Читать книгу Manfredo Palavicino, o, I Francesi e gli Sforzeschi: Storia Italiana - Giuseppe Rovani - Страница 8

CAPITOLO III.

Оглавление

Indice

—Io ti racconterò, prese a dire il Palavicino allora, quanto il Morone ancor non sa; perchè, fuori di ciò ch'era indispensabile per metterlo sulla via di far qualche scoperta, a lui ho taciuto il meglio, ovvero sia il peggio della storia mia… Son cose strane, cose intralciate, alle quali per verità io non saprei dar fede se non fossero accadute a me stesso; ma sentirai… Tu sai bene, e tante volte ne ho parlato, com'io, scacciato dalla mia casa e messo, come suol dirsi, in sulla strada da quell'uomo inesorabile di mio padre, mi trovassi a un tratto tutto solo, senza mezzi e senza speranze, che mio padre troppo bene lo conoscevo, e dalla povera mia madre, per quanto si struggesse di angoscia e d'amore per me, non poteva sperar soccorsi, tanto era severamente guardata. E così in quella stretta, per quanto la disperazione m'intorbidasse la mente e il pensiero di quella donna soave di mia madre, di cui gli atti e le lagrime e le ultime parole mi risuonavano troppo bene nell'animo, non mi lasciassero aver pace un momento, pur presi un partito, ed era l'unico per verità ch'io potessi prendere allora. Sapevasi da tutti come Giulio II, unitosi improvvisamente, e contro l'aspettazione universale, ai Veneziani ed agli Spagnuoli, avesse pensato mover le armi contro Francia; come ardesse un furioso incendio nel mezzo dell'Italia, e si fosse al punto oramai che tutto avevasi a decidere con una risolutiva giornata. Io, che in quei momenti avrei desiderato, e per verità ne andavo in cerca, che qualcuno m'assalisse così a man salva e mi finisse una volta, colà, dissi, fra quegli orrori della guerra troverò molto bene il fatto mio. Ancora mi rimane a tentar qualcosa pel mio paese, e s'egli è vero che talvolta una penna fa traboccar la bilancia, chi sa ch'io non sia quel tale che la faccia appunto traboccare al danno di questi Francesi; e in tal pensiero confortandomi tutto, mi recai dal conte Mandello, l'unico uomo in tutta Milano al quale potessi domandar qualche cosa senza timore che mi ributtasse, o ch'io ne dovessi poi arrossire per rinfacciamenti. Recatomi da lui dunque, e dettogli il miserabile fatto mio, egli mi offerì ogni sorta d'aiuti, tanto è largo il cuore di quell'uomo, ma saputi i miei propositi, mi diede dell'oro e un cavallo. E mi ricordo benissimo che nel darmi la ben andata, mi baciò in fronte tutto commosso e quasi in lagrime, lui che non si sconcerebbe se crollasse il mondo, ed è quel capo strano che tutti dicono. Con quell'ajuto me ne uscii così da Milano, e un po' a passo, un po' a trotto, fra pochi dì mi trovai nella Marca, proprio nel cuore della guerra. Era una faccenda, una confusione, un tramestio indicibile. Un passare e ripassar continuo di soldati ora alla spicciolata, ora a truppe. Uno spavento di quei poveri abitanti, che non aveva tregua un istante, e un fuggire, un ritornare, un disordine insomma che a tutt'altri, Dio sa, che noia avrebbe recato, fuorchè a me che aveva bisogno d'alcuna cosa ben forte che mi sbalordisse e più non potessi ricordarmi delle mie miserie. In quel viaggio incontratomi con un tal Tullio Orlando di Macerata, assai ricco gentiluomo, col quale allo studio di Padova aveva vissuto assai intrinsecamente.—Io vado a Rimini, mi disse, se tu vieni con me, vedrai che il tempo che vi passeremo sarà il men male buttato della nostra vita.—Ed io vengo, gli risposi, ben contento d'aver trovata compagnia, e così senz'altri incontri, entrammo in Rimini la seconda festa di Pasqua nel 12. Ma appena misi il piede in quella città, m'accorsi, come si suol dire, di aver dato in un trabocchetto. Era tutto pieno di soldati e di baroni francesi, e per ciascun uscio ve ne saran stati un dieci buonamente.

Pensa or tu, com'io potessi star bene colà. Dovetti per altro stupire, vedendo come que' soldati francesi, contro il loro solito, si comportassero tanto gentilmente con lutti gli abitanti, e se mai per parte loro intervenisse alcun disordine, le punizioni fossero esorbitanti. D'un fatto così straordinario, ragionando appunto con quel mio amico Orlando egli mi fece capace della vera cagione.

Il signore di Lautrec, o il conte Odetto di Foix, come altri il chiamavano, che era già marasciallo de' Francesi, e il braccio più forte e più terribile dell'esercito, s'era fieramente invaghito della duchessa Elena di Pitigliano, signora di Rimini, ed ella di lui, come tenevasi da tutti. Egli era già da qualche tempo che si eran conosciuti, ma in quell'anno del 12, salito il Lautrec a molta altezza, aveva chiesto la mano di lei, e quand'io arrivai a Rimini si stava appunto apprestando ogni cosa pel dì delle nozze, e gli apparecchi erano regali. Si diceva tra il popolo, che l'amore di quell'uomo per la duchessa molto somigliava a furente pazzia, e se la signora gli avesse comandato facesse passare a fil di spada tutto il suo esercito, volentieri lo avrebbe fatto.

