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LE FAZIONI ITALIANE
DI
ROMUALDO BONFADINI

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Nelle commedie antiche – e non meno buone per ciò – il primo personaggio che parlava agli spettatori era ordinariamente Frontino che introduceva il gentiluomo, o Fiammetta che annunciava la gentildonna.

Non altrimenti intendo oggi il còmpito, a cui la sorte m'ha destinato, di inaugurare quelle conversazioni storiche e letterarie, di cui vedo che dodici mesi, trascorsi in altri ambienti, non vi hanno fatto perdere la memoria… o la speranza.

La buona conversazione – fu detto in qualche luogo da un brillante scrittore – è l'ultima virtù dei popoli che decadono. Speriamo sia anche la prima dei popoli che risorgono. Almeno è un augurio che mi sfugge dal labbro, vedendo dietro l'uscio ch'io sono incaricato di schiudere, quella serie d'illustri ingegni, alla cui parola il vostro desiderio si affretta. Certe sentenze feriscono per la loro eccentricità più ancora che per la logica loro.

Non era in decadimento l'ingegno fiorentino, quando gli Orti Oricellarj raccoglievano sotto i platani ombrosi le dotte conversazioni di cui rimane ancora memoria. Non era in decadenza lo spirito fiorentino, quando, fuori porta San Gallo, ai fieri assalti della pestilenza, una vivace compagine opponeva il fascino di un'arguta conversazione alla cui dottrina potranno forse giungere quelle del palazzo Ginori, se anche, per altre ragioni, non potranno emularne la giocondità.

E senza voler raccogliere altri esempi a confutazione della severa sentenza, basterà ricordare che non appartiene ad epoche di decadimento, ma risale proprio alle origini dell'umanità quella conversazione-tipo, a cui si sono modellate poi le più interessanti di tutti i popoli e di tutti i tempi – la conversazione del serpente con Eva.

Lasciate dunque che vengano a voi, come nello scorso anno, i conferenzieri. Sono gli stessi e son nuovi. Vi parleranno, come in passato, dell'Italia che voi amate e che è bene studiare. Soltanto, mentre per voi questo intervallo non è stato che di un anno, per essi sarà stato di un secolo. Dall'Italia dei vescovi e dei Comuni dovranno giungere all'Italia dei tiranni e delle compagnie di ventura. Dall'avventuriero normanno che fonda nella bassa Italia la dinastia d'Altavilla, dovranno balzare all'avventuriero francese che si annida nel regno con poco sforzo e vi sovrappone, meno eroica e più sanguinaria, la dinastia degli Anjou. La contessa Matilde, sicura nel suo dominio, fiera del suo fanatismo, amica e protettrice dei più grandi Pontefici, sparirà dalla scena, dove saliranno invece le turbe scamiciate dei Ciompi o i feroci armigeri di Gualtiero di Brienne. Invece delle rozze mura di Fiesole o di Milano vedrete innalzarsi o incominciarsi il Palazzo Ducale di Venezia, Santa Maria del Fiore, la Certosa di Pavia. Dalle figure stecchite e angolose dei mosaici bizantini un'arte nuova vi porterà fino a Gaddo Gaddi ed a Niccola Pisano. E mentre, già respinti nell'estremo settentrione d'Italia, i menestrelli si preparano a varcare le Alpi, riportando nelle corti di Borgogna o di Provenza il loro ritmo di lamento e d'amore, sorge nell'Italia centrale il racconto che ha nome Boccaccio; la lirica, che ha nome Petrarca; l'epopea, piena di fantasia e di dottrina, che ha nome Dante Allighieri.

Singolare trasformazione che si manifesta nei popoli italiani dalla fine del secolo duodecimo al principio del decimoquarto!

Istituzioni, costumi, linguaggio, genio letterario ed artistico, tutto è mutato. Altre passioni agitano la razza italica; altri interessi sono sorti; vi si provvede con tutt'altre forme.

Forse il solo secolo XVIII potrebbe pareggiarsi a quell'epoca per le sorprese dei fatti, per la rivoluzione delle cose. E un fiorentino che avesse potuto prender parte, nel 1260, alla battaglia di Monteaperti

Che fece l'Arbia colorata in rosso


sarebbe stato altrettanto meravigliato, potendo vedere, ottant'anni dopo, Firenze prostrata sotto il tallone del Duca d'Atene, come sarebbe stato intontito un francese che avesse potuto assistere nel 1715 ai funerali di Luigi XIV, e vedere, meno di ottant'anni dopo, la regina di Francia condotta al patibolo fra gli urli omicidi delle trecche di mercato.

È che allora – come più tardi – non v'era equilibrio di contemporaneità nello svolgimento delle attitudini umane. Allora – come più tardi – il progresso nelle discipline d'indole morale era più lento e meno sicuro del progresso nelle discipline d'indole scientifica od economica.

Economicamente, il paese era ricco. I fattori della prosperità pubblica s'erano avvantaggiati di tutto quel moto emancipatore che nei secoli anteriori aveva innalzato le plebi e spezzate le resistenze del feudalismo.

Divenute libere le città, e vinti i castelli nelle campagne, il lavoro s'era fatto rimuneratore, la sicurezza maggiore nelle strade permetteva i commerci: la borghesia si costituiva.

Le fabbriche d'armi in Lombardia e le consorterie artigiane in Toscana accennavano ad industrie già fiorenti, che alimentavano esportazione di prodotti. Il commercio coi porti del Levante dava a Genova, a Venezia, ad Amalfi, a Pisa un movimento di persone e di scambi fecondo di attività prosperose. Il Banco di San Giorgio iniziava da Genova la prima forma del biglietto cambiario, potente aiutatore della ricchezza. Dai banchieri “lombardi„ traevano i re di Francia le somme necessarie alle loro imprese militari; i Bardi e i Peruzzi prestavano ai re d'Inghilterra dei milioni pur troppo non restituiti più.

