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I PRIMORDI DELLE SIGNORIE E DELLE COMPAGNIE DI VENTURA
DI
AUGUSTO FRANCHETTI
XIII
ОглавлениеPisa, come avverte giustamente il prelodato storico dei guelfi pisani, è il Comune di Toscana che offre minori dissomiglianze con quelli d'oltre Apennino. E però ci apre la via a dir due parole dei tiranni di Romagna, sui quali ha raccolte molte notizie con lodevole diligenza il conte Pietro Desiderio Pasolini. Questi osserva a ragione ch'essi si distinguono tra loro poco più che pel nome, e generalmente non sono notevoli se non per gli atroci delitti di cui sono autori spietati o vittime miserande, e talvolta l'uno e l'altro successivamente, quasi tutti feroci e perversi, pronti a tradire ed a spegnere amici, parenti e fratelli, senz'alcun fine ideale, senz'alcun principio comune, salvochè la sete di dominio. Aggiungasi che la lontananza dai papi, dopo il 1304, e lo scisma d'Occidente dopo il 1378, favorivano le ambizioni dei signori, in quell'inestricabile sviluppo di guerre, di congiure e di stragi. Mettiamo da parte, innanzi tutto, il buon Guido da Polenta, amico di Dante, a cui rese degne onoranze funebri dopo averlo ospitato negli ultimi anni; protettore di Giotto che chiamò a dipingere due chiese a Ravenna; e gentil rimatore egli stesso. I Polentani si erano fatti grandi col favore del clero e quali vicari arcivescovili; ma dopo il 1282, grazie alle podesterie esercitate e all'autorità acquistata, fondarono pacificamente la signoria di Ravenna e di Cervia, or combattendo, or venendo ad accordi coi pontefici e coi loro conti di Romagna:
Ravenna sta, com'è stata molt'anni:
L'aquila di Polenta la si cova,
Sì che Cervia ricopre co' suoi vanni.
Se non che, dopo la morte di Dante, accadde un tristo mutamento. Guido Novello e il fratel suo l'arcivescovo Rinaldo troppo dirazzavano dai loro conterranei per poter durare a lungo; e nel 1322, mentre l'uno era capitano del popolo a Bologna, e l'altro teneva il governo senz'alcun sospetto, un cugino, di nome Ostasio, si fece dare da quest'ultimo le chiavi della città, e, introdotto uno stuolo di sicari, lo fece scannare nel proprio letto. Il popolo acclamò costui podestà e sbandì come ribelli Guido e gli amici suoi, che invano sperarono e tentarono di essere richiamati.
Uniti in parentela coi Polentani erano i Malatesta di Rimini; parentela che condusse ad una tragedia domestica immortalata da Dante e modernamente posta in iscena dal Pellico; finchè duri al mondo un alito d'amore e di poesia, ogni cuore gentile palpiterà al racconto dei dubbiosi desiri e dell'ardente passione onde furono avvinti Paolo Malatesta e Francesca da Polenta, passione così forte che neanche l'inferno valse a discioglierne i nodi, ed in ciò almeno, la colpa, secondo la fantasia del Poeta, vinse la giustizia divina. Il pietoso fatto successe a quanto pare nel 1285, e divise per un tempo le due famiglie; ma pochi anni dopo l'utile comune le riconciliò. Antichi cittadini di Rimini, i Malatesta da Verrucchio, seguivano al pari dei Polentani la parte guelfa; e del pari anche resistevano ai conti pontifici ed ai papi stessi, che due volte, dal 283 al 300, li misero al bando della Chiesa e poi li ribenedirono. Nel 1295 ci furono a Rimini tre giorni di guerra civile tra guelfi e ghibellini, capitanati i primi da Malatesta dei Malatesti, i secondi da Parcitade dei Parcitadi, prode e virtuoso cavaliere. Ma avendo saputo il Malatesta che Guido da Montefeltro (di cui or ora darò notizia), veniva in aiuto agli avversari, finse di voler rappaciarsi col suo competitore. I due infatti si abbracciarono tra gli evviva del popolo, e convennero di radunar le genti assoldate. Il Parcitade mantenne scrupolosamente la parola data; ma l'altro nascose o fece tornare indietro i suoi scherani, coi quali, la mattina seguente, s'impadronì della città facendo strage dei ghibellini. Il Parcitade si salvò a stento, ma due suoi figliuoli un Montagna ed un Ugolino Cignatta furono fatti prigioni, e trucidati da Malatestino, degna progenie di Malatesta. Dante lo ricorda chiamando costoro:
Il Mastin vecchio e 'l nuovo da Verrucchio
Che fecer di Montagna il mal governo.