Quella donna, quantunque non avesse più di ventun anni, era già vedova del duca di Pitigliano, ed era gran tempo che parlavasi dei fatti suol per tutta Romagna, per Roma segnatamente, dov'ella era nata. In qual modo, mortole il marito, a lei fosse data investitura della città di Rimini, tolta già da molti anni ai Malatesta e passata d'uno in altro padrone, alla maggior parte non era ben noto. V'era bensì chi ne sapeva qualcosa, ma ne facevano grandissimo mistero, e quando mai se ne domandasse, il discorso lasciavasi cadere in terra. Capii insomma, che quella storia doveva bruciar la lingua a chi la raccontasse, e perciò fui costretto a rimanermi co' miei desiderj, e adesso non ne so più d'allora. Di costei io ne avevo già udito parlare qualche mese prima a Bologna tra que' signori, ma con parole di profondissimo disprezzo, e d'altro non mi avevano invogliato che di veder la sua grande bellezza e di sentirla cantare, chè tutti dicevano ch'era una Sirena, e ne aveva difatto tutto il costume. A Rimini per altro, e segnatamente fra il popolo minuto, se ne diceva un gran bene, non già della bellezza e dell'altre sue virtù che nessuno metteva in dubbio, ma della carità e delle sue larghezze nel beneficare, e tutti ne parevano innamorati, e fra 'l popolo era chiamata la Semiramide. Per questi vari giudizj, e per sentir sempre a magnificare quella sua straordinaria bellezza, venni in grandissima volontà di vederla, e mi raccomandai per questo all'Orlando, che era assai ben conosciuto dalla duchessa medesima. Una sera che c'eran grandissime luminarie per la città, e nel palazzo della signora ci dovevan esser musica e danze, l'Orlando mi dice:—Se vuoi venire il momento è buono,—ed io quantunque sapessi che mi sarei trovato tra quella maledetta peste di Francesi, che ammorbavan l'aria di tutta Rimini, pure molto volentieri mi lasciai condurre.

Aspettato colà molto tempo tra una densa moltitudine che già cominciava a darmi noia, vidi entrar finalmente la duchessa nella maggior sala. Circondata dalle gentildonne, dalle ancelle, dai paggi che formavano il suo seguito, corteggiata da un numero infinito di quei baroni francesi, tutta coperta com'era d'ori e gemme, a me fece in sul primo l'effetto d'un'apparizione straordinaria. Allora avendo tentato avvicinarmi a lei più che fosse possibile per osservarla meglio, mi parve che quel suo viso non mi riuscisse nuovo del tutto, e ch'io altra volta avessi veduto talun'altra chele somigliasse. E affaticandomi così a cercar nella memoria chi mai fosse quella, mi sovvenne allora d'aver veduto alcuni di prima il ritratto della Cenci. Ed era appunto l'immagine di questa sciagurata ed infelice fanciulla la cui perfidia e la cui bellezza m'aveva fatta tanta impressione, che non mi faceva parer più nuovo il viso della duchessa Elena; e se quel ritratto fosse stato eseguito espressamente per lei, non si sarebbe potuto far cosa più al naturale.

Questa strana somiglianza, e le misteriose e tronche parole che mi vennero udite sul conto di colei produssero in me, così di volo, un'impressione di raccapriccio e d'orrore. E allora, facendo certi strani sospetti, mi son messo ad osservarla con più d'attenzione ancora, tentando quasi di raccapezzar qualche notizia, leggendole ne' tratti del volto, che come tu sai, parlan chiaro talvolta. E forse, per la triste impressione che me n'ero fatta, sotto a quelle forme di una grazia divina mi parve che si nascondesse tal cosa che guai se fosse apparsa di fuori. Quel suo riso che per lo più sembrava nuotasse come in una giocondità festiva, tu lo vedevi di tratto subire certe trasformazioni repentine e sfuggevolissime che te la facevano parere tutt'altra donna. Alcun che di mesto e di tetro. Che so io? Qualche cosa di questo. Del rimanente, può darsi benissimo che io sia le mille miglia lontano dal vero. Ma è però tanta la curiosità in cui sono venuto, che la prima volta ch'io mi recherò a Roma, farò tali indagini che ne verrò a capo senz'altro.

Tornando adesso a quella sera, per quanto io non potessi vincere quei sospetti, pure le benedizioni del popolo, e quel fatto vero e presente e continuo della pietà sua e delle sue beneficenze molto poterono sull'animo mio, e se non altro mi sentii tentato a scusarla. Fu assai per poco però, e quella mia buona disposizione dileguò in un momento. E quando entrò nelle sale il signore di Lautrec, ch'io vedeva allora per la prima volta, mostrando manifestamente nel volto e in tutta la persona i segni d'un atroce orgoglio che si sarebbe conosciuto un miglio lontano, si accostò a lei, ed io pensavo ch'ell'era contenta di sposarlo, che lo amava ardentemente (il maresciallo, quantunque a me fosse odiosissimo, pure per le forme del corpo e per una certa bellezza virile, allora poteva benissimo piacere ad una donna); considerando che, quantunque dovesse vivere in gran timore del papa, dal quale dipendeva, ella per amore di lui, giovava manifestamente la causa dei Francesi soccorrendoli delle numerose bande ch'erano al suo soldo, mi sentii tutto rimescolare di sdegno, e: va, dissi, tu non puoi essere che una pessima donna. E senza più, subito uscii di quelle sale e non ne volli saper altro.

Avvicinavasi intanto il tempo che tra i Francesi e quei della lega sarebbesi venuto ad una giornata campale, e tra pel numero poderoso delle truppe, che d'ambidue le parti mettevansi in ordine, tra che la somma intera delle cose pareva dipendere da quella giornata, tutto dava a credere che dovesse riuscire assai terribile. E subito allora mi maneggiai per entrare in una colonna di cavalleggeri italiani al soldo della Spagna, e col grosso dell'esercito presto ci accostammo a Ravenna. Il dì 12 d'aprile s'impegnò la zuffa generale, ed io potei vedere papa Leone, il quale allora non era che cardinale, in sola stola e sottana, ciò che prima non s'era mai visto, governare molto bene le mosse, e ti so dire che in campo io non ho veduta faccia d'uomo più imperturbabile della sua e puoi ben credere che intorno al suo capo fischiavano le palle degli archibusi e la scaglia delle artiglierie francesi. Ma se dalla nostra parte c'era papa Leone, dall'altra c'era il cardinal Sanseverino che faceva altrettanto. Or io non ti descriverò già quella battaglia, che il Sacramoro te ne deve aver parlato abbastanza, solo ti dirò che fu terribile ed ostinata qual s'era preveduto, e fu la prima volta quella ch'io potessi dire di trovarmi in guerra veramente.