Questa agiatezza dirigeva verso i lussi educatori dell'arte e della lettura lo spirito pubblico.

Dappertutto i grandi municipii consacravano il loro superfluo – allora ne avevano – all'erezione di quei palazzi e di quelle chiese, a cui gli artisti moderni attingono ancora i più squisiti criteri del bello architettonico.

La richiesta di artefici ne stimolava il genio; e si fondavano le scuole d'arte, dove i discepoli diventavano a loro volta maestri e diffondevano per le più umili borgate d'Italia il senso delle cose belle e dei disegni eleganti. Non siamo ancora giunti al genio enciclopedico che plasmerà i grandi artisti del cinquecento, Michelangelo, Leonardo, l'Alberti. Ma il nesso fra le arti è già il culto costante e appassionato delle maggiori personalità di quel tempo. Già l'Orgagna non rifiuta di sacrificare alle Muse, fra una pittura pel Campo Santo di Pisa ed una scoltura per le nicchie di Orsanmichele. E il Giotto s'illustra col suo campanile, non meno che coi trittici sacri e col ritratto di Dante.

Parallelo all'incremento della coltura artistica viene quello della coltura letteraria e scientifica. Ormai l'intelletto italiano ha riacquistato il dominio de' suoi confini e li allarga. Le Università degli studi, già fondate un secolo prima a Napoli ed a Bologna, cominciano ad attirare i valori giovanili, fino allora sviati dalle brutalità bellicose. Dai monasteri si traggono a furia codici e classici antichi, mentre un classicismo nuovo si fonda intorno al gran triumvirato letterario, che da Firenze riempie l'Italia della sua fama.

Questa rispecchia nella triplice sua espressione il complesso dei sentimenti che si disputano il pensiero popolare italiano.

Dante mutatosi da guelfo in ghibellino, e rimasto poi tale fino alla morte, è l'uomo di parte, l'uomo d'azione per eccellenza. La patria è la sua fede, ma vuole una patria tenace e implacabile, come l'ira sua. La chiede a tutti, ma piuttosto agli imperatori che ai papi. E per quelli ha così grande indulgenza, mossa dalla speranza, che fra i tanti peccatori contro la libertà dell'Italia, da lui dannati all'inferno, dimentica il maggiore del quale non era certo perduta la memoria a' suoi tempi, Federico Barbarossa.

Il Petrarca è più guelfo che ghibellino; ciò che non gl'impedisce di accettare dai ghibellini di Milano e di Pavia la più larga ospitalità. Il suo canto è d'amore, poichè ha la vita felice quanto infelice e turbata è quella dell'Allighieri. Anch'egli ama la patria, ma colla nota della pace, invece che della guerra. Anch'egli è uomo pubblico, ma la sua indole lo porta alla politica di conciliazione piuttosto che alle lotte di parte. È un ambasciatore piuttosto che un uomo di Stato. Benevolo per gli uomini, eclettico nei sistemi politici, vorrebbe Cola di Rienzo in Roma e non vorrebbe il papa in Avignone.

Giovanni Boccaccio non è nè guelfo nè ghibellino. Rappresenta quella borghesia nuova, che alla politica crede poco, che vorrebbe dar sicurezza ai commerci, alle relazioni sociali, e trarre da quelle il fondamento di uno Stato tranquillo. La sua filosofia è piuttosto materialista; non si lascia trascinare dagli amori e dagli odî; comprende la patria, ma gli pare eccessivo che una patria debba essere un ostacolo alla felicità della vita.

In altre parole, il genio di Dante è governato dalla passione, quello del Petrarca dall'idealità, quello del Boccaccio dal gaudio. Nessuna di queste tre forme rudimentali dello spirito umano basta da sola a delineare la fisonomia d'un popolo; tutte insieme la riassumono e la completano.

La geografia non isfugge a questi impulsi di rinnovamento. Mentre Marco Polo, tratto da audacie commerciali, affronta le incognite dell'estremo Oriente, per visitare e descrivere i regni fantastici del Catai, la bussola compie la sua rivoluzione nell'arte marinaresca e Amalfi le prepara i grandi viaggiatori del secolo successivo: Colombo, Vespucci, Sebastiano Cabotto.

Contemporaneamente ai fatti ed agli studi crescono di valore gli uomini che ne trasmettono ai posteri la memoria. Il volgare illustre si sostituisce al vecchio e disadorno latino, in cui erano scritte le croniche di Landolfo e di sire Raul. Ricordano Malespini e i fratelli Villani danno qualche sapore di storia, se non di critica, alle loro narrazioni. Più alto s'erge Dino Compagni, qualunque sia la polemica che s'è fatta intorno all'opera sua. La Cronica fiorentina è già il lavoro d'un uomo di governo a cui non manca l'ingegno letterario. Si sente che il Machiavelli non è lontano.

Sventuratamente a tutto questo moto intellettuale non viene compagno un identico progresso negli ordinamenti politici. Anzi pare che qui si cammini a ritroso.

