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V.
Confidenze.

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Non erano passati due mesi dacchè le due fanciulle aveano fabbricato ciascuna il proprio castello, quando un bel giorno la Rosa sentì lo scalpito di due cavalli, e alzando gli occhi dall'arcolajo vide arrivare Matilde in abito d'amazzone assisa sopra un bel ginetto a scorza di castagna, accompagnata da un suo cugino che aveva assunto l'incarico d'insegnarle l'arte del cavalcare. Poco dopo giunsero in carrozza i suoi genitori, i quali le furono tosto d'attorno inquieti per la cara sua vita. Avevano dovuto arrendersi al capriccio di lei, ed anche alle istanze del suo maestro sul quale m'avverrà in seguito di far qualche parola: ma vi potete figurare con quante restrizioni, con quanti consigli, con quanti timori! La fanciulla alla fine l'aveva vinta, o piuttosto essi avevano dovuto cedere al suo desiderio, per paura che il contrastarvi a lungo non recasse più danno alla sua salute che una cavalcata di poche miglia.

Matilde spiccò un salto dal suo palafreno, e lesta come una gazzella, senza depor lo scudiscio, s'accostò alla sua sorella di latte e l'abbracciò con insolita effusione di tenerezza. La Rosa attonita lasciava l'aspo e l'accoglieva con un misto d'imbarazzo, d'affetto e di meraviglia.

Le mie lettrici potrebbero qui domandarmi s'io volessi addirittura por mano alla doppia trasmigrazione di quelle due anime. — Che sì — diranno — che fra poco vedremo la Rosa inurbarsi a cavallo, e la Matilde, novella Erminia, travestirsi da villanella e girar l'arcolajo in luogo d'affaticare gli abbandonati suoi tasti? — No, signorine; io non ho l'intenzione di soddisfarvi. Dal detto al fatto c'è un gran tratto. V'ho già detto sul principio di questo capitolo che erano corsi due mesi d'intervallo, e voi vi dareste a credere che codesti edifizj reggano tanto? Oibò! La Matilde s'era fatta una ragione; avea già considerato la differenza delle due condizioni, e benchè non potesse convenire della propria felicità, pure aveva smesso il singolar desiderio di farsi villana. Anzi, come vedrete fra poco, avea cambiati altri desiderj annessi a quel primo: avea rinunciato, in una parola, a quel sogno pastorale, accontentandosi di far quella gita. Ora però abbracciando la semplice villanella, le era rifluito nel cuore un resto di quel capriccio, e si ricordò del suo sogno, quanto la Rosa del proprio. Anzi, a dire il vero, quest'ultima, anima più schietta e più affettuosa, da quella insolita visita avea preso argomento a non diffidare interamente de' suoi progetti.

Le due fanciulle ebbero un lungo colloquio a quattr'occhi, mentre il conte, la contessa, il cugino e due staffieri sopraintendevano ad ammannire un pranzo campestre in compagnia della madre di Rosa. Non è bisogno ch'io dica che avevano trasportato in carrozza un'intera dispensa. Lascio lì questi preparativi gastronomici, e mi nascondo dietro una vite per assistere non veduto al dialogo delle due cervelline.

— Sai tu — diceva Matilde — sai tu ch'io invidio la tua condizione?

— Oh! che dice mai?... Contessina!

— Sì davvero. Se tu sapessi, cara sorella, quante noje nel nostro palazzo, quante cerimonie, quanti riguardi che opprimono l'anima e c'impediscono quasi di respirare. Qui tu sei felice, non ti manca nulla; se vuoi, lavori e ti pigli di bei quattrini: se non vuoi lavorare, corri pei campi senza cappello, e senza timore che si trovi a ridire sul fatto tuo. Parli con chi ti piace, fai all'amore con chi ti va a genio: insomma più ci penso, e più mi confermo che la vera felicità sta di casa fra i boschi e fra le capanne.

— Ma.... lei certo vuol scherzare, signorina....

— Come, io voglio scherzare?... Non ne sei tu persuasa?

— Io veramente non mi lagno del mio stato, ma nondimeno, veda, ci corre assai dal quadro che me ne fa.... Per esempio, ella dice ch'io busco di bei denari, e invece il lavoro ci manca assai di frequente, e si guadagna sempre meno di quel che bisogna. Ho fatto un conto che per guadagnare la somma di mille lire che mi sarebbe necessaria, dovrei lavorare dodici anni.... anche vegliando la metà della notte.

— Mille lire! Ma che vuoi tu fare di mille lire?

— Ma, non dico per me.... — e qui senza ch'io lo ripeta per filo, la Rosa mezzo arrossendo, mezzo interrompendosi, con certe sue originali parafrasi, raccontò alla ricca damigella l'affare del cambio, e come qualmente ella avrebbe voluto fare una grata sorpresa al povero vignajuolo.

Matilde si ricordò allora del dottore, ma non credette punto necessario di farne la confidenza alla Rosa. Questo episodio della sua storia ideale avea già dato luogo ad altri episodii. Onde tra per evitare quella coincidenza, tra per l'affezione che portava alla villanella, volle sapere lo stato preciso della faccenda. Il coscritto si trovava già al capoluogo aspettando il momento d'indossar l'uniforme, e cominciare i primi elementi del tirocinio militare.