Verso le 22 ore, come fu manifesto per chi era la fortuna, si cominciò a vedere un disordine indicibile nel campo nostro, e gli orrori di quella giornata furon tali, che mi rimarranno sempre nella memoria. Allora, quando il sole già si ritraeva sulla cresta dell'Appennino, noi pochi cavalleggieri italiani e qualchedun altro degli sbrancati ci raccogliemmo insieme a tentare qualch'altro colpo, quantunque senza speranze; ma la guerra è come un giuoco, che quanto è più forte la perdita, tanto più ci si ostina, e si continua finchè ci è vita. E visto come i cavalli di Gastone s'eran dati ad inseguire un grosso drappello di Spagnoli, ci mettemmo a quella volta, e si arrivò allora appunto che una palla d'archibuso fracassò la testa di Gastone di Foix, il gran capitano. S'impegnò qui una zuffa orribile tra i nostri, che volevano approfittare di quel colpo inaspettato, e i Francesi che, messi in furore da quella sventura, parevan belve anzichè uomini. E a me, che in tutta la giornata non aveva quasi tocca ferita, cominciò qui a grondarmi il sangue da tutte le parti, nè perciò mi ristava, ed ebbi campo di vedere il Lautrec medesimo che in quella stretta mandava urli come un invasato, e colla sinistra tenendo stretto a sè il corpo morto del giovane Gastone, rotava colla destra un suo spadone a due mani. Il Lautrec, essendo cugino di Gastone, grandemente lo amava, e parlavasi appunto nell'esercito di quel suo straordinario amore per quel giovane. Ma era suo costume questo che, tanto nell'amore quanto nell'odio, quell'uomo trascendesse sempre i limiti. Quando gli fui addosso col cavallo e coll'azza, quantunque facessero già i crepuscoli, potei benissimo vedere la sua faccia che era coperta di ferite che faceva orrore, e mi ricordo che mi rivolse alcune furibonde parole che non ho potuto comprendere. Ma in quella perduta la spada, lui cadde in ginocchio oppresso dal numero, e a me, quando tutto già pareva finito, pel molto sangue che faceva sdrucciolevole il terreno, cadde pure di sotto il cavallo, intanto che due roncolate mi passarono la spalla; caduto mi trovai viso a viso col Lautrec che, sebbene non potesse più muoversi, continuava tuttavia a guardarmi inferocito e destava in me un raccapriccio indicibile, quando finalmente un colpo di spingarda gli fracassò la testa e cadde, io credetti, morto, col capo indietro. Non movevasi più nessuno d'intorno a me, imbruniva del tutto, ed io, soffocato dal cavallo che era morto; (era ancor quello del conte Mandello), e per quelle roncolate che mi davano un acuto spasimo, e pel molto sangue perduto non poteva più rialzarmi. Sorgeva la luna in quel punto che, tentato un ultimo sforzo per disbrigarmi dal cavallo e dal Lautrec, mi vennero invece i bagliori agli occhi, e so ch'io dissi fra me stesso:—Questa è ultima mia ora;—del resto non so altro. Il dì dopo, quando fui sveglio, due soldati francesi mi portavano a mano e mi deposero sur un carro di trasporto. Per non portar segno alcuno, e forse per avermi trovato insieme al Lautrec, mi credettero uno di loro. Medicato così e fasciato alla meglio, ho sentito uno di quei chirurghi a dire in francese, che io già intendevo poco: questo si può benissimo trasportare a Rimini. Era tanto il numero dei feriti, che si dovettero alloggiare così come si poteva in più piazze. I peggio aggravati si raccoglievano in Ravenna, e qui di fatto venne condotto il Lautrec, della cui vita al tutto si disperava. Gli altri in quelle altre cittadelle del littorale. A me poi toccò la più lontana, che era Rimini, perchè quantunque così malconcio fui tenuto per uno dei più sani.

Convien dire che tutti coloro cui toccò la sorte di alloggiar in Rimini furono i meglio capitati. La duchessa Elena ci fece alloggiar tutti in castello, e ogni sorte di cure ci prodigò quella donna. Tutti i giorni, ad una cert'ora, veniva a visitarci e a distribuir consolazioni, e quando compariva, so che a taluno di coloro che giacevan malissimo condotti, pareva rinascere, quasi fosse lei quella che avesse a rimarginare le ferite. Ora odi bene.

Un giorno ch'ella venne per quelle solite visite, si avvicinò ad uno di quei chirurghi domandando notizie di me, ed io giacevo sul letto a pochissima distanza. Avendole detto il chirurgo ch'io era quello, ella subito mi si volse con parole assai cortesi, mi disse che glien'era stato parlato (quel mio amico Orlando aveva fatta buon'opera) sapeva tutti i miei casi, e mi compiangeva moltissimo, onde chiedessi quanto io voleva, ch'ella si recava a gran fortuna il giovarmi.

Solo, in terra straniera, in pessimo stato di salute, quelle parole, lo confesso, mi furono di una grande consolazione, e quel rancore che io aveva per lei, posso dire che se ne andò tutt'intero. Era la gratitudine che lavorava, ed io credo d'averle risposto di conformità a quelle sue cortesie, onde mi parve ne rimanesse soddisfatta. E così, tornando quasi tutti i giorni in quel luogo, fermavasi al mio letto e volle che io stesso le raccontassi tutte le mie sventure. Parlando l'italiano poteva esser certo di non esser compreso da chi mi stava d'intorno, onde le dissi il perchè mio padre m'aveva così duramente scacciato, ch'io tanto odiavo il nome francese, che non so quel che avrei patito piuttosto che farmi con loro, che su quel letto mi trovavo per sbaglio d'altri, e guarito appena, tosto me ne sarei andato, che la mia vita era tutta rivolta alla totale distruzione di coloro. A queste mie parole io vedevo che a lei si cangiava spesso il colore del volto e taceva. Stupivo poi, che parlandole sempre a quel modo di que' suoi francesi, tornasse poi sempre a visitarmi ogni dì e non mi avesse ancor preso in odio. Ma il cuore di quella donna la portava naturalmente al beneficio e non la guardava pel sottile.

