Читать книгу Il Quadriregio - Frezzi Federico - Страница 15

LIBRO PRIMO
CAPITOLO XIV

Оглавление

Come Cupido fece battaglia con Vulcano e come a prego di Venere Giove discese dal cielo e pose pace fra loro.

        Parve che quella voce andasse al cielo,

        ché venne con un tuon un gran baleno

        a lei sopra la faccia e 'l petto anelo.


        E nel dir «miserere» ed anche in meno

    5 l'aere si turbò e féssi fosco,

        il quale pria era chiaro e sereno.


        E ben mille ciclopi fuor d'un bosco

        io vidi uscir e fuor delli gran monti,

        alti, che tanto abeti io non conosco.


   10 Questi hanno sol un occhio in le lor fronti,

        fabbri di Iove e duri nelle braccia,

        crudel, nelle battaglie arditi e pronti.


        Poi tra le nubi con irata faccia

        e con tempesta apparve il gran Vulcano

   15 co' tuon, co' quali a' giganti minaccia.


        E tre saette avea nella sua mano;

        cosí discese giú con sí gran grido,

        ch'egli facea tremar tutto quel piano.


        – Dov'è – dicea, – dov'è 'l crudel Cupido?

   20 Dove se' ito, traditor bugiardo?

        Vieni, ché alla battaglia io ti disfido.


        Ahi, gran prodezze mostrarsi gagliardo

        contra una ninfa, a cu' il petto hai ferito

        sí crudelmente col tuo crudo dardo!


   25 Ma, se tu se' sí grande e sí ardito,

        perché non vieni, o nato d'adultèro,

        in campo alla battaglia, ov'io t'invito? —


        Cupido, in questo, superbo ed altèro

        vidi venir volando, e mai uccello

   30 corse alla preda sí ratto e leggero.


        Ed a Vulcan: – Ritorna a Mongibello,

        sciancato, storto e dal ciel messo in bando:

        ritorna alla fucina ed al martello.


        Il dardo orato mio, il qual io mando,

   35 tu proverai; e, se ti giunge addosso,

        tu griderai a me: – Mercé domando. —


        Poi scoccò 'l dardo, ed arebbel percosso,

        se non ch'e' si gittò alla supina:

        per questo il colpo andò da lui rimosso.


   40 Su ratto si levò e con ruina

        il folgore gittò, il qual la spada

        corrode e nulla fa alla vagina,


        ch'ello è fiamma sottile e fa che vada

        dentro alli pori e ciò che non ha poro,

   45 cosí disfá, come il sol la rugiada.


        Questo di piombo le saette e d'oro

        fuse nella faretra, e smunse e róse

        ciò che v'avea di metallin lavoro.


        Quando Cupido le polse penose

   50 volle trar fuor per trarre un'altra volta,

        nulla trovò, mentre sú la man pose.


        Onde ei, scornato e con furia molta:

        – Io ho l'altr'arme – disse – e 'l foco sacro:

        quest'arme a me da te mai non fia tolta. —


   55 Cosí dicendo, furibondo ed acro

        corse in Vulcano e sí gl'incese il mento,

        che 'l volto d'ogni barba li fe' macro.


        E, di questa vendetta non contento,

        col foco s'avventò nelli ciclopi;

   60 e, poi che 'l capo incese a piú di cento:


        – Tornate alle caverne come topi

        – diceva a lor, – tornate, o turba inerte,

        o falsi e vili e neri quanto etiòpi. —


        Vulcano, in questo, sú a braccia aperte,

   65 fuggendo, salse al regno di Iunone,

        ove il vapore in saette converte.


        Ma dietro a lui, leggier come un falcone,

        andò Cupido, e mai corse sí ratto

        dall'arco suo scoccato verrettone.


   70 E disse a lui: – Vulcan, non verrá fatto

        l'avviso tuo: farò che le saette

        far non potrai per me a questo tratto. —


        Cosí dicendo, tutte nubi umette

        'sciuccòe col foco e tanto consumolle,

   75 che 'ntorno al caldo l'umido non stette;


        ché, quando è consumato l'umor molle,

        accendersi non può 'l secco vapore,

        sí che Vulcan non fece quel ch'e' volle.


        Per questo cominciò con gran rumore

   80 a gridar forte, chiamando difese

        contra Cupido, stimol dell'amore.


