Читать книгу Manfredo Palavicino, o, I Francesi e gli Sforzeschi: Storia Italiana - Giuseppe Rovani - Страница 10

CAPITOLO V.

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Intanto il Palavicino, uscito dal castello di Porta Giovia, messo a un piccolo trotto il cavallo, passato per quelle vie bistorte tagliate a sghembo, senza livello, a piani ineguali, che allora venivan tutte distinte dal comune appellativo del Baccio, casupole e catapecchie della più minuta e lurida accozzaglia di plebe, si trovò presto nella vetusta contrada dell'Orso-Olmetto. Qui gli giunse all'orecchio un rumore, un frastuono insolito, e traendo dietro a quello, dato di sprone al cavallo e pervenuto al canto estremo di quella contrada, vide gran moltitudine di gente insaccarsi nella vicina di Brera del Guercio. Assai sollecito di sapere quel che fosse, arrestò un momento il cavallo, e ad uno che gli veniva accanto pedestre domandò la causa di quell'insolito movimento.

—Sono i tôffi e i caramogi di Porta Tosa, gli rispose il buon uomo, usciti dalle puzzolenti lor tane, a trarsi dietro tutta la folla degli altri birboni, e Dio sa che sconquasso saran per fare stanotte.

—È un pezzo che sono in volta costoro?

—Sarà un'ora adesso. Dal momento che si seppe che i soldati svizzeri eran stati chiusi in castello per non uscire che all'alba di domani, e i cento cavalli del Coreggio non potevano più staccarsi dalla greppia delle stalle ducali, subito si videro delle novità. E non par vero non siasi pensato a provvedere a tanto disordine. Figuratevi che in tutta Milano non ci sarebbero dieci labarde, a pagarle cento ducati per ciascuna… Sentite, sentite che or va in rovina tutto il rione di Brera… sentite…

S'udì in quella di fatto un gran rumore, un tintinnio, un tempellamento vasto e prolungato come di vetriere che si lasciassero cadere o si gettassero a fracassarsi sulle lastre delle contrade.

—Scommetto, continuava a dire il buon uomo mentre tendeva l'orecchio ad ascoltar meglio; scommetto che è il palazzo del marchese Birago che va in ruina!… Domando io, cosa dirà quel signore quando, tornando dalla campagna, vedrà le sue gallerie ruinate così!… E a pensare che gli costarono ventimila gigliati!… tutte lastre di vetro fatte venire appositamente dalle fabbriche di Murano… Sentite! non è ancora finito; l'hanno co' palazzi de' gran signori, quest'oggi, che sanno essere usciti di città… E quel birbone del Tita, vetrajo, che non par vero non siasi ancora ammansato dopo tanti e tanti tratti di corda, s'è fatto lui capitano de' tôffi e dei ladri, ed ha risoluto di far la guerra ai vetri di Milano. Domani i cavalli non potranno andar in volta per la città, e ai poveri scalzi sanguineranno i piedi… Basta; si può ancora sperare, caro signore, e presto si rimetterà il governo francese, e torneranno i guasconi a tener soggetta la canaglia…

A tali parole, il Palavicino, senz'ascoltar altro, die' di sprone al cavallo lasciando in mezzo alla via, colla bocca ancora aperta, il buon messere che avrebbe voluto dir molte altre cose, e prese pel lungo viottolaccio del monastero di s. Giuseppe, viottolaccio quasi tutto attraversato da cavalcavie, e rallegrato da una quantità straordinaria di agiamenti che inallora non erano ultima parte dell'esterno ornato delle case.

Giunto sulla piazzetta di Santa Maria della Scala, il brulicame della gente era anche qui ben fitto, e veniva tanto quanto rischiarato da certi staggi o tizzoni ardenti ed agitati all'aria da molti di coloro. Su quella piazzetta per altro non v'era ciò che propriamente si direbbe tumulto ribellionario, v'era soltanto un'ilarità baccante, uno straordinario buon umore. Ciò dipendeva forse dalle molte bettole che in quel sito mostravano trionfalmente il sempre verde alloro e che riversavano sulla via una quantità di persone molto bene avvinazzate e fervide di una scomposta vitalità che, per una cagione insolita, difficilmente in quella sera poteva determinarsi all'ira ed alle risse come suol quasi sempre avvenire.

Ma qui è necessario spendere qualche parola intorno a quello strano commovimento.

Ogniqualvolta c'incontriamo, leggendo le storie, in qualche tumulto popolare, per poco che si voglia indagarne le cause, le troviam sempre gravissime, e d'altra parte vediamo in quelle occasioni essere costante il fenomeno di una moltitudine invasa da un furore violento. Bocche che gridan pane, e campi che non danno raccolto, scarsità insolita di danari e balzelli a furia, iniquità che abbian fatto traboccar la bilancia, violenze incomportabili sono per lo più le solite punture e battiture per cui la belva immane della moltitudine si fa lecito di mostrare i denti. L'altro fenomeno si è, che contro a questa belva infuriata, formidabile, prepotente, c'è quasi sempre una sufficiente forza armata che serve a mantenere l'equilibrio e a non permettere che il pubblico, così pieno di pretensioni, soddisfi ad ogni suo capriccio. Ma di tutte queste consuete circostanze questa volta non ce ne appare una sola, e invece ci si offre un fatto straordinario e tale che forse non ne fu mai un altro simile nè prima, nè dopo.

Una moltitudine nel complesso ancor bene satollata e ben pasciuta, poco di denaro e poco di ricchezze se vuolsi, ma tali però ancora che non potevano promuovere eccessivi lamenti; qualcosa in ombra, in barlume bensì di sovvertimento, di rovina, di confusione ma, di cui le intelligenze volgari non potevano avere nessun sentore; epperò nel complesso di tutta quella vasta famiglia, quel che si direbbe tranquillità dell'animo. Con tutto ciò il maggior numero de' membri di quella esce d'improvviso dalla consueta operosa tranquillità, dalle abitudini quotidiane, si danno la voce, alzano qualche grido eccessivamente acuto, e si accingono a fare ciò che si direbbe una sommossa.

Ma in quella sera del 14 settembre si potè far sul vero uno studio pratico quale infinite volte è stato fatto per teoria e per congettura. Si potè determinare il valore intrinseco e preciso delle leggi, dei capitoli d'uno statuto, d'un decreto, quando per caso non vi sia la forza armata che lor venga in aiuto. E si ebbe d'altra parte, in un'angusta scena, lo spettacolo della società che tenta adagiarsi e rimettersi nella ragione di vita semplice e larga degli uomini antidiluviani.

Alle ventiquattro di quel giorno, come già sappiamo, tutti i soldati, tutte le guardie che si trovavano in Milano furon sottratti improvvisamente allo sguardo de' cittadini. Le casacche screziate delle labarde svizzere che si vedevano a tutte l'ore del dì sulle porte del palazzo ducale, del senato, del collegio dei dottori erano scomparse. I larghi braconi della numerosa guardia del bargello che s'affollavano sulla porta del Capitano di Giustizia, delle prigioni di porta Romana, e di quelle della Malastalla erano scomparsi; di tutta quella razza d'armigeri non avvezzi ad uscir delle mura, s'era voluto fare un corpo di riserva, e cogli Svizzeri erano anch'essi stati chiusi in castello per non uscir più che al campo. Perciò la legge, questa formidabil vecchia, che nella sua decrepitezza è sempre attiva, inflessibile, antiveggente, sempre pronta a stendere l'artiglio e ad ingoiare colpevoli, fece in quell'occasione un'assai meschina figura; voleva ancor gridare bensì dalle aule del palazzo di giustizia o dalle cantonate delle contrade, ove stavano ancora affisse le tabelle, i decreti, le comminatorie e simili; ma eran voci che andavano perdute tramezzo al vasto frastuono, mentre ciascheduno intanto pensava cogliere l'opportunità e fare il suo comodo. Si presentò adunque il caso d'una moltitudine per se stessa disposta alla tranquillità, e dell'assenza assoluta della forza armata; il caso d'un fiume placido, non ingrossato da nessuna straordinaria alluvione, cui improvvisamente sian tolti tutti gli argini, tutte le dighe e tutte le conche; e siccome un tal fiume uscirebbe ugualmente da quel letto dove l'arte lo ha costretto per forza, e volgerebbe di tratto la sua corrente per dove da antichissimo era naturalmente inchinato, così pure doveva comportarsi una moltitudine, abbandonata a sè stessa, improvvisamente, senza i freni dei soliti tutori; poche similitudini vengono così a cappello come questa; del resto la plebe milanese, trovatasi improvvisamente in tanta libertà, s'accorse di molte cose alle quali forse non aveva mai pensato. Tutti coloro che si stavano stipati, addossati l'un l'altro, epperò molto incommodi e addolorati del pigiamento assiduo, sull'ultimo e più vasto gradino della gran scala sociale, alzarono un tratto uno sguardo invidiosissimo verso coloro che stavano ai primi posti. E l'effetto di quell'invidia fu così pronto e potente, che si propagò di pensiero in pensiero quasi una spontanea inspirazione di mettere in pratica, quel che oggi si direbbe, l'assurda teoria de' comunisti. Tutta la lurida accozzaglia de' caramogi, de' bordellieri, de' ladri, che di solito se ne stavano stipati ne' viottoli, ne' crocicchi, all'ombra dei cavalcavia, addossati a venti, a trenta nelle putride e puzzolenti lor tane, o sparsi nelle bettolaccie affumicate di porta Tosa a trincar caspio, sbucarono improvvisamente all'aria come una moltitudine di topacci che, al cessare di un rumore, esca tutta lercia dal fetido pattume, dispostissimi a tentare in grande quelle minute guerricciuole a cui s'erano avvezzi allorchè quatti quatti al canto di qualche via remota aspettavano la solitaria pedata dell'improvvido borghese.

Nè solo quest'ultima feccia del popolaccio aveva presa una simile risoluzione, ma anche buona parte di coloro che, sebbene non agiati, avevano però i mezzi di trarre abbastanza di guadagno dalle proprie fatiche; e coloro segnatamente fra questa classe d'uomini, che erano dotati di gioventù, d'ardimento e di sfrontatezza.

Quantunque la causa prima e più efficace che ha determinata l'infima turba a sovverchiare la più distinta classe, sia quella che già abbiam detto, pure alcune altre circostanze avevano concorso a dare l'avviamento a tante volontà.

Ne' dodici anni che Milano fu sotto il dominio di Luigi XII, i nobili e i più facoltosi Milanesi erano stati assai accarezzati dai governatori francesi, e però piegando alle lusinghe, s'erano intrinsecati assai strettamente cogli uomini d'armi, coi baroni e cavalieri che appartenevano a' più cospicui casati di Francia. La qual cosa aveva fatto sì che tutte le violenze, i soprusi e i carichi eran venuti a cadere sulle teste della plebe minuta, la quale più d'una volta aveva tentato bensì sfogare il suo malumore, ma era stata costretta, in ogni occasione di tentativo, rodersi in segreto e ritirarsi per certe improvvise scorrerie di cavalleggieri francesi che, uscendo a tutto galoppo dal castello, attraversavano le più popolose contrade della città. Venuto però al ducato il giovine Massimiliano, l'aspetto delle cose s'era al tutto mutato. Il giovane duca, o meglio il Morene, il quale operava di queto e sott'acqua, sapendo che il partito de' nobili gli era contrario, si diede a proteggere la plebe e far gravitare sui patrizii tutti i pesi dello Stato. Un mese prima del giorno in cui ci troviamo, la plebe s'era posta in armi per respingere alcuni corpi di presidio che il maresciallo Trivulzio aveva tentato introdurre in città; Girolamo Morone aveva pensato ajutare quel popolare sommovimento, e tanto fece, che il Trivulzio aveva dovuto ritrarsi dalla propria impresa. In quell'occasione si promisero grandissime cose in compenso alla plebe, e si cacciarono dalle magistrature quasi tutti coloro che le erano in odio. Non è a dire quel che allora fece la plebe protetta in tal modo; alcuni di que' magistrati furon presi a sassi e peggio, e molti dei loro palazzi furono posti a ruba, ed a sacco. Dopo qualche tempo il duca aveva fatto proclamare che egli voleva affidare le chiavi della città al suo popolo, e che in avvenire i cittadini sarebbero stati immuni da qualunque aggravio; il qual editto produsse che i nobili più e più s'alienarono dallo Sforza e più gli si affezionò la plebe. Passato qualche tempo, tutto si venne racquetando; ma in questo giorno il buon popolo ancora imbaldanzito e seguendo la natura de' fanciulli viziati, si ricordò del giuoco goduto alcun mese prima, dal quale aveva raccolto tanto diletto, non disgiunto da molto utile, e di quello spettacolo, non è da maravigliarsi, se si volle la replica a richiesta generale. Quella massa oscura inoltre che s'addensa nelle officine della città, ignorantissima, ma acuta, priva d'ingegno, ma dotata d'istinto, aveva come sentito l'odore de' Guasconi, de' Borgognoni, dei Parigini, e aveva presentito che coloro fra pochi dì avrebber fatto da padroni nella città e rinnovate le amicizie antiche coi nobili e coi facoltosi, pensarono adunque tentar qualche cosa in quella stretta di tempo, far guarnaccia pei dì della miseria, far pagare in anticipazione a' ricchi il buon tempo che stavano per godere, imporre loro una specie di tassa di buon ingresso. Ecco tutto.

Non essendo però istigati da un appetito straordinario, e i rancori, dopo quelli che avevano sfogati tanto tempo prima, essendo di presente leggerissimi, non avrebber fatto il minimo tentativo, senza l'insolita circostanza di una libertà così completa. E quelle soverchierie e violenze a cui s'accinsero e condussero a termine in quella notte furon tentate in via di giuoco, di baccanale, di festa e d'orgia popolare e nulla più.

Un uomo d'immaginazione, che sapesse fare gli opportuni cambiamenti, potrebbe figurarsi assai netto innanzi agli occhi lo spettacolo della città di Milano in quella notte, osservando una scolaresca numerosa dalla quale per caso siasi assentato il precettore severo. I più svogliati, i più accattabrighe, i più maneschi, mandando larghi respiri escono a furia dai banchi, cui li costringe una regola insoffribile, e si sparpagliano a dar qualche bussa, così per celia, ai condiscepoli che sono l'occhio dritto del precettore assente, di modo che quando al ritorno del maestro tutto ritorna in quiete, è frequente il caso che i privilegiati scolari abbiano a tastarsi le ammaccature e le membra indolenzite.

Le turbe si sbandarono dunque così a caso per la città, ed essendo numerosa la quantità de' signori che in quel dì, a fuggire la tentazione d'uscire al campo, erano invece usciti in villa, pensarono di entrare in taluna delle loro case, a far quello che fanno i soldati quando mettono il piede in una città assediata. A quelle tuttora abitate dai loro padroni, potendosi dare il caso che si volesse opporre una fronte di servi e di famigli assai bene armata, e non volendosi rendere fastidioso e incomodo quel tripudio di festa, s'accontentavano di recar qualche sfregio leggiero, e tutt'al più eran sassate e torsi nei vetri.

Così in quel breve spazio di tempo ch'era corso dalle ventiquattro alle due di notte, molti avevan già dato fine alle loro fazioni, e carichi di roba e di trofei s'erano dispersi a gruppi nelle numerose bettole della città, e ne' crocicchi e nelle piazze volentieri si fermavano a ridere, a schiamazzare, a far violenze facete.

Così, appena il cavallo del Palavicino, mostrandosi al canto di S. Giuseppe, fece suonare la zampa sul lastrico della piazza di Santa Maria della Scala, e que' mille beoni, al lume de' tanti lampioni che si agitavano per l'aria ebber potuto accorgersi che la cappa del cavaliere era signorile, scoppiò un urlo così ineducato che davvero non parve promettere nulla di buono.

—Giù! giù! s'udì poi da tutte le parti; giù da cavallo! Abbasso, abbasso! Non più lettighe, non più carrozze, non più cavalli! Giù, giù, tutti in volta a piedi stanotte! Prendiamolo a sassate, se tosto non obbedisce, a sassate, a sassate!

Il Palavicino accortosi allora che aveva scelta malissimo la sua strada, nè più essendo in tempo di scansare il cavallo, procurò alzare la sua voce fra le migliaia che gridavano, per vedere se, dandosi a conoscere, gli riuscisse d'ammansare quell'ira. Ma la sua voce non era abbastanza forte, nè acuta per farsi udire in quel generale frastuono. E tutti coloro che assolutamente avevan fermo avesse il cavaliere a discendere e a mettersi a pari con loro, vedendo che non pareva niente disposto a far quello ch'essi volevano, già si facevano intorno a lui per passare dalle minacce agli atti; ma la buona fortuna non lo permise. Intanto che la folla preparavasi a soddisfare a' suoi capricci, dalla bettola ch'era sul canto a S. Giovanni, era uscito un laido omaccio, colla sua caraffa colma di vino nella mano destra, il quale omaccio, sebben fosse ubbriaco in quarto grado, conobbe la cappa signorile del Palavicino… e allora, movendosi così barcolloni, sempre tenendo nella mano la tazza che versava vino da tutte le parti, s'accostò al cavallo del Palavicino, e, stato in prima a guardarlo con due occhi stravolti, gli alzò poi la caraffa sino al petto e:

—Tè! gridò, bevi anche tu, il mio caro marchese, bevi con me, che siamo amici vecchi!… e facendo una pausa svenevole e torcendo gli occhi sempre più:

—È però anche vero che tuo padre è un nottolone di mal augurio, e fa sempre l'occhio del porcel morto quando ci guarda a noi…. Ma tu lo hai sfalsato, il mio caro Palavicino; ma tu sei amico della povera gente, e va benone…. La c'è però la bazza, ve', stanotte, la c'è e ci si sguazza dentro come scarabei al sole. Peccato che la voglia durar poco, il mio caro marchese, poco ti dico, poco…. Ma perchè non bevi?… bevi, il mio marchese, che la c'è la bazza.

E sì dicendo voleva di tutti i conti che il Palavicino si prendesse la caraffa.

Intanto la moltitudine, all'udire che quel cavaliere era il marchese Palavicino, tosto cangiò gli urli in evviva. Il nobil giovane era conosciutissimo di nome in tutta Milano, e tra per quello che aveva sofferto dal padre, tra per le sue larghezze straordinarie nello spendere e nel beneficare, erasi guadagnato la simpatia del popolo, al quale era diventato ancor più accetto, dopo l'assassinio tentato contro lui la sera prima.

Così, cominciatosi a gridare—Viva il Palavicino—da quel gruppo d'uomini che gli si era serrato intorno, poco a poco il suo nome passò per tutte le bocche che gridavano in piazza, e, prese un così esteso giro, che lo si udì gridato in via Santa Margherita, e giù giù sino al Portone.

Ma tanto l'odio eccessivo del popolo, come l'amore eccessivo può riuscire incomodo, e se alcuni momenti prima, il giovane Palavicino, aveva ragionevolmente provato qualche timore, adesso si sentì sopraffatto da una noja mortale. La folla gli si stipava sempre più intorno, e chi gli diceva una cosa, chi l'altra, chi gli profferiva la cena, chi il letto, chi la vita; quel bevone principalmente che gli aveva fatto il piacere di stornare da lui l'ira popolare, si ricattò poscia tormentandolo incessantemente colla sua caraffa in pugno, ed essendosi intestato che propriamente dovesse bere, già al rifiuto stava per prorompere in ira; e fu ventura che, sopraffatto da un capogiro, cadde a un tratto come un corpo morto riverso su chi stavagli presso, e tosto, per la folla che rinnovavasi continuamente, spari via come un tronco di quercia trasportato da una fiumana.

Gli evviva intanto diluviavano, e il Palavicino, tutto in trasudore, disperava oramai di più rompere la folla, e con quel maggior fervore che gli era possibile, supplicava tutti coloro che deliravan per lui a dargli il passo. Soltanto, dopo aver trascorso una mezz'ora tra le noje insopportabili di questo banco di arene, cominciò un momento a sferrarsene, ed ebbe finalmente la consolazione di poter entrare nella contrada delle Case Rotte e di mettere il cavallo ad un piccolo passo.

Manfredo Palavicino, o, I Francesi e gli Sforzeschi: Storia Italiana

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