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I PRIMORDI DELLE SIGNORIE E DELLE COMPAGNIE DI VENTURA
DI
AUGUSTO FRANCHETTI
XIV

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Primeggia, fra tanti feroci uomini, una donna così energica e valorosa che guelfi e ghibellini si uniscono ad ammirarla. È la Cia o Marzia, degna moglie di Francesco degli Ordelaffi, signore di Forlì e di Cesena che un anonimo contemporaneo chiama “perfido cane patarino, ribelle della Santa Chiesa… uomo disperato„; ed aggiunge che “aveva odio mortale a li prelati… e non voleva… vivere a discrezione di preti„. Amico del Boccaccio, da trent'anni si rideva così delle scomuniche come delle ribenedizioni pontificie, allorquando nel 1353 venne il cardinale Egidio d'Albornoz, mandato da Innocenzo VI, a sottomettere i tiranni di Romagna, i quali, approfittando della lontananza della Corte pontificia, trasferitasi da 46 anni in Avignone, s'erano fatti sempre più riottosi e indipendenti. L'Ordelaffi, che da principio aveva stretto in lega gli altri signori, rimase poi solo, coi Manfredi di Faenza, a negare obbedienza al legato, che bandì una crociata contro di loro; anche i Manfredi, perduta la lor città, dovettero schierarsi fra i suoi avversari; ma egli aveva seco la moglie, la quale aveva già dato prova di valore combattendo (dice Matteo Villani) “non come femmina ma come virtudioso cavaliere; ed a lei affidò la custodia di Cesena. Essendovi entrato il nemico col favor del popolo levatosi a tumulto, Cia si ritirò nella murata, o ricinto intorno alla rôcca, e la difese (continua a narrare il cronista fiorentino) “ella sola guidatrice della guerra, stando il dì e la notte coll'arme indosso„. Durò un mese, dal 29 aprile al 28 maggio, a contrastare il passo alle genti del legato; quindi “avendo fatto meravigliosamente d'arme e di capitaneria alla difesa, si ridusse con 400 tra cavalieri e masnadieri nella rôcca, acconci a' comandamenti della donna, per singulare amore, sino alla morte„. Otto macchine scagliano una grandine di pietre sì che le torri squarciate minacciano rovina. Il padre di Cia, Vanni Ubaldini, signore di Susinana, che milita nell'esercito pontificio, supplica la figliuola d'arrendersi. “No, risponde essa, quando mi deste in moglie al mio signore, non mi raccomandaste voi di obbedirlo ad ogni costo? Ora egli ha affidata questa rôcca a me: io la difenderò sino alla morte.„ Quando dopo 22 giorni di disperata resistenza i suoi connestabili le dimostrarono non esservi più riparo e dichiararono che non intendevano perir schiacciati tra le macerie, “la valente donna… non cambiò faccia nè perdè di sua virtù„. Ma prese essa stessa a trattare col legato e ne ottenne che tutti i suoi soldati potessero uscir liberi, portando seco ciò che volevano. Nulla chiese invece per sè nè pei suoi figli e congiunti; e menata con essi in prigione nel castello d'Ancona “così contenne il suo animo non vinto e non corrotto, come se la vittoria fosse stata sua„. Trattata onestamente, ricusò, a quanto affermasi, di essere immediatamente liberata “temendo la subitezza del marito„. Il quale continuò dal canto suo a sostener con eroica fermezza lo sforzo delle armi nemiche, e soltanto dopo ventitrè mesi (il 4 luglio del 1359) sopraffatto dal numero, rese al legato la rôcca di Forlì, e implorò umilmente il perdono che, trascorsi pochi giorni, gli fu largamente concesso a prezzo di tenue penitenza. Assolto dalle condanne e creato vicario pontificio in Forlimpopoli e Castrocaro, tornò a ribellarsi; militò agli stipendi dei Visconti, e quindi della repubblica di Venezia, dove fu raggiunto dalla fida consorte e dove finirono ambedue l'avventurosa lor vita in sì povero stato che ne furono fatte le esequie a spese della Serenissima. I loro nomi restarono popolari tra gli antichi sudditi; i quali tutti, compreso il clero, ne accolsero con grandi onoranze le ossa, quando il figlio Sinibaldo le riportò, l'anno 1381, nella città di cui aveva racquistato l'ereditaria signoria. I Forlivesi, secondo l'espressione del Villani, erano pazzi dell'Ordelaffio

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