Di tal maniera passò tutto un mese; e siccome intorno a questo tempo avrebber dovuto succedere le nozze tra la duchessa Elena e il Lautrec, se costui non fosse stato in termine di morte, ne domandai notizie ad uno di que' chirurghi, che benissimo mi contentò. Erano passati più dì prima che avesse potuto dar segni di vita, e cominciava allora solo a riaversi. Seppi poi che la duchessa era corsa a Ravenna in sul primo, e da que' chirurghi non fu lasciata entrare, che ritornata quando il Lautrec cominciava a star meglio, anche lui non aveva voluto riceverla, e ci furono grandissimi guai. Alcuni giorni dopo venne da me l'Orlando, e interpellatolo di questa avventura strana, mi raccontò che la duchessa, la quale stimavasi grandemente offesa per essere stata due volte rimandata, aveva finalmente ricevuto una lettera dal Lautrec medesimo, che con amorosissime parole le diceva che lui trovavasi bene ormai, ch'ella intanto disponesse ogni cosa per le nozze imminenti, che risparmiasse d'andarlo a visitare in Ravenna, per delle ragioni che le avrebbe manifestato poi. Che quando sarebbe tempo, lui stesso tornerebbe a Rimini; e senza più verrebbe a presentarsi all'altare, della qual cosa le manderebbe espresso avviso.

A te parrà ora assai strana la maniera con cui comportavasi il

Lautrec; ma la causa non mancava, ed era ben grave, come sentirai.

Intanto anch'io andava riavendomi un giorno meglio dell'altro, e cominciava anche ad uscire un poco sul battuto del castello a riconfortarmi all'aria; e la duchessa continuando sempre a visitare i feriti, non mancava di venir a vedere anche me, e s'intratteneva in molti e diversi discorsi. Un giorno, odi questa, ella erasi appena partita, ed io, appoggiato al parapetto della loggia, stavo appunto osservandola che nella gran corte risaliva a cavallo, com'era suo costume, sento battermi sgarbatamente la spalla; mi rivolgo e vedo accanto a me un tal uomo del qual non ti ho parlato sin d'ora, ma che era venuto a Rimini sin dall'inverno per unirsi ai Francesi, del cui aiuto gli premeva moltissimo. Costui era il signore di Perugia, Giampaolo Baglione, uomo che io avrei odiato cordialmente, se fosse stato degno dell'odio mio; ma già è inutile ch'io te ne dica altro; tutta Italia sa chi sia questo mostro. Costui adunque, seguitando un pezzo a guardarmi fisso e ghignando:—Allegro, mi disse, giovinetto, a te si prepara buonissima tavola, e costei ha molta carità per te: carità pelosa quanto mai può essere; ma tu provvedi al fatto tuo, e v'immergi il becco più che puoi, intantochè quell'altro pensa a guarire.—E continuando a ghignare d'un modo che gli era particolarissimo, se ne andò mezzo zoppicante, travagliato, com'era, da certi suoi mali osceni. Io stetti pensando un poco a quanto colui mi aveva detto; sapendo però che agli occhi di quel laido uomo non ci poteva esser cosa che non paresse viziata, subito mi levai d'apprensione e non ci pensai altro. Non sapevo che da quelle parole appunto dovevano scaturire guai terribili per me. Ma or viene il grave. Erano passati due mesi, e si era agli ultimi di maggio. Il Lautrec era guarito oramai, e per verità, pensando com'era ridotto quando mi giacque vicino, fu un vero miracolo s'egli si riebbe così presto. Mandò espressamente a dire alla signora, che sarebbe venuto a Rimini la sera del 31 di quel mese medesimo, che essendo pressato di partire col grosso dell'esercito, le avrebbe dato l'anello allora, e stettero in questa. Il dì 31 non fu tardo a venire, e si sapeva che gli sponsali dovevan farsi nella chiesa di s. Francesco Saverio. Ci dovevano intervenire i principali baroni francesi, due vescovi consanguinei della duchessa Elena, venuti espressamente l'uno da Palermo, l'altro da Nocera, il cardinale Sanseverino, che doveva sposarli, tutto il capitolo, e i principali della città. Venne dunque la sera, e all'orologio di s. Francesco suonò presto l'ora di notte.

La chiesa erasi chiusa al popolo, e fu solo per mezzo dell'Orlando se a me venne fatto di mettervi il piede, ed ora non saprei dirti perchè mi sentissi tanta voglia d'esser testimonio di quegli sponsali. Quando entrai nella sagrestia, mi dissero che la duchessa Elena, arrivata in quel punto coi due vescovi, colle dame, coi paggi, con tutto il seguito, era nella gran sala, ove soleva tenersi il capitolo, e in quell'occasione splendidamente apparata; vi stava aspettando il signore di Lautrec, il quale aveale mandato a dire sarebbe entrato in chiesa addirittura, e lo aspettasse. Passò così molto tempo, e la duchessa pareva inquietissima; parlava ora ai cardinali, ora alle dame, e si comprendeva bene che quel ritardo le dava grandissima noia, e quanti eran presenti, persino que' baroni francesi, se ne maravigliaron forte. Finalmente fu udito dagli atri del cortile un tintinnio di sproni e un suonar d'armi, e lo sbattere d'un puntale sul pavimento; tutti dissero ad una voce: Egli è qui! e sulla soglia della sala apparve di fatto l'alta figura del Lautrec. Era tutto coperto di ferro, e avea la buffa calata sulla faccia. Senza innoltrarsi un passo, e con una voce alterata assai, che non sarebbe già sembrata la sua, se non fosse stato per quell'accento, a lui particolare, che si sentiva il bretone lontano un miglio, dice in italiano:—In chiesa subito; io vado innanzi; seguitemi tutti,—