— Signora — seguiva la Rosa — incoraggiata dalla sollecitudine che mostravale la damina, io ho fatto proprio un castello in aria contrario al suo. S'io fossi in lei, diceva fra me, in lei ch'è così ricca, che ha tanti aderenti, che può comandare a bacchetta, vorrei farmi sentire! E quando avessi trovati inutili gli altri mezzi per ottenerne l'esenzione, avrei fatto un fascio dei miei giojelli, e n'avrei impiegato l'importo a mettergli un cambio senza ch'ei sapesse da qual parte fosse venuta la libertà....

— Senza ch'ei lo sapesse! — pensò Matilde. — Ecco una bella idea, cara Rosa. Questo si chiama aver della generosità e della delicatezza....

— Oh! che dice mai! È naturale. Sarebbe lo stesso che volersi comprare l'amor suo a contanti!

— Benissimo, cara Rosa. Questo tuo sentimento val più di mille lire, vale più di tutte le gemme del mondo! — E l'ammirazione della damigella era vera e cordiale; ma pure non l'era ancora balenato in mente ch'ella poteva avverare quel sogno senza suo incomodo. Il conte avea bene speso oltre a tremila lire per comperarle il suo cavallo inglese. Il terzo di quella somma sarebbe bastato a redimere un uomo, e il pensiero di codesta azione generosa avrebbe fruttato a Matilde una serie di compiacenze molto più profonde che non facesse il possesso del suo cavallo. — Ma pure questa idea così facile non le poteva entrare in mente. La Rosa che formulando quel suo desiderio l'avea battezzato per sogno, guardava timidamente la damigella, la vedeva con gioja secreta infervorarsi; ma poi accorgendosi che non s'andava più là, abbassava gli occhi vergognosa o d'aver detto troppo o d'aver troppo sperato.

A questo punto del loro colloquio sopraggiunse una parte della comitiva che già cominciava ad inquietarsi dell'assenza di Matilde. Rosa si levò tutta rossa, e si recò presso alla madre per dar mano agli ultimi preparativi del pranzo. Matilde presa in mezzo dal cugino e dal padre la seguì lentamente senza più pensare al dialogo di poc'anzi.

Mezz'ora dopo sotto il porticato dinanzi alla povera casa colonica, sedettero a mensa i quattro ospiti illustri. I due staffieri in livrea stavano ritti dietro alle seggiole provvedendo al servizio del pranzo improvvisato alla meglio; Rosa e sua madre tutte rosse e trafelate per la insolita faccenda portavano fuori le vivande nella signorile majolica che non s'era mancato di trasportare dalla città.

La ricca damigella, seduta come una principessina sulla povera scranna (le scranne non s'era pensato a portarle), s'affisò una volta nel viso rubicondo e mesto ad un tempo della sua sorella di latte, ridotta allora all'umile ufficio di serva. Non vo' dire che si passasse nell'animo suo. Forse un sentimento d'orgoglio di trovarsi collocata a tanta distanza da quella a cui poco prima avea degnato parlare come a sua pari, forse anche un po' di gratitudine al vederla così affaccendata per farle piacere. Quello ch'io vi so dire, lettrici mie care, si è che in quel momento la contessina non avrebbe canterellato fra' denti: — S'io fossi villanella! — E pure quante circostanze più gravi, più dolorose, più umilianti di questa dovevano contrassegnare la vita di Rosa!

Certo in quel momento non era codesto che spargeva di tanta amarezza i lineamenti di Rosa. La povera fanciulla era stata crudelmente disingannata sul conto della nobile sua sorella. Nella sua poetica semplicità ella s'imaginava che Matilde all'intendere la storia di Marcello non avrebbe esitato un momento a dire: — Ecco un giojello del valore di mille lire: va' dal giojelliere e libera il tuo promesso dalla trista necessità che lo attende. — Vedremo però che la Rosa non s'era tanto ingannata sull'animo di Matilde, quanto sul potere che le attribuiva di disporre a suo talento dei propri giojelli. La colpa di Matilde era quella di non avere inteso di lancio il bene che poteva fare, e che la villanella osava sperare da lei. Ciò prova che, ornando il suo spirito, non s'era pensato a svolgere le nobili facoltà del suo cuore. È vero che al cuore basta sovente l'istinto; ma se l'educazione nostra è fatta appunto per ammorzare gl'istinti e per sostituirvi i calcoli dell'interesse e dell'egoismo?

Ma in che razza di riflessioni mi vado io perdendo? Ecco il pranzo al suo termine: ecco gli staffieri in moto per allestire i cavalli e la carrozza. Si disputa una mezz'ora se Matilde sarebbe ritornata a cavallo o nel cocchio. Ma il suo giovane maestro fece avvertire che la sera era fresca, che la bestia era tranquilla e fatta a bella posta per una damigella che voglia addestrarsi all'equitazione; onde fu risoluto che la carrozza seguirebbe l'ambio delle due cavalcature, per esser pronta a un bisogno.

Giunta l'ora della partenza, Matilde chiamò la Rosa per salutarla. Questa le si accostò; ma men lieta e men confidente del solito. Invece del cordiale abbracciamento che era solita ricambiare, le fece un umile inchino, e le cadde una lagrima. Matilde volle chiederle la cagione di tal cambiamento, ma il suo ginetto raspava per desiderio d'aver sul dorso sì nobile peso. Le due sorelle si separarono senza più, e chi sa con qual animo si rivedranno!

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