Non è che manchi all'uomo politico del '300 lo stigma della virilità. Anzi, questa può dirsi ormai perfetta nella sua manifestazione. Farinata degli Uberti, Vettor Pisani, Azzone Visconti, Ruggero di Lauria, Bonifacio VIII, il Conte Verde sono personalità di fiero metallo, atte a dominare in ogni epoca le eventualità della storia. Nota il Machiavelli, colla solita sicurezza del suo criterio, che il numero dei grandi uomini dipende quasi sempre dalla vastità degli Stati. Le occasioni di mostrare nelle cose pubbliche senno e vigoria diminuiscono man mano che gli Stati s'aumentano, assorbendone altri. Un gran popolo, raccolto ad unità politica, ha bisogno d'un minor numero d'uomini che vi rappresentino le prime parti; sicchè le facoltà umane cessano d'acuirsi intorno alle faccende di Stato, e si dilagano verso altri intenti, forse più utili ma che a minor fama conducono.

Ora, proprio la condizione opposta era quella che prevaleva in Italia nei secoli 13.º e 14.º; dove la moltiplicità dei regimi e delle signorie esigeva gran consumo di uomini pubblici, gran ressa degli intelletti intorno agli argomenti sui quali ogni forza di governo si regge.

Ma se dai tipi individuali scendiamo a considerare i criteri delle maggioranze, le impressioni a cui ubbidivano, i sentimenti dai quali erano mosse nella vita pubblica, nessun orgoglio pur troppo possiamo trarre dalla rimembranza di quei nostri antenati.

Il buon seme italico, la tradizione del valore, il disinteresse patriottico erano raccolti da alcune menti privilegiate, sollecite dell'avvenire. Ma ad ideali di questa natura non si prestavano che assai fuggevolmente i complessi politici della nazione.

Allo sforzo vigoroso sopportato per tanti anni dai Comuni, vogliosi di emancipazione civile e sociale, era succeduto un periodo di stanchezza, che produceva tumulti ma non elaborava resistenze. Gli animi erano depressi ed avevano perduta la fede. Non eccitavano più ardori le Leghe fondate per combattere nemici comuni. Al proprio nemico ciascuno si opponeva o si assoggettava da sè. Nessuno spingeva lo sguardo a confini di patria, al di là delle mura del proprio nido. L'Italia aveva ancora scatti di sdegno o fenomeni d'entusiasmo; non aveva più disegni politici o coesione d'indipendenza.

E scatto di sdegno, non altro, fu quella rivolta dei Vespri Siciliani, ond'ebbe per tanti secoli quasi usurpato onore Giovanni da Procida e vantaggio immediato la stirpe dei re d'Aragona. Fenomeno d'entusiasmo, non altro, fu quella pace giurata, fra le lacrime, da trecento mila guerrieri sui campi di Paquara; dove frate Giovanni da Vicenza precorse di oltre cinque secoli il buon parroco Lamourette, nella illusione di spegnere con cinque minuti di commozione l'incendio suscitato dall'irrompere delle passioni umane.

Queste avevano origini e radici in troppi fatti o recenti o contemporanei, perchè non fossero aizzate in Italia ad ogni turbamento di leggi morali.

La lotta aspra e implacabile fra il Papato e l'Impero, – i rancori lasciati dalla distruzione dei castelli feudali a beneficio delle città murate, – la venuta in Italia di quel primo Carlo francese che la politica pontificia chiamava contro gli Svevi, come dugent'anni dopo un altro Carlo sarebbe stato chiamato contro gli Aragonesi, – finalmente gli effetti politici e sociali lasciati in tutta Europa dalle crociate, – erano tutte cause primordiali, atte ad inoculare nel sangue italiano il lievito esclusivo della violenza.

Quindi violenti i principi nell'usurpare gli Stati, violente le congiure per rovesciarli; violenti i predicatori di scismi e di eresia; violentissimi i pontefici, che ne reprimevano colla forza e coi supplizi l'apostolato; ad ogni insidia ricorrevano i vinti, nessuna pietà frenava le reazioni dei vincitori; in Palestina s'erano cominciate le stragi benedette da fanatismo religioso, – si continuavano in Italia, dove quel fanatismo trovava rinforzo in avidità di dominio; l'uccidere non bastava più, bisognava tormentare; e un tirannello veneto, che non sfuggì alla vendetta di Dante, Ezzelino da Romano, come aveva emulato Nerone nella varietà delle torture, lo avrebbe superato ben presto nel numero dei torturati.

Che esempi, che freni potevano trarre le masse italiane da una compagine politica adagiatasi in mezzo a tali sozzure? dove avrebbero trovato la virtù di reagire contro le loro passioni, mentre alle proprie si abbandonavano con tanta impudenza i personaggi posti a capo dei governi e destinati ad essere i saggi e i prudenti nella politica italiana?

Ecco dunque il fondamento dello spirito pubblico nei secoli di cui vi discorreranno i vostri conferenzieri.

Dopo il mille, quel fondamento era stato il bisogno della libertà; e la violenza non era apparsa che il mezzo necessario per distruggere il feudalismo.

Dopo il 1200, la libertà genera i commerci e le industrie; ma la violenza rimane come la forma inspiratrice d'ogni reazione e d'ogni abuso, di principi o di moltitudini.

Due correnti prevalgono e non possono fondersi. Una spinge verso la ricchezza, verso i commerci, verso le soddisfazioni dell'arte e del sodalizio letterario; l'altra spinge alla potenza che non è fine a sè stessa, ma istromento d'arbitrii e di tirannie. Nella prima s'inalvea la vita privata, la seconda trascina la vita pubblica. La quale, inquinata in ogni sua parte da terrori o da vendette, uscita da ogni traccia di legge, divenuta asilo d'ogni turpitudine di scherani o di avventurieri,

mena gli spirti nella sua rapina


e converte due secoli di storia, pieni d'una letteratura così robusta e d'un'arte così squisita, in una specie di leggenda paurosa, che governa ancora, nei suoi apprezzamenti sull'Italia, il pregiudizio popolare europeo.