E senz'altre parole, dato di volta, fece appunto quel che disse, ed entrò in chiesa il primo. Questo suo comportarsi, in una tale occasione segnatamente, era, se si vuole, assai strano, per non dir peggio; ma sapendosi come foss'egli uomo singolare e sprezzantissimo d'ogni regola, non fu alcuno che ne stupisse, e tutti lo seguimmo. Quella chiesa era un quadrilungo a tre navate, epperò molto capace; all'altar maggiore avevano acceso un così gran numero di ceri, che pareva fosse in fiamme tutto quanto, ma il resto della chiesa era bastantemente oscuro. Tutto il seguito, che era numerosissimo, si dispose intorno alla balaustrata; innanzi alla predella dell'altare i due vescovi ed altri grandissimi personaggi.

La duchessa Elena si pose in ginocchio sull'uno dei due cuscini di seta d'oro fattivi collocare espressamente. Alla sua dritta, innanzi all'altro cuscino, ritto in piede, immobile, tutto ferrato e sempre colla buffa calata sul viso, il maresciallo Lautrec. Venne finalmente il cardinal Sanseverino che doveva sposarli. Pronunciate le prime parole latine, disse sottovoce il Sanseverino al Lautrec: Siamo all'altare, levate la buffa. A queste parole, io che gli stavo quasi in faccia sull'ultimo gradino della balaustrata, e benissimo potevo notare ogni cosa, lo vidi star perplesso un momento, e quando poi alzò il braccio per levarsela in fatto, quello gli tremava forte come una canna sbattuta. Si scoperse alla fine; uno strido acuto della duchessa, che balzò in piedi spaventata, fu la prima cosa che successe a quell'atto, o subito un commovimento universale, un bisbiglio per tutta la moltitudine astante. Se invece della figura del Lautrec si fosse piantato li uno spettro, una apparizione spaventosa, che so io, un carcame d'uomo con teschio da morto che si movesse, la maraviglia, l'orrore, il commovimento non sarebbe stato maggiore. Io non ti saprei dire a che cosa potesse allora somigliare la faccia del Lautrec; soltanto io so, che faceva ribrezzo e spavento, tempestata com'era, guasta, mutilata dalle ferite, schifosa, e la sua voce che, come t'ho detto, m'era parsa così alterata, dipendeva da ciò, che uscendogli pel naso, del quale non gli rimaneva che la nuda e secca cartilagine, rendeva quel suono che dà la nota più bassa della cornamusa. E mai nè prima, nè dopo io non ho veduto faccia d'uomo più orribile di quella, a tal che, gli occhi al primo vederla involontariamente ne sviavano. Ma in mezzo allo sconvolgimento, al bisbiglio, che grado grado si trasmutò in frastuono, il Sanseverino imperturbabile seguiva a pronunciar la sua formola fino al punto che si rivolse alla duchessa Elena, la quale s'andava contorcendo le mani e faceva tali atti che pareva al tutto uscita di sentimento. In quel punto tutti si stavano in grandissima aspettazione di quel ch'ella avrebbe risposto, ed al rumore succedette un silenzio così profondo, così perfetto, che s'udirono chiaramente le due ore di notte che suonavano in quella all'orologio posto sopra la chiesa; la duchessa si ritrasse allora in mezzo alle sue donne, quasi volesse ripararsi fra quelle…. e una voce che sordamente le andava gorgogliando in gola, uscì finalmente in un no acuto e disperato, che fu ripetuto dalla vôlta del tempio, e via fuggì precipitosa e come fuori di sè…. e le dame, e i paggi, e il seguito le tennero dietro in grandissimo disordine. Il Lautrec si percosse la fronte col pugno, si udì esclamare in francese: Ah! Il mio presentimento! con voce disperata, e assumere poi in quel punto medesimo una tale immobilità che pareva una cosa senz'anima. La duchessa era già fuggita con tutto il seguito; gli astanti, l'un dopo l'altro, dileguati, la chiesa quasi vuota del tutto, che il Lautrec stava ancor là immobile. Si scosse poi tutt'a un tratto, quando anch'io stava per uscir cogli altri. Si scosse con atti da furibondo; lo vidi ascender l'altare, afferrare il sacramento quasi volesse scagliarlo per terra, ma, trattenuto a viva forza dai tre cardinali inorriditi, cosa impossibile a credersi, quel terribile soldato cadde svenuto nelle loro braccia. L'amore che portava a quella donna toccava il furore, era fisso di possederla ad ogni costo, ed è facile a comprendere che non avea voluto scoprirle la propria deformità prima di quell'ora, credendo che, stretta dal tempo e innanzi all'altare non avrebbe saputo rifiutarlo. Ed io t'assicuro che, sebbene quell'uomo mi fosse odioso per mille ragioni, pure in quei momento ne sentii compassione profonda. E anche adesso, ch'io so ch'ei non vuole altro al mondo che la mia morte, e pensando a lui mi assale un raccapriccio che mi tormenta, pure comprendo ch'era degnissimo di pietà in quel punto. Di un simil fatto puoi ben credere quanto si parlasse per tutta la città, e tanto più quando si seppe che ritrattosi il Lautrec a' suoi alloggiamenti, proruppe in tutto quel furore che aveva rattenuto per tanto tempo innanzi all'altare. Nessuno dei suoi più non osava accostarsegli temendo d'esser fatto in pezzi da quell'uomo terribile, e in quella sera medesima recatosi ad uno dei finestroni del palazzo dove alloggiava giurò di vendicarsi dell'insulto di quell'infame donna sulla città tutta quanta, e vedendo com'ella s'era chiusa in palazzo, fatto guardare da una schiera numerosa dei suoi, le prometteva verrebbe il dì che sarebbesi ancor trovato da solo a solo con lei, che lui stesso l'avrebbe fatto venire quel dì, che s'attendesse ogni peggior cosa, e l'ingiuria sì crudelmente fatta soffrire a lui le sarebbe costata sangue assai più che lagrime.

