toccava quello, s'acconciava per celia e per contentare la padroncina gli smanigli e le altre cianfrusaglie di cui aveva piena la stanza: avrebbe voluto ella pure far pompa di qualche cosa, ma, poverina! che poteva mostrare di suo alla ricca damigella, se non qualche fiore cresciuto nell'orto, qualche volgare garofano, qualche mammola primaticcia. Questi erano i suoi tesori, e non mancava di recare alla sorellina di latte i più bei fiori che sbocciavano inaffiati dalle sue mani e destinati a quell'uso. Era appunto in queste occasioni ch'ella pregava la madre a volerla condurre dalla Matilde, la quale faceva buon viso al dono ed alla donatrice, sebbene che cosa erano quei fiori per lei che possedeva nei sontuosi stanzoni le piante più rare che l'industria del giardiniere aveva raccolto in più climi per essa? — Un giorno, non so se per orgoglio o per leggerezza, Matilde condusse la contadinella là dentro, tenendo ancora in mano il volgar mazzolino di mammole che aveva colto per lei frugando e rifrugando tutte le siepi del vicinato.

Quando Rosa vide quei fiori mirabili di forme e di tinte così peregrine, rimase mortificata del suo dono ed era lì lì per piangere. Matilde non si accorse di ciò, e quand'anche se ne fosse accorta, poteva essa indovinare la causa di quelle lagrime?

Avrei io forse fatto torto al suo cuore con questa supposizione? Avrei io, senza volerlo, data la preferenza alla figlia dei campi per istrazio dell'altra? Questa non era la mia intenzione. Entrambe avevano avuto qualche cosa più di comune che il primo alimento. S'amavano le due fanciulle quanto possono amarsi due esseri appartenenti alle due opposte estremità della scala sociale. Questo contatto fortuito aveva aumentato il capitale delle loro idee e delle loro affezioni. Se la villanella avesse potuto comunicare all'altra il semplice gusto per la campagna e non più, avrebbe contribuito alla educazione del suo cuore: così se la damina si fosse accontentata d'ispirare alla forosetta il sentimento della dignità e del decoro, e non altro, avrebbe avuto un diritto alla sua gratitudine. Ma non vediamo i beni altrui senza che in un modo o nell'altro non nasca nel nostro cuore, se non l'invidia, almeno un inutile desiderio di quelli. Di qui le due fanciulle cominciarono a fabbricare ciascuna nel suo segreto i loro castelli in aria. Gentili lettrici, uditeli entrambi, e poi mi saprete dire qual è il più bello.

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