*

Ed eccovi chiara la genesi delle fazioni italiane. Queste non sorgono per fatti contemporanei, ma preesistono a quelli e costituiscono, per così dire, i quadri, entro i quali i fatti medesimi si versano e si distribuiscono.

Nel '300 in Italia si nasce faziosi, come si nasce gialli nella China o negri nel Tombuctù. La fazione si assorbe col latte materno, s'impara dal precettore. I giuochi dei fanciulli sono, come le passioni dei grandi, basati sul guerreggiar delle parti. Si può entrare e si può non entrare in un ciclo di attività politica; ma, quando vi si entra, nessuno pensa ai bisogni complessivi di un paese; l'interesse della fazione a cui si appartiene tien luogo di fede, di patriottismo, di virtù.

Vi ha detto acutamente lo scorso anno l'attuale ministro della pubblica istruzione1 che, distruggendo nelle campagne i ricoveri del feudalismo, le città trasportavano nell'interno delle mura quella guerra civile che credevano aver terminata al di fuori.

Infatti, quando posavano le guerre fra Svevi e Angioini, fra papi e imperatori, nascevano le guerre fra l'una e l'altra delle città italiane; fra Genova e Venezia, fra Pisa e Firenze, fra Modena e Bologna, fra Piacenza e Milano.

Quando fra le città s'era fatta la pace o una pace, il dissidio interno cittadino non tardava a scoppiare; dissidio tra nobili e plebei, tra governanti e governati, tra rioni occidentali e rioni orientali, tra antichi servi orgogliosi della vittoria e antichi feudali memori della sconfitta.

Se anche a siffatte querele veniva meno la materia o la lena, il bisogno di lottare sorgeva da cause minori. Si cominciava con una rivalità d'individui, si continuava coll'ostilità delle famiglie a cui questi individui appartenevano; ogni famiglia allargava le sue ire alle famiglie alleate; si finiva colla tradizionale divisione politica.

Così, e non altrimenti, nascevano le fazioni interne, che lacerarono per tanti anni le maggiori città, – i Buondelmonti e gli Uberti a Firenze, i Panciatichi e i Cancellieri a Pistoja, i Lambertazzi e i Geremei a Bologna, i Cappelletti e i Montecchi a Verona, i Beccaria ed i Langosco a Pavia, a Mantova i Bonacolsi e i Gonzaga. Su più vasto campo, e destinati a maggiori dominazioni, i Colonna e gli Orsini a Roma, i Fieschi e i Doria a Genova, i Visconti e i Torriani a Milano sono altrettante variazioni del fenomeno fondamentale.

Ricordare gli episodi da cui sorsero quelle inimicizie di carattere secolare, ci porterebbe assai lungi. Ogni cronista riporta quelli della propria città, e tali narrazioni si seguono, rassomigliandosi.

Un delitto v'è quasi sempre all'origine di queste contese; un delitto d'ambizione, più sovente un delitto d'amore.

Voi conoscete la storia delle vostre famiglie; quella giovane Donati, per cui s'accende Buondelmonte dei Buondelmonti, dimenticando il preso impegno di sposare una fanciulla degli Amedei, indi l'ira di questi, che si estende agli Uberti, antichissimi ottimati di Firenze; e il consiglio di famiglia per deliberare sulla vendetta da prendersi; e l'insidioso motto di Mosca dei Lamberti: cosa fatta, capo ha. Voi vedete di qua l'appostamento degli Uberti e degli Amedei sull'angolo settentrionale del Ponte vecchio; e il bel Buondelmonte che s'avanza d'oltr'Arno, vestito di bianco, caracollando sul bianco palafreno; e il sangue che macchia tutto quel bianco, il cadavere giovanile su cui s'accaniscono tutti quei ferri, e l'urlo di trionfo che inaugura per le vie di Firenze quarant'anni di stragi.

Dopo questa, ecco la leggenda veronese che commuove tutti i cuori sentimentali d'Europa e che risveglia, a secoli di distanza, il genio drammatico di Shakespeare e il genio musicale di Bellini.

Nè dissimile dal fatto di Giulietta e Romeo è quello che avvolge Imelda e Bonifacio nella vicina Bologna.

Imelda del Lambertazzi, giovinetta di gentili costumi, è amata alla follia da Bonifacio dei Geremei, giovanissimo egli pure ed alieno, come dice il Muzzi, dal sangue e dalla ferocia. Lungamente supplicata, riceve un giorno nelle sue camere l'innamorato. Sono spiati, denunciati e sorpresi. I fratelli d'Imelda, furenti dell'oltraggio recato alle loro casa ed alla loro sorella, si slanciano sul giovane Geremei e gli immergono nel petto uno di quei pugnali avvelenati, onde avevano tratto l'uso dai Saraceni i cavalieri crociati. Trascinatolo in un sottoscala, ivi lo abbandonano per correre ad adunar partigiani. Imelda, che al primo rumore era fuggita, ritorna, vede le traccie del sangue, le segue ed arriva al cadavere dell'amato. Alcuni ultimi sussulti di vita la muovano ad una speranza e ad un eroismo. Chinandosi sulla ferita, ne sugge, col sangue, il veleno; e le ancelle, ricercandola, trovano l'erede dei Lambertazzi, generosa suicida, sul corpo del Geremei.

La tragedia non era che incominciata. Poichè, essendosi agitato il partito di uscire in campo contro Modena e contro Forlì, si disputarono intanto i Lambertazzi e i Geremei per sapere di quale città si dovesse preparare l'assalto. E la discussione fu così viva che, per quaranta giorni, Bologna fu piena di morti e di feriti, accatastati sulle rovine delle case incendiate; e Modena e Forlì potettero stare tranquillamente a vedere quanti dei loro presunti nemici sarebbero usciti salvi dalle reciproche brutalità.