Per verità che nella condotta della duchessa Elena riguardo al Lautrec c'era un'apparenza di perfidia; rifiutarlo per la sola cagione che più non aveva l'avvenenza di prima dava indizio ch'ella non lo avesse mai amato veramente. Ma s'aggiungeva a ciò un'altra circostanza, che agli occhi del Lautrec poteva far parere assai più trista quella donna. La condizion de' Francesi, dopo la battaglia di Ravenna, nè mai sconfitta costò tanto a quella nazione come una tale vittoria, aveva peggiorato a furia. Le truppe francesi dovevan sgombrare tutte le città della Marca, e que' tiranni della Romagna non avevan più nè a sperarne aiuti nè a temer vessazioni. Il Lautrec credeva si fosse infinta quella sua donna, e si fosse promessa a lui non per altro che pel timore di perder lo Stato o di che altro. E pensando a ciò, dava in così terribili smanie, che temevasi da que' suoi compagni d'arme avesse la sua mente a dar di volta del tutto…. Ma chi poteva mai sospettare che ogni cosa dovesse tornare in capo a me? Ascoltami or bene. Due dì dopo, quel tale Orlando m'entra in camera tutto scalmanato, e mi dice:—Non avrei mai pensato avessi a scegliere per tuo confidente quell'uomo tristo del Baglione. Il diavolo dell'inferno certo ti ha consigliato. Ma se a quel ch'è fatto non c'è più rimedio, or che sei in un gravissimo intrigo pensa a' fatti tuoi di fretta, e vattene con Dio, chè questo non è più luogo per te.—T'assicuro che in sulle prime non ho saputo comprender nulla di quelle parole, e stavo attonito, e mi venne anche voglia di ridere di quell'insolita furia, e con tutta calma gli risposi, ch'ei mi pareva più pazzo che altro, e però si spiegasse un po' meglio, ch'io non comprendevo parola di quel suo garbuglio. Allora mi spiegò chiaramente com'era la cosa ed io rimasi come sbalordito. Quel tristo Baglione il quale, mentr'era così orgoglioso ed atroce nel proprio dominio, superava poi tutti nell'accarezzare i Francesi, stimandoli il più valido suo aiuto contro il papa, forse per rendersi ancor più amico il Lautrec, gli disse (già ti sovverai delle parole che già ebbe a rivolgermi colui) gli disse dunque che nel tempo ch'ei si giaceva in letto ferito e moribondo, io aveva saputo sì ben fare colla duchessa, che assai facilmente l'aveva tirata all'amor mio, tantochè nessun altro adesso le stava sul cuore più di me. L'Orlando mi rimproverava l'aver io osato mettermi in quell'intrigo, mi diceva che mai non avrei dovuto dar retta alle parole di lei, che pure dovevo avere qualche esperienza di mondo. Quando gli risposi ch'egli era in un grandissimo errore, m'entrò a dire ch'egli sapeva tutto, che la duchessa era innamorata di me, che ne aveva le prove, e parlarne oramai la città tuttaquanta. Codesto insistere mi fece andar sulle furie, perch'io era certissimo che s'ingannava sul conto della duchessa, e per parte mia poi non era niente affatto innamorato di quella donna. Mi piaceva la sua bellezza, ma come piace un quadro del Leonardo e niente di più, e a Bologna avevo veduto la Bentivoglio che mi stava sempre dinanzi.

A quel mio sdegno parve che l'Orlando credesse qualche cosa e pensasse di non darmi più noia. Insistette però perchè io uscissi subito di Rimini, dicendomi che il Lautrec aveva rivolto tutto contro di me l'odio suo, e in quella prima furia aveva giurato che mi avrebbe finito in ogni modo, che sarebbe venuto a trovarmi e non isperassi di sfuggirgli. Risposi all'Orlando, che se il Lautrec avesse voluto venire, venisse, che io non mi sarei già mosso di Rimini per lui, e per tutto l'oro del mondo non avrei mai voluto parer così dappoco in faccia a lui e a tutta la città….

Per questa risoluzione quel mio amico si partì allora da me assai malcontento. Del resto io parlai in quel modo all'Orlando perchè così doveva fare, perchè non è detto che si debba sempre mostrar fuori l'animo proprio. Ma ora ti confesserò, e non arrossisco niente, perchè sarei poi sempre pronto a far quello a cui l'animo quasi si rifiuterebbe, ti confesserò che io ne provai un certo sgomento. Conoscevo il Lautrec…. e cosa vuoi…. è questo l'unico uomo innanzi al quale io mi sento tutt'altro da quel che fui sempre. Qualche cosa d'orribile, che so io? di straordinario, di sovrannaturale nella natura di quell'uomo…. del resto poi non so. Ma tornando a quella sera, mi confortai così alla meglio, e fermando in ogni modo di far tuttociò che mai non mi desse a credere d'animo basso, e quasi a provare che io aveva coraggio veramente, uscii fuori senza pensare ai pericoli.

