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LE LETTURE FIORENTINE SU LA VITA ITALIANA NEL TRECENTO
III
ОглавлениеOrmai delle letture del palazzo Ginori anche l'ultima eco è svanita; parliamone dunque un'ultima volta con animo più riposato, per rievocare il ricordo di tante ore deliziose trascorse in quella serenità di spirito che era conceduta dalla stagione clemente, dalla geniale compagnia e dall'abito ormai acquistato di convenire a così eletti ritrovi. Perchè, gioverà rammentarlo, queste letture su La Vita Italiana nei secoli XIII e XIV, come le altre su Gli Albori, ebbero il plauso d'un uditorio sceltissimo, la cui assiduità non ha bisogno d'esser messa alla prova; d'un uditorio capace d'intendere le più riposte finezze d'una critica sottilmente ideale, come di non batter palpebra allo scrosciar de' robusti periodi d'un dicitore classicamente erudito.
Non ho mai conosciuto più severo areopago nè più sodi cervelli di questi che si nascondono all'ombra de' cappellini civettuoli e delle meglio composte acconciature. Il giudicio femminile, a torto così bistrattato, è quasi sempre d'una sagacità senza pari. Quello degli uomini, il più delle volte si lascia fuorviare da ragioni di convenienza, di scuola, di partito, di politica. Quest'altro invece mira dritto alla meta senza riguardi, senza preconcetti, senza ipocrisie; anzi talvolta spinge la franchezza sino alla più cruda brutalità. E, sopra tutto, aborre dalla presunzione: quando non capisce, sbadiglia; quando sbadiglia e contorcesi sulla seggiola, s'annoia; e quando si annoia, condanna senza remissione, senz'attenuanti. Ha pure un senso straordinario della misura, della convenienza, della decenza oraziana: è quell'istesso intuito d'arte che la donna sa mettere nella scelta dei colori, nel taglio d'un vestito, nell'adornamento della persona.
Conoscitrici consumate, autrici e critiche ad un tempo di quel piccolo poema di grazia e di civetteria che è l'opera delle loro mani e di quelle di… Dio, sanno il segreto di ogni opera d'arte e non perdonano ad un disserente noioso, ad un accademico pedante, ad un dotto senza facondia, ad un conferenziere senza carità cristiana. Esse, che d'amore s'intendono, vogliono sentirne l'afflato in ogni opera d'arte. Non c'è creazione senza connubio, nè connubio senza simpatia, senza calore d'affetto. Perciò se restan fredde ascoltando un lavoro, pronunziano contro il colpevole una sentenza mortale. Il gentile areopago potrà forse reprimersi; e allora, per eccesso di modestia, giudicherà il lavoro dottissimo, ed erudito l'autore; e con questo eufemismo gli negherà per sempre il battesimo d'artista o di poeta.
Ma i nostri lettori di quest'anno (1891), come quelli dell'altra serie, e delle serie future, possono presentarsi al pubblico più difficile e schifiltoso senza paure. Enrico Panzacchi, Ernesto Masi, Isidoro Del Lungo, Enrico Nencioni, per tacere degli altri valenti, conoscono a prova il segreto di dir cose belle e peregrine tenendo attento e divertito un eletto uditorio. Nè gli altri che seguirono furon da meno dei precedenti. Ernesto Masi seppe improvvisare in pochissimi giorni un quadro compiuto dei tempi illustrati da Dante. Del Barbarossa, d'Enrico VI, d'Innocenzo III, di Federigo II, di Manfredi, di Carlo d'Angiò, di Corradino, di Bonifazio VIII, di Carlo II e di Roberto, della Regina Giovanna trattò, nella sua lettura sugli Svevi e Angioini, con quella grande competenza ch'è frutto di studi coscienziosi e con felicità di parola, ritraendo in brevi ed efficacissimi tocchi la fisonomia storica dei varii personaggi e digredendo in considerazioni alte e razionali. Il Masi dimostrò ancora una volta ch'egli sarebbe un eccellente professore di storia moderna, di cui potrebbe onorarsi qualunque Ateneo, ora segnatamente che le cattedre universitarie sono occupate dai microscopisti della scienza, con grave danno di quella coltura generale che i giovani non possono attingere fuori della scuola.
Arturo Graf aveva scelto quest'anno un argomento attraentissimo Il tramonto delle leggende, e ne parlò con abbondanza di sicure notizie, con magistrale conoscenza del tema. Egli ha una fiera passione: quella di non lasciare inesplorata nessuna parte del soggetto preso a trattare; e perciò i suoi lavori acquistano maggior pregio ad un'attenta e ponderata lettura. Lo studio sulle Origini del Papato e del Comune di Roma, ch'ei lesse l'anno scorso, è stato per unanime giudizio riconosciuto un de' migliori scritti del volume su Gli Albori edito dai Treves.