Malatestino poi, succeduto al padre nel 1312, volendo insignorirsi di Fano, chiamò a parlamento due dei migliori cittadini, e giunti che furono al ritrovo li fece senz'altro uccidere e gettare in mare.
Similmente a Faenza, nel 1285, Alberigo Manfredi che fecesi poi frate di Santa Maria, per meglio vendicarsi del fratello e del nipote da cui aveva ricevuto uno schiaffo, finse di volersi riconciliare con loro e li invitò a desinare al suo castello di Cerata. Verso la fine del banchetto gridò: “Vegna la frutta„ e i suoi sicarii sbucarono dalla cortina dietro la quale erano appostati e li scannarono. Una multa e un breve esilio composero la faccenda; ma Dante lo trova all'inferno, confitto nel diaccio, dove dice:
Io son Frate Alberigo
Io son quel dalle frutta del mal orto,
Che qui riprendo dattero per figo.
Una particolarità di Maghinardo Pagani che tiranneggiava Imola e Faenza era di recitare scopertamente una doppia parte nella commedia politica fra il due e il trecento: pupillo ed amico del Comune di Firenze, a cui il padre l'aveva raccomandato morendo, e per cui combattè a Campaldino, egli era guelfo in Toscana e ghibellino in Romagna:
Le città di Lamone e di Santerno
Conduce il lioncel del nido bianco,
Che muta parte dalla state al verno.
Aveva anche il soprannome di demonio; e Dante dice altrove che le buone opere de' suoi discendenti non basteranno a far che “puro giammai rimanga d'essi testimonio„. Non va poi confuso cogli altri tirannelli romagnoli quel valoroso guerriero e feudatario ghibellino che fu Guido da Montefeltro, al cui avo Buonconte, Federigo II aveva concesso la città e contado d'Urbino. Fedele alla casa di Svevia accompagnò nell'infelice impresa il povero Corradino; poi, ritiratosi in Romagna, sfidò e vinse in una gran battaglia nel 1275 i guelfi condotti da Malatesta da Verrucchio; sicchè parve sul punto di dominare l'intera regione; ma la parte avversa riprese il sopravvento dopo l'elezione di papa Martino IV e l'invio di soldatesche francesi; assediato in Forlì da forze preponderanti e ridotto agli estremi, si racconta che Guido si liberasse e facesse strage del nemico con un audacissimo stratagemma: poichè uscì chetamente dalla città cogli uomini validi, lasciando aperta una porta, e dentro i vecchi, le donne e i fanciulli; quindi mentre gli assedianti entrati in Forlì gozzovigliavano, piombò loro addosso improvvisamente; dicesi che vi perissero quasi tutti gli ottomila francesi; al che allude Dante coi noti versi:
La terra che fe' già la lunga prova
E di Franceschi il sanguinoso mucchio
Sotto le branche verdi si ritrova.
Fu questa peraltro una vittoria di Pirro: Forlì, che aveva eroicamente resistito per oltre un anno, ad un tratto si sottomise senza voler più combattere; e così Cesena, Forlimpopoli ed altre terre; Guido, perduto tutto lo Stato, venne a patti col papa, che gli prese in ostaggi due figli e lo confinò prima a Chioggia, poi in Asti, dove era da tutti onorato. Uomo di retto animo lo dice fra Salimbene, costumato, liberale e amico de' Frati Minori. Nel 1289, invitato da Pisa ad assumer l'ufficio di podestà e di capitano del popolo, ruppe il confino; dopodichè, nel 94, tornò in pace colla Chiesa; ribenedetto da Celestino V ed entrato in grazia di Bonifazio VIII, ricuperò i suoi possessi e fu mandato con 500 cavalli a difesa del Regno di Napoli; due anni appresso, stanco della vita e pentito delle colpe commesse, vestì l'abito di san Francesco, e morì santamente in Assisi nel 1298. Il racconto di Dante sul consiglio fraudolento da lui dato a Bonifazio VIII pare una leggenda, da cui il Poeta traesse buon partito per sfogare il suo sdegno contro “lo Principe de' nuovi Farisei„.