Nel tempo che ho dimorato in que' paesi, io soleva prendermi grandissimo diletto, quando non aveva altro a fare, di recarmi così sulla spiaggia dell'Adriatico, o d'innoltrarmi talvolta qualche miglio in mare in uno di quei navicelli che s'usan colà; tanto quel cielo, quella natura, que' siti splendidi e pittoreschi, tutti nuovissimi per me, mi toccavano e mi davan forti scosse e grandissime fantasie. Avevo vent'anni, ero sventurato, la gentile figura della Bentivoglio spesso mi passava dinanzi come un'apparizione, avevo quella cara donna di mia madre a cui pensare, e della quale non mi giunse mai nuova finchè restai fuori, e godevo a star solo. Recavami sovente ad osservar le tordelle che, quando s'alza la marea, si riducono a riva e vi si fermano appoggiate immobilmente su d'una zampa, mi piacevano i gridi delle lodole di mare che annunziano il riflusso. A notte poi recavami talora a qualche distanza per godervi di quella scena così tranquilla insieme e così solenne, per sentire fra que' vasti silenzii, non interrotti che dal mormorio delle immense acque dell'Adriatico, i dolcissimi gorgheggi del chiurlo, il rossignolo marino, che ti mettono una sì soave mestizia nell'anima, che ti senti accorare, eppure ne hai piacere. E così, bene spesso tutto pieno di queste voluttà, sentivo batter le sei, le otto ore di notte ed ancor trovavami sull'acqua.

Quando venne da me l'Orlando quella sera, eran passati due giorni ch'io non mi poneva in mare impedito dalle nebbie, che in quell'anno frequentissime, avean durato tutto il mese di maggio, e in quelle due notti appunto s'erano alzate foltissime. E per ciò, uscito di casa quella sera, e veduto come l'aria invece era sgombra affatto e lucentissimo il cielo, pensai di mettermi in mare, e saltato in un mio battello che tenevo legato a un piccol molo, in poche sbracciate fui ben lontano dalla riva, e così senza pensarci, tirato da quelle care bellezze, m'innoltrai molto in alto. Non era passata un'ora, quando a un tratto, come se per arte si fosse stirato un gran velone, mi trovai circondato dalla nebbia, leggera però in sulle prime, e diafana così, che lasciava vedere come un chiarore perlato. Fin qui quel nuovo fenomeno mi piaceva moltissimo, ma la nebbia in poco d'ora si raddensò tanto, e fu così folta tenebra d'intorno a me, che temendo di non poter ritornare per quella notte, maledii d'essermi posto in acqua. E speravo soltanto fosse per passar qualche barca di pescatore, che in quelle notti nebbiose colle torcie a vento vanno a cerca d'arzàvole, e stetti aspettando qualche buon incontro. Stato fermo così un pezzo mi parve sentir finalmente alcune voci in lontananza, e poi un batter affrettato di remi. Diedi una voce, e veduto allora che la nebbia si rischiarava e facevasi rossa sempre più, capii che erano le fiamme delle torcie e delle fiaccole, e ch'io era stato inteso. Diedi un'altra voce, finalmente vidi spuntar la prima fiaccola, e una barca, poi un'altra, e un'altra ancora, e molti navicelli. Non erano pescatori altrimenti, ma soldati francesi in gran numero che, veduta la bella notte, s'eran forse anch'essi messi a diporto sul mare. Io non aveva a temer nulla da loro, e senza altro lasciatele passare innanzi mi disposi a mettermi in coda a quelle e tornare a Rimini. Ora, intanto che mi passava innanzi l'ultima grossa barca, mi venne osservata la faccia del Baglione che mi guardò fisso e subito si volse a parlare ad un altro. E non mi era passato innanzi due tese, che fui scosso come da una cupa ed aspra voce, e sulla tolda vidi balzar in piedi, con un movimento rapidissimo, l'uomo istesso al quale il Baglione aveva rivolta la parola, parlar poi subito a quelli che gli stavano intorno, i quali pareva gli rimostrassero qualche cosa con grandissimo calore; e taluni poi volessero trattenerlo per forza. Ma colui, arraffata una torcia di vento, lo vidi dalla barca saltare in un piccolo navicello che gli veniva di costa legato, e strappata la fune, sviarsi da quella e venire alla mia volta. Io vogavo ultimo, perchè il mio battello non venisse percosso, camminando di fianco, da que' grossi remi delle barche, e, per esser solo, non potendo aver la loro velocità, ero rimasto molto indietro. Vedendo allora accostarsi a me quel battello, quantunque avessi un sospetto, ho potuto credere un momento venisse per meglio aiutarmi. Ma quando mi fu presso, la torcia a vento rischiarando la faccia di quell'uomo mi fe' correre un gelo per tutto il sangue: era la faccia orribile del Lautrec.

Costui fece girare lo schifo e lo attraversò al mio. Mi guatò fisso un momento, mi afferrò per un braccio, e mi disse in italiano: Aspetta. Stette poi fermo ed immobile come ad ascoltare il battere dei remi, e le voci e le grida che si allontanavano, lasciò che svanissero del tutto, anche gli ultimi suoni più fiochi e lontani lontani, e quando la nebbia non essendo più attraversata dalle torcie e da nessun altro lume tornò a ravvolgerci nella sua fitta caligine, e il silenzio, un profondo, un orrido silenzio ci circondò da tutte le parti… si volse a me. Per quanto io fossi sopraffatto, per quanto io mi sentissi perduto, puoi credere che io stavo pronto, e aveva impugnata la mia daga grossa e a due tagli. Il Lautrec fermo l'occhio su quella, poi guardò a me, come se esaminasse parte a parte tutta la mia figura. Pareva mi volesse dire più cose ad un punto, ma i labbri tremanti pel furore non gli permettessero di parlare…. Del resto non ti saprei dire come fosse veramente… chè in quel punto io non era bene in me stesso. Ma proruppe poi a un tratto, e con quella sua voce nasale mi disse in francese mille arruffate parole, di cui altro non compresi se non che mi preparassi a morire, che la sua vendetta mi avea ghermito finalmente, che forse poteva esser l'ultim'ora anche per lui, ma in ogni modo non gli avrei mai sopravvissuto… e così grado grado facendosegli più aspra e terribile la voce, mandò nel suo bretone altissime imprecazioni, imprecazioni lamentose insieme e feroci, pareva un tigre ferito… e di slancio si gettò su me furibondo con tutta la persona. Ma, come doveva succedere, la barca gli sfuggì sotto, allontanandosi tanto che la fiamma della torcia si nascose dietro al nebbione, come dietro a un fitto velo, e lui cadde sull'orlo del mio schifo, che a quel peso accresciuto dalla caduta si ripiegò su d'un fianco al punto d'andar sott'acqua. Così in quel primo assalto costretto ad attaccarsi tenacemente al fianco del navicello, colui non potè niente lavorare col suo spadone, ma nè io pure avendo, pel trabalzamento, perduto al tutto l'equilibrio, potei difendermi, e caddi addosso a lui. L'acqua entrò allora nello schifo e, per quanto io fossi sbalordito, m'accorsi che non si aveva ormai più a morir di ferro l'uno per l'altro, ma sì tutt'a due annegati in un fascio, e fu tanta la mia disperazione allora, che colla daga menai più colpi al Lautrec che si riscosse, e intanto che l'acqua gorgogliando gorgogliando finiva di sommergere lo schifo, mi fece pure alquante ferite col taglio dello spadone. E allora, quasi a un punto, era un moto d'istinto? lasciammo ambedue i ferri all'acqua, ed io mi diedi a menar le braccia con una forza disperata e furibonda.