Debbo parlarvi di quella Virginia Galucci che è rapita da Alberto Cabonesi e provoca fra le due famiglie lunghissima ostilità? o di quella Bianchina Landi, che, insidiata da Galeazzo Visconti, se ne schermisce e determina fra Milano e Piacenza feroce guerra? o di quella fanciulla tedesca, scesa in Italia per le feste del Giubileo, che, oltraggiata da Bernardino dei Polenta, si uccide, e lascia in retaggio la sua vendetta a due fratelli, capitani d'una compagnia di ventura?

Tutti questi episodi non servono che a dimostrare come la materia infiammabile fosse equabilmente sparsa in tutte le contrade italiane, e come la violenza collettiva fosse dappertutto la figliazione legittima dell'eccesso individuale.

*

Forse il più fatale di questi episodi, quello che ha lasciato più lunga eredità di passioni devastatrici e provocata maggior mole di eventi intorno a sè, ha cominciato a svolgersi nella Marca Trivigiana verso gli ultimi anni del secolo duodecimo. Tisolino di Camposampiero, nobile padovano, confida ad Ezzelino, feudatario d'Onar e di Romano, la sua intenzione di dare in moglie a suo figlio la ricca ereditiera del feudo di Abano, Cecilia Ricco. Ezzelino riceve la confidenza, tradisce l'amico e fa sposare immediatamente al proprio suo figlio, l'ereditiera. Indi, le prime ire e le prime fazioni. Il figlio di Tisolino riesce a rapire l'antica sua fidanzata e rimandarla, disonorata, al marito. Questi la discaccia a sua volta, ma ritiene la dote dei castelli e dei feudi. La lotta si estende da Padova e da Treviso a Vicenza e a Verona. Prese e riprese, tutte queste città e le borgate intermedie diventano un campo di battaglia, sul quale i Romano e i Camposampiero gareggiano di furore. Le nuove generazioni ereditano gli odii e gli scopi delle generazioni antiche; quasi un secolo scorre prima che in un'ultima tragedia si spengano le antecedenti.

Ma quest'ultima tragedia soverchia in atrocità tutte quelle che il secolo permetteva. Nessuna dominazione, in nessun tempo, è stata, sui propri sudditi, così scellerata come quella che per oltre trent'anni esercitò su gran parte dell'alta Italia Ezzelino III da Romano, in cui le leggende popolari ben presto additarono l'Anticristo.

Era figlio di quell'Ezzelino che aveva sposato per forza Cecilia Ricco. Piccolo di statura, soldatesco di modi, altiero di linguaggio, terribile nello sguardo, faceva tremar tutti e nessuna cosa lo faceva tremare.

A nessun sentimento di pietà e d'affetto aveva preparata l'indole sua. Godeva del sangue e dei tormenti, come del bere o del vincere. Non conosceva l'amore; forse neanche la voluttà; e perciò, dice il Sismondi, trattava le donne colla stessa implacabile ferocia degli uomini.

Fattosi devoto stromento della politica imperiale germanica, n'ebbe ogni assenso ed ogni indulgenza a tirannide. Fabbricava carceri e demoliva palazzi; dov'egli era, uccideva; dove non era, mandava i suoi podestà a tormentare e ad uccidere. Immolava per un sospetto centinaia d'individui; se uomo o donna gli veniva in uggia, faceva sterminare quanti erano di quella famiglia; aveva quasi distrutti i Camposampiero, nemici suoi, e i Dalesmanini, suoi parenti ed amici. Non contava i nemici sul campo di battaglia, ma li contava anche meno nel consegnarli al carnefice. Per vendetta contro i loro concittadini, fece perire una volta di varie morti undicimila padovani. Spopolava letteralmente le città che governava o che conquistava; e in tutta Italia s'erano sparsi, elemosinando e imprecando, uomini ch'erano stati mutilati o storpiati o acciecati nelle sue carceri.

Contro un tiranno così straordinario si sollevarono gli animi nella Penisola, e un papa d'indole pietosa ed umana, Alessandro IV, non esitò ad impiegare contro Ezzelino III quell'arme dei tempi che era parsa efficace contro i Saraceni e contro gli Albigesi: bandì la crociata.

Fu nel marzo del 1256 che il legato del papa, arcivescovo di Ravenna, iniziò da Venezia la predicazione della crociata. Questa s'ingrossò immediatamente di tutti i capi delle città sottomesse, di tutti gli esuli di tutte le famiglie, nelle quali la crudeltà d'Ezzelino aveva fatto qualche vittima o destato qualche rancore. Azzo d'Este, signore di Ferrara, apparve il condottiero naturale di questa impresa, che la pietà aveva suggerita, che la politica consigliava, che il fanatismo spingeva contro un nemico della Chiesa e della religione.

Per tre anni durò quella lotta, che Ezzelino affrontò con grande animo e senza rallentare d'un giorno o temperare d'un grado il delirio delle sue crudeltà. S'era procurato l'alleanza di un potente signore cremonese, Buoso da Dovara e di quell'Uberto Pelavicino, che era forse il maggior personaggio di Lombardia e che, nel turbinoso andamento di quelle rivoluzioni, lasciò più d'una volta trasparire senno e vigore di uomo di Stato.

Senonchè, avendo Ezzelino trattato con ognuno dei due per disfarsi dell'altro, il pericolo comune li indusse entrambi ad abbandonare il mostro incorreggibile, unendo le loro forze a quelle della crociata.

