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I PRIMORDI DELLE SIGNORIE E DELLE COMPAGNIE DI VENTURA
DI
AUGUSTO FRANCHETTI
XI
ОглавлениеLa terra tosca, a cui il Poeta indirizzava la canzone (che poi tralasciò peraltro di porre tra le sue Rime) e dove i Da Coreggio desideravano apparire amatori di libertà, non era propizia all'impianto di stabili signorie; ma neanche v'attecchivano ordini durevoli d'alcuna sorta. Tutti avete a mente il rimprovero di Dante a Firenze:
… fai tanto sottili
Provvedimenti, ch'a mezzo novembre
Non giugne quel che tu d'ottobre fili,
rimprovero che fu suggerito senza dubbio al Poeta dall'acerbo ricordo del suo Priorato (incominciato il 15 ottobre e interrotto anzi tempo il 7 novembre del 1301), ma che si riscontra giusto in tutta quanta la storia del nostro Comune. Legge fiorentina, suonava un vecchio dettato, fatta la sera e guasta la mattina.
Per tacere dei mutamenti d'istituzioni, di magistrature e di leggi (alcuni dei quali erano vere rivoluzioni più radicali delle moderne, e, come allor dicevasi, facevano popolo nuovo), il Comune, dove già aveva spadroneggiato nel 1301 Carlo di Valois coi guelfi neri, sotto gli auspicî di Bonifacio VIII, nel 1313 dette la signoria di sè per cinque anni all'angioino re Roberto di Napoli, e similmente per altri dieci, nel 25 e nel 26, al primogenito di lui Carlo duca di Calabria (che in diciannove mesi fece spendere più di 900 mila fiorini d'oro senz'alcun frutto); ed in fine del 42 elesse Gualtieri di Brienne, duca d'Atene, a capitano e conservatore del popolo; “avventuriere, dice uno storico, di poca fermezza e di meno fede… cupido, avaro e male grazioso, che pure il popolo stesso, ampliandogli il potere, acclamò signore perpetuo e che dopo una diecina di mesi cacciò con rabbioso furore.„ La ragione di queste frequenti dedizioni sta nella debolezza del Comune, che, riconoscendosi impotente a soddisfare le sue mire ambiziose, si affidava ad un signore di fuorivia nel quale sperava di trovare coll'unità del comando la forza che gli mancava. Tal sentimento è espresso nel caso nostro, forse meglio che da ogni storico, dal rimator popolare Antonio Pucci in un suo lamento per la perdita di Lucca: città che i Fiorentini avevano comprata da Mastino II Scaligero per ben 250 mila fiorini, ma che sol pochi mesi avevano posseduta, avendola i Pisani assediata ed espugnata. Nel lamento dunque che ha per titolo: Come Lucca si perdè, Firenze stessa così si rammarica:
Questa mi fu peggior mercantazia
Ch'i' comperasse mai in vita mia;
Sì cara mi costò la sensaria
A questa volta.
Oimè, Lucca d'ogni vertù folta,
Che, per averti meco, insieme accolta,
Ti comperai, ed altri me t'à tolta,
Ond'io rimango
Con tanta pena, ch'ogni dì me 'nfrango,
E sospirando giorno e notte piango.
…
E di questo andare continua un pezzo, poichè la sobrietà non è la qualità propria di siffatti cantari. Ma ciò che qui importa è la lieta speranza che anima la chiusa del componimento:
Or tal signor m'à preso ad aiutare
Ched i' ò intenzïon di vendicare
Ogni passata offesa, e racquistare
L'onor perduto.
Che 'l franco capitan prod'e saputo,
Duca d'Atene ch'è per ciò venuto,
Mill'anni par che d'onore compiuto
Ci renfreschi;
E seco menerà pochi tedeschi,
Ma cavalier taliani e francieschi,
Que' che son sempre a ben ferir maneschi
Come leoni.
Ma furono vane lusinghe; e l'istesso rimatore, in una ballata scritta per la cacciata del tiranno, con arguto scetticismo fiorentino ne fa la storia sommaria e ne dà la conclusione morale, che vale per tutti i tempi:
Il giorno della Donna (l'8 settembre), ebbe per manna
Il Duca di Firenze signoria;
E fu disposto il giorno di sant'Anna
Che è madre della Vergine Maria;
E sì come di pria
Si disse – viva, viva! – con gran gioia,
Si gridò – muoia, muoia! —
Comunemente d'una volontade.
Se non temessi d'abusare della vostra pazienza vi leggerei anche qualche verso d'un altro lamento che il Pucci mette in bocca al duca d'Atene, dove egli ricorda che Arezzo, Pistoia, Volterra, Colle San Gemignano gli s'erano date a vita al pari di Firenze (ed è fatto vero), sicchè ei si credette esser re di Toscana; ma s'accorse a sue spese che i Fiorentini “Gente non son da tener con gli uncini„. Poichè, mentre stava per montare in su la rota, ricevette tal colpo sulla gota, onde rimase lasso! ne la mota, Ispodestato. E il peggio fu per Firenze che a un tratto (dice il Machiavelli), del tiranno e del suo dominio priva rimase; poichè quelle città e terre si ribellarono, e non senza promesse e travagli il Comune potè ricuperarle.
Aveva ragione il vecchio Poeta popolare: per soggiogare i Fiorentini non ci volevano asprezze soldatesche e violenze tiranniche, ma arti raffinate e modi civili; e già in mezzo alle discordie delle arti maggiori e minori, e delle famiglie antiche e delle nuove, fra il breve trionfo dei Ciompi e le vendette dei grandi, si faceva strada una casa di ricchissimi e intelligenti banchieri che doveva nel secolo XV creare una particolare forma di signoria, appropriata all'indole della città e assai più salda delle precedenti.