        Allora Venus sue braccia distese

        al cielo e disse con parol divote

        al sommo Iove, tanto ch'e' la 'ntese:


   85 – Guarda il vecchio marito, che non puote

        piú difensarsi contro il mio figliuolo:

        vedi ch'e' l'ha percosso e che 'l percote.


        Tu sai che, quando il giganteo stuolo

        volle pigliar il cielo e discacciarte,

   90 piú che null'altro t'aiutò ei solo.


        E fece le saette con sua arte:

        con quelle, o Iove, tu gettasti a terra

        li gran giganti con le membra sparte. —


        In men che alcun non apre gli occhi o serra,

   95 vidi Iove discender giú 'n quel loco,

        ove Cupido a Vulcan facea guerra.


        – Cessa – disse al fanciullo – il sacro foco;

        Amor, se pensi quanto l'hai feruto,

        tu dirai ch'egli è troppo, e non è poco.


  100 E s'egli avesse a te ferir voluto,

        come potea, nella tua persona,

        nullo al suo colpo aver potevi aiuto. —


        A questa voce del signor che tona,

        cessò il foco Cupido e reverente

  105 disse al padrigno: – O padre, a me perdona. —


        Nulla cosa a sdegnarsi è piú fervente

        che 'l buon Amore, e nulla cosa ancora

        si placa e torna piú leggeramente.


        Posta la pace, si partí allora

  110 colle sue ninfe Iove e suoi satelli,

        de' quali il regno suo in ciel s'onora.


        Ma pria la vita a Taura, ed i capelli

        rendé a Vulcano, che parea un menno,

        ed a Cupido i dardi orati e snelli.


  115 Poiché i duo guerreggianti pace fenno,

        Vulcan disse all'Amor: – Perché sí rio

        ver' me se' stato e con sí poco senno?


        Se non che, quando a te saetta' io,

        trassi come a figliuol, non a figliastro:

  120 tu non scampavi mai dal colpo mio.


        E provato averesti ch'io so' il mastro

        di saettar e che non si può opporre

        a me mai scudo, unguento ovver impiastro.


        Io son che getto a terra le gran torre

  125 e li gran monti, e che soccorsi a Iove,

        quando i giganti vòlsonli 'l ciel tôrre.


        Della saetta mia, quando si move,

        i grandi effetti e le varie ferite,

        nulla è filosofia che le ritrove. —


  130 Rise Cupido alle parole udite

        e fe' come fa alcun, che par ch'assenta

        a quel che non è ver, per non far lite.


        E, come aquila fa, quando s'avventa

        alla sua preda rapace e feroce,

  135 ch'ali non batte, perché non si senta;


        cosí ciascuno ingiú venne veloce

        alla dea Venus. Benigna l'accolse

        e poi a Vulcan proferse questa voce:


        – Assai, marito mio, il cor mi dolse,

  140 quando tu fulminasti il dolce figlio

        e che guastasti le su' orate polse.


        Ma piú mi dolse che la barba e 'l ciglio

        egli arse a te e che con tanta asprezza

        nell'aer su ti pose a tal periglio.


  145 Or della doglia io sento gran dolcezza,

        da che tra voi è la concordia posta,

        la qual prego che duri con fermezza. —


        Vulcan non fece a lei altra risposta

        se non che con l'Amor volea la pace;

  150 ché la sua sposa, che gli stava a costa,


        piú 'l riscaldò che 'l foco, ov'egli giace,

        e, se non pel figliastro, facea forse

        cosa ch'è turpe e con beltá si tace.


        Per questo si partí e su ricorse

  155 al regno suo; e Taura sua partita

        fece una seco, onde gran duol mi morse.


        Però a Cupido: – Amore, ora m'aita:

        tu sai che 'l colpo insino a me pervenne,

        allor che Taura fu da te ferita. —


  160 Egli ridendo mosse le sue penne,

        e fuggí via l'Amor senza leanza

        ed alla piaga mia non mi sovvenne.


        Venus a me: – Assai piú bella 'manza,

        – disse – nel regno mio ti doneraggio. —

  165 Però, al conforto di tanta speranza,


la seguitai per l'aspero viaggio.


Il Quadriregio

Подняться наверх