La quale, divenuta più potente per l'accessione di Milano alla lega, strinse da vicino il tiranno, non impaurito da tanti nemici, e lo abbattè a Cassano, nella battaglia del 16 settembre 1259.

Ferito in un piede, mentre cavalcava verso la mischia, rovesciato poi in mezzo ad essa e colpito al capo da un armigero, a cui egli aveva mutilato il fratello, Ezzelino venne fatto prigioniero. Si tentò di curare le sue ferite. Ma egli, infierendo contro sè stesso colla medesima implacabilità con cui aveva infierito contro tutti, si strappò le bende dalle ferite e morì bestemmiando il cielo, come Capaneo.

Questa iliade di violenza nella gran valle del Po ha il suo riscontro, con forme diverse, nella complicata tragedia svoltasi alle falde del Vesuvio intorno a quella regina meridionale che precede di dugent'anni, pel fascino, per l'ingegno, pel delitto e pel supplizio, la regina settentrionale di Scozia.

Anche Giovanna di Napoli, come Maria Stuarda, era bella, culta, leggera, amabile ed amata. Anch'essa si trovò a sedici anni assoluta signora di un regno, disputato da selvagge ambizioni. Anch'essa ebbe, in così giovane età, un marito per cui non provava affetto e che l'assediava de' suoi sospetti coniugali e delle sue esigenze politiche.

Cortigiani e consiglieri malvagi s'affollavano intorno ad entrambi, cercando allargare a proprio vantaggio i germi della divisione. Peggiori intorno ad essa le influenze di Filippina da Catania, sua dama d'onore, e dell'imperatrice Caterina, sua zia, madre del giovane principe Luigi di Taranto, che aveva saputo entrare ben addentro nel cuore della sua reale cugina.

Della congiura che si ordisce contro il marito Andrea, figlio del re d'Ungheria, la regina di Napoli non può essere ignara. Pur l'asseconda, recandosi con parte della sua Corte ad Aversa, in solitario castello.

E lì, Giovanna è con Andrea, come Maria Stuarda sarà con Darnley, piena di tenerezze e di seduzioni. In mezzo alle quali, attirato con supposti dispacci fuor della camera nuziale, Andrea è aggredito nel prossimo corridoio dai cospiratori, strozzato con una fascia di seta e d'oro, e gettato cadavere da una finestra.

Subito il regno è scosso nelle sue fondamenta ed inondato di sangue.

Carlo di Durazzo, cognato e cugino della regina Giovanna, s'erge accusatore di lei per usurparne il trono. Il re d'Ungheria le scrive una lettera di acerba rampogna e move un esercito per vendicare il fratello. Clemente VI, memore della politica di Gregorio VII, avoca al tribunale ecclesiastico il processo della regina e manda Bertrando di Baux a raccoglierne gli elementi.

Essa, la regina, non fa che deboli sforzi per salvare dalle torture e dai supplizi i complici suoi. Forse il loro eccidio è salvezza per lei. E, mentre la sua dama d'onore muore di strazio sotto i tratti di corda, la regina Giovanna passa a seconde nozze col capo dei cospiratori, Luigi di Taranto, seppellendo sotto la brama delle nuove carezze l'ingrato rimorso delle carezze antiche.

Così Maria Stuarda offrirà pubblicamente gli attestati della sua simpatia all'assassino di suo marito, e aspetterà a stento la fine del processo per farsi rapire e sposare da lui.

Nè mancheranno ai nuovi sponsali della regina di Napoli, come non mancarono a quelli della regina di Scozia, le indulgenze pontificali. Le prepara abilmente la cessione che fa Giovanna al papa Clemente VI del suo dominio di Avignone. E la sentenza definitiva nel gran processo di Napoli constata che se la regina ha avuto parte nell'uccisione di Andrea, fu perchè non ha potuto resistere all'influenza predominante esercitata da una fattucchiera.

Si vede che l'argomento della “forza irresistibile„ non è stato inventato dagli avvocati odierni.

La regina Giovanna sopravvisse anche al secondo marito; sopravvisse al terzo che fu Giacomo d'Aragona. Sarebbe forse sopravvissuta anche al quarto, Ottone di Brunswich, se nelle guerre provocate dalla sua volubilità non fosse caduta nelle mani di un altro cugino, Carlo di Durazzo, che la fece strozzare da' suoi baroni, com'ella aveva fatto strozzare Andrea d'Ungheria, con un cordone di seta e d'oro.

*

A questa bufera, che travolge popoli e principi, città e regni, individui e famiglie, mescolando tutti in una sola e vasta nebulosa di sangue, due sole contrade italiane riescono quasi interamente a sottrarsi: Venezia e gli Stati del conte di Savoia.

Quali ragioni abbiano principalmente determinato l'indirizzo eccezionale preso da questi due regimi politici, sarebbe lungo esporre, ma non è difficile indovinare.

Così a Venezia come al piede delle valli savoiarde, la benedizione d'un governo stabile s'era potuta creare.

Nulla v'era di comune nello spirito politico dei due governi, ma ad entrambi era riuscito di evitare il periodo delle fazioni, allargando le influenze politiche, e traendo da una maggiore preoccupazione degli interessi popolari una saldezza di base che gli altri governi italiani non conoscevano.

Ho avuto l'onore, nello scorso anno, di tratteggiarvi i primi passi nella storia della dinastia di Savoia. Credo avervi detto allora, e in ogni modo mi permetto ora ripetervi, che nella lunga successione di quei conti, divenuti poi duchi, e quindi re, i critici più acerbi non hanno potuto scovare nè un tiranno nè un vile.

Stonava talmente questa tradizione dinastica coll'esempio di tutte le dominazioni finitime, che la legge storica italiana a poco a poco venne ivi mutando. Passato il primo periodo delle franchigie comunali, succedute al potere vescovile, lo sminuzzamento politico si fermò presto. Ben tennero dominio su parecchie città piemontesi gli Angioini, venuti a combattere la casa Sveva. E parecchie contese trassero in campo, durante il secolo XIII, le due potenti famiglie dei Saluzzo e dei Monferrato. Ma il fenomeno delle città divise in due parti, delle vicendevoli distruzioni e dei deliri di sangue, fu in tutte quelle contrade immensamente minore.

Un influsso di moderazione e di giustizia partiva dalla casa di Savoia, la più potente di tutte. Per le loro guerre, per le loro alleanze di famiglia, pei loro arbitrati, i principi di quella Casa s'erano acquistati un prestigio, di cui non usavano mai per iscopi ingiusti o colpevoli.

L'indole mite e previdente della loro politica faceva sì che nessuna città nuovamente venuta sotto il loro dominio pensasse più a scuoterlo, per affrontare le paurose eventualità di altri regimi. Così non sorgevano occasioni di violenza, i rancori tradizionali si venivano spegnendo nella comune prosperità; lo Stato fondato da Umberto Biancamano sempre più si aumentava di gente spossata dalle guerre civili, e che, adagiata in nuove tranquillità, vedeva da lungi riardere quelle fiamme e rincrudir quelle stragi, alle quali un'amica fortuna l'aveva finalmente sottratta.

Questo spiega come nel secolo XIV appaia già con impronta di Stato moderno quel complesso di dominii, sfuggito al disastroso periodo delle fazioni italiane, e che, con Amedeo V, e più ancora con Amedeo VI, il Conte Verde, vanta un sovrano civile, così dissimile da tutti gli altri principotti della penisola.

Valoroso in Oriente come in Occidente, fortunato innovatore nelle arti della guerra come in quelle della pace, fondatore dell'Ordine dell'Annunziata e autorevole pacificatore delle due Repubbliche di Genova e di Venezia, il Conte Verde brilla fra i personaggi del suo tempo come un precursore di civiltà. Sessant'anni dovranno ancora passare, prima che nel resto d'Italia sorgano due usurpatori di Stati, Francesco Sforza e Cosimo de' Medici, a creare una forma di monarchia civile e durevole. Egli, non usurpatore, ma legittimo principe, precede ogni altro nell'esempio e nell'effetto. Egli solo, nel tempo suo, può dire di avere un dominio basato sull'amore dei sudditi. Le altre signorie italiane si reggono ancora dappertutto sul terrore dei conquistati.

All'opposta estremità della gran valle padana fiorisce l'altra potenza, che si stacca, con sufficiente fortuna, dalla solidarietà delle fazioni italiane.

Di Venezia e delle sue condizioni vi parlerà, con assai maggiore competenza di me, un altro dei vostri conferenzieri. Ciò che solo importa al mio tema è l'attitudine dello spirito pubblico, venutosi educando a forme di pensiero e di manifestazione, affatto diverse da quelle che prevalevano nelle altre parti d'Italia.

Nata sul mare e pel mare, Venezia aveva dovuto coordinare le proprie istituzioni agli speciali bisogni della sua igiene idraulica.

Mentre le valli piemontesi avevano cercato in un principato militare ereditario le guarentigie della loro tranquillità, Venezia le aveva cercate, e per molti secoli ottenute, da un ordinamento a Repubblica commerciale. La casa di Savoia entrava con prudenza nelle questioni italiane, tratta dalla necessità di difendersi contro invasioni oltramontane, o assorbimenti di ambizioni limitrofe. Venezia, non minacciata da siffatti pericoli, cresceva per altre vie; approfittava di errori, che non potevano investirla; costeggiava la politica italiana, senza tuffarvisi.

Le crociate, che erano state per tanti governi causa di rivoluzioni politiche e d'impoverimenti economici, avevano aumentata la sua influenza e la sua ricchezza.

Certo, d'allora le si era schierata contro una potente rivalità marittima, quella di Genova, a cui sapeva male che Venezia avesse tratto dai trasporti marittimi delle prime crociate occasione ad occupazioni d'indole militare, in Dalmazia e in Oriente.

Ma, chetata quella guerra, la Repubblica veneta aveva ripreso le sue attività commerciali e allargate le sue relazioni con tutto il mondo conosciuto. Ben è vero che, dal giorno in cui si mescolarono alle sue tradizioni d'affari interessi d'indole militare, una modificazione aristocratica ne' suoi ordini di governo apparve inevitabile. Già verso la fine del duodecimo secolo, l'elezione dei Dogi era stata levata all'assemblea popolare e trasferita ad un Consiglio di ottimati. Poi, al Consiglio stesso fu data facoltà di eleggere i propri componenti. E finalmente, nel 1297, il doge Gradenigo compiè la Serrata del Gran Consiglio, limitando il diritto di sedervi ai discendenti di quelle sole famiglie che vi avevano avuto fino allora dei rappresentanti.

Questa, che fu una vera rivoluzione aristocratica nel reggimento veneto, provocò immediate resistenze e pochi anni dopo la famosa congiura di Bajamonte Tiepolo. Il governo represse facilmente le prime e punì la seconda, con nessun altro frutto che di dare carattere ancor più chiuso all'istituzione repubblicana, mediante la creazione del terribile tribunale dei Dieci.

Ma, per quanto Giuseppe Ferrari si sforzi di vedere anche in questi fatti la ripetizione dello svolgimento tradizionale italiano, dei comuni, dei tiranni e delle signorie, è facile persuadersi che se violenze sono, sono violenze informate a tutt'altro tipo.

Gli episodi veneti sono d'indole essenzialmente politica; e di una politica a lunghe previsioni, affatto diversa dai moti personali e sussultorii che agitavano in quegli anni medesimi le contrade di terraferma. Bajamonte Tiepolo non è un fazioso come il conte Lando o Lodrisio Visconti; è un rivoluzionario democratico, che vuole ricuperare, non a sè stesso, ma al popolo diritti organici di reggimento politico. Il Gradenigo non è un tiranno come il conte Ugolino o Ezzelino da Romano; è un uomo politico, che determina nella Costituzione dello Stato un nuovo periodo storico, – che può ingannarsi nell'apprezzamento di questa necessità, ma che ha per fine supremo di raggiungere, attraverso temporanee contese, durevoli prosperità.

E che il riformatore aristocratico non si fosse interamente ingannato sembrerebbe dimostrarlo la tranquillità politica goduta da Venezia durante quel secolo XIV rigato di tanto sangue in tutti gli altri Stati d'Italia. Poichè la congiura e il supplizio del doge Marin Faliero non rivelano commozioni di ordine pubblico, ma sono il portato di una vendetta individuale per oltraggi che in tutte le epoche e presso tutte le nazioni si sogliono lavare col sangue.

Certo, il 1300 è l'ultimo secolo, per Venezia, di un'esistenza sicura e di una politica indipendente. Ma il mutamento in essa avvenuto non dipende da influenza di fazioni, se pur può dipendere indirettamente dalla riforma del Gradenigo.

È che nel secolo successivo Venezia si lascia sedurre dal miraggio delle ambizioni territoriali; è che, abbandonando l'antica orientazione politica, si volge a cercarne una nuova attraverso le mutabili combinazioni dei governi europei; è che il berretto ducale cade sul capo di quell'irrequieto megalomane che fu Francesco Foscari, del quale indarno il buon Mocenigo aveva pronosticati gli errori, e al quale Venezia deve il primo passo sopra una via di mendaci grandezze e d'insanabile decadenza.

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V'è ad ogni modo un nesso storico, che, se non per le cause, avvince a sè pei nomi tutti quei fenomeni di guerra e di rivalità dovunque prodotti.

Per dugent'anni almeno, e se dicessi trecento forse non esagererei, la storia d'Italia è dominata, corrotta, avvelenata da un dualismo fondamentale le di cui origini sono misteriose, indeterminata la fine, il dualismo fra i Guelfi e i Ghibellini.

Le contese possono nascere per qualsivoglia ragione, svolgersi in qualsivoglia ambiente, proporsi qualunque scopo, qualunque interesse, – finiscono per esser classificate secondo una di queste due parole. Uomini, regimi, passioni, delitti, benefizi, non isfuggono a questa alternativa; avranno carattere guelfo o carattere ghibellino. Uno scrittore sarà guelfo, un altro ghibellino. E il senso morale andrà così traviato da queste mistiche nomenclature, che agli occhi dei Guelfi come a quelli dei Ghibellini parranno virtù od eroismi i misfatti compiuti a danno della parte contraria.

Come e quando siano stati veramente applicati questi due nomi alla varietà delle discordie italiane, non è ben chiaro.

L'ipotesi più verosimile è che venissero d'Alemagna; dove, nel castello di Weiblingen, era nato Corrado il Salico, antenato degli imperatori di casa Sveva; mentre i Welf, di Baviera, e imparentati colla casa d'Este, avevano disputato nientemeno che a Federico II la corona imperiale.

Forse quella divisione germanica scese in Italia appunto coi primi eserciti condottivi da Federico II. E l'attitudine ostile da lui presa forzatamente contro i pontefici, unita alle terribili memorie lasciate in Italia dall'antenato suo Barbarossa, diede subito al dualismo italiano un carattere che certo non aveva il dualismo tedesco; cioè un'impronta quasi di libertà nazionali sotto gli auspici dei papi alla parte guelfa; un'aspirazione di potere dispotico, sorretto dagl'imperatori stranieri, alla parte ghibellina.

Verso la metà del secolo XIII cominciano i cronisti italiani a trovare in questo dualismo la ragione storica degli avvenimenti che espongono: ed è già cominciato il 1500 che ancora in alcuni paesi italiani, come a Milano, il nome dei guelfi e dei ghibellini è attribuito a personaggi contemporanei.

Nulla v'era di meno stabile di queste classificazioni, città e famiglie passavano, secondo la logica degli interessi, dall'una fazione all'altra o ritornavano alla fazione antica. Dante, come già dissi, era uscito da un ambiente guelfo per entrare nella politica ghibellina. Uberto Pelavicino, ghibellino fierissimo, s'era inscritto nella crociata guelfa, per combattere gli Ezzelini. Lo stesso Federico II, il prototipo del ghibellinismo, aveva cominciato il suo regno, difendendo il pontefice contro le pretese di Ottone IV.

Nondimeno, nelle sue grandi linee, la divisione politica fondamentale rimane in Italia impersonata dai Guelfi, di simpatie pontificie, e dai Ghibellini, di simpatie imperiali. Così gli antipapi son ghibellini, sono guelfi ordinariamente gli antimperatori. Le guerre di Stati, di città, di famiglie finiscono per assumere una di queste denominazioni, per la necessità di trovare alleanze e solidarietà. Col tempo le prime ragioni spariscono, i fatti nuovi fanno dimenticare gli antichi. Ma le denominazioni rimangono, come bandiere di lotta, se non come vincolo di opinioni