Al Graf succedette il senatore Marco Tabarrini, cui non dispiacque di fare onore alle Letture di casa Ginori con una sua conferenza su Le Consorterie nella storia fiorentina. Il Tabarrini, richiamato da un gentile invito a' suoi antichi studi prediletti, lasciò per un poco le gravi cure della politica; e con affetto giovanile si pose a dar forma di piacevole ed elegante discorso a' materiali laboriosamente raccolti trent'anni fa sopra un argomento poco noto di storia patria. E vi riuscì così bene, da far dimenticare, con l'aurea semplicità dello stile, con la squisita eleganza dell'elocuzione e con la grazia toscana della lingua, la difficoltà dell'assunto. Perchè, chi nol sappia, egli è un sapiente maestro anche nell'arte del dire, ma un di quelli del buon tempo antico, i quali sdegnano i lenocini della rettorica, non di altro curanti che di dar veste ben conveniente agli studiati pensieri. E' vi parlano con quella bonomia socratica, per la quale le astruserie della scienza paiono a chiunque accessibili e piane; e tutto il loro segreto consiste nel dar ordine lucidissimo a quel che hanno chiaro e luminoso nel loro intelletto. Il miglior artificio per fare una buona conferenza è quello d'averla fatta prima a noi stessi, d'aver bene in mente ciò che si vuol dagli altri compreso; e però riescon meglio le conferenze addirittura improvvisate, quelle fatte a braccia, quando la frase sia obbediente al pensiero e questo segua il cammino prestabilito, senza fermarsi sbadatamente per via.
E tale fu appunto quella che Diego Martelli fece su Gli artisti Pisani, parlando di storia dell'arte con la sicurezza che nasce da una lunga pratica e amorosa col proprio soggetto. Diego Martelli non fa nè l'artista nè il letterato di professione; ma è, per felice intuito, per le doti naturali dell'ingegno e per svariata coltura, un dicitore piacentissimo, che riesce a nascondere lo studio e l'erudizione sotto le apparenze d'un'arguta bonarietà. Parlò del bizantinismo con novità e originalità di concetti, descrisse le meraviglie create dagli artisti pisani con la evidenza e la semplicità onde un viaggiatore di buon gusto vi pone sott'occhio quanto di meglio ha veduto in lontani paesi. La sua conferenza fu come la relazione d'un viaggio nel passato dell'arte, compiuto da un nostro contemporaneo, che sappia raffrontare l'antico con il moderno, e d'arte giudicare con intelletto d'artista. Non smancerie, non frasi imparate a mente, non effetti retorici; ma quella signorile bonomia con la quale i nostri antichi ragionavano de' miracoli dell'arte nelle botteghe de' pittori o degli scultori. Il Martelli, compagno di studi a quanti dal 1859 in poi han trattato la stecca o il pennello, ammiratore ed amico dell'Abbati, del Sernesi e degli altri valorosi rinnovatori della pittura in Toscana, è un finissimo ingegno d'artista che si nasconde nella giacca d'un possidente di campagna. Egli odia la ipocrisia, sotto tutte le forme, e per questo vive un po' solitario e fa parte da sè stesso. Tanto meglio, se nella quiete d'una biblioteca sa preparare al pubblico che gli vuol bene, un'ora di dilettazione estetica, come quella indimenticabile che ci donò il 16 aprile nella sala Ginori!
Tre giorni appresso risaliva quella cattedra un altro bell'ingegno, il Molmenti. Un artista che vuol essere aristocratico succedeva al più democratico di tutti i conferenzieri; alla naturalezza del fiorentino all'antica, seguiva la raffinata eleganza d'un cortesan veneziano. L'onorevole Molmenti non se l'abbia a male: il paragone non ha nulla d'odioso per lui; tanto è vero che posson farlo i lettori, raffrontando i ritratti dei due dicitori dovuti alla elegante matita del Corcos.
Il tema assegnatogli era Venezia nel secolo XIV, e l'autore della Dogaressa ne trattò con caldezza d'affetto, con vera ispirazione. Dimostrò come l'arte in questi anni di vigorosa vita civile facesse naturalmente difetto; poichè l'arte meglio fiorisce nelle età più riposate, negli splendori della decadenza. Nei primordi della repubblica l'arte si rivelò, è vero, in Venezia con opere magnifiche; ma non fu nè nazionale nè individuale, fu invece arte bizantina e prodotto sociale. Venezia comparisce degnamente nel campo dell'arte sul principio del secolo XV, mentre appunto incomincia il suo scadimento civile. – Questa la tesi maestrevolmente svolta con abbondanza di notizie e di particolari, con osservazioni originali e sapienti, con una forma scintillante, armoniosa, carezzevole, a cui aggiungeva nuovo incanto la voce dell'oratore e la blandizia della pronunzia. Pompeo Molmenti – non più Pompeo Gherardo – è un felice temperamento d'artista, che conserva tutta la giovanile baldanza, nonostante qualche capello bianco di più, nonostante le cure della politica. Egli è un dei beniamini del pubblico nostro, che con applausi cordiali lo rimerita dello zelo da lui posto nello studiare e preparare i materiali di queste genialissime conversazioni.
Camillo Boito fu l'ultimo della eletta schiera, e parlò dei Giudizi artistici nel secolo XIV con quella finezza di gusto onde è da tutti pregiato. Singolare soggetto, degno dell'attenzione d'un critico sapiente e originale, ch'egli trattò con ricchezza di particolari, con felicità di raffronti, ritessendo per sommi capi la storia di due monumenti, del Duomo di Milano e di Santa Maria del Fiore, mostrandoceli nel loro divenire e per tal modo insegnandoci come in materia d'arte pensassero i nostri padri.