La nebbia non era ormai più rischiarata che da un cerchio rosso e fioco, formato dalla torcia dello schifo del Lautrec che, trasportato dall'acqua stava per scomparire del tutto ed era lontano lontano. Vedi che se fossi anche stato solo era bastante orrore, bastante pericolo per morirne, ma quell'atroce uomo mi veniva d'accosto inesorabile, e imprecava anche con certi muggiti sordi… un pesce cane mi avrebbe dato minor travaglio. Intanto io mi affannava per raggiunger lo schifo di lui che galleggiava in lontananza, e tanto potei fare, che mi vi accostai, nè solo m'accostai, ma potei anche aggrapparmivi agli orli. Respiravo un momento, e fu allora appunto che mi parve di sentire un altro rumor di remi affrettato…. Altre voci…. Mi si allargò l'animo del tutto, e mi credei salvo, mando un grido, uno strillo acuissimo per dare un avviso di me… ma in quella mi sento afferrar per le gambe come da una tenaglia che stringe e morde, e a dar tirate e squassi tanto che le mani lacerate mi si staccarono dagli orli. Il Lautrec era già tutto sott'acqua, nè potei capire come fosse stato, e tirava in giù sempre con forza più tenace. Mi vidi di nuovo, e irrimisibilmente perduto, nel punto medesimo ch'io vedeva prestissimo l'aiuto, poichè molte barche mi si erano già scoperte, barche di pescatori, ed io seguitavo a gridar alto. Ma quando una voce s'udì fra quei silenzi a domandare: Chi è qui? Chi annega qui? io non ho potuto parlar più. L'acqua salsa m'entrava pel naso, e tratto in giù precipitosamente, già mi si velavan gli occhi. Di que' momenti non ti posso dir altro.

Ma tu vorrai sapere in qual modo io sia ancor qui vivo e sano. La cosa è assai facile ad intendersi: a que' pescatori venne fatto riscattarmi. Io mi risvegliai su d'un povero letto, avvolto in coperte di lana, tutto fracido di sudore, e chi mi raccolse mi raccontò poi come, alcuni momenti dopo che avean raccolto anche l'altro annegato che non dava segni di vita, loro si era scoperta una barca di Francesi che pareva vogassero in traccia di qualcheduno, e saputo com'era il fatto, pagarono alquanti fiorini d'oro a' pescatori e condussero con loro il Lautrec. A quanto ne ho congetturato, bisogna che, quantunque costretti dai comandi minacciosi del Lautrec a lasciarlo affatto solo con me, pure, veduto scorrere sì gran tempo, e sospettando, com'era ragionevole, qualche grave sciagura, più che il timore dello sdegno del Lautrec che in vero avrebbe messo sossopra tutto l'esercito, abbia potuto il timore di perdere un così gran personaggio, ed una delle più valorose spade di Francia.

Così non riuscì al Lautrec nè di trarre, per allora, nessuna vendetta di me, nè della duchessa, che s'era chiusa in castello e assai bene fortificata, e due dì dopo, avendo le truppe francesi abbandonato quel paese, anche lui, sebbene per le ferite non potesse reggersi, dovette lasciarsi trasferire in Francia, dove il re lo aveva richiamato, conducendo seco un suo fanciullo di pratica altamente secreta, e intorno al quale correvano per Rimini molte e diverse voci; d'allora in poi più non ebbi ad incontrarmi con lui; ma alla battaglia di Novara, dove la barbuta savoiarda mi ferì a tradimento, subito mi venne in mente il Lautrec, e ho tentato ogni mezzo per cavar di bocca la verità all'assassinio; ma il suo labbro era di marmo e morì senza dir nulla. Allora il dubbio che mi sorse in mente si dileguò a poco a poco, e non sarebbe mai più risorto se l'attentato di ieri non mi avesse fatto ripensare al Lautrec.

Del resto io t'assicuro che un simil fatto ha prodotto in me assai più meraviglia che altro; chè io avrei temuto bensì ogni peggior cosa dal Lautrec, ma da lui medesimo, a corpo a corpo, stimandolo sin qui, come tutto il mondo ancora lo stima, tanto onorato quanto feroce. Ben è vero che la forza dell'odio è prepotente, e può bene avergli fatto cambiare anche il costume, e sprezzare ogni legge di cavaliere; non so poi se in questi tre anni sia intervenuto nulla alla signora di Rimini, ma in ogni modo temo che quel che non è avvenuto avverrà di certo, che quell'uomo, come ho dovuto accorgermi, non dimentica e non riposa.

Manfredo Palavicino, o, I Francesi e gli Sforzeschi: Storia Italiana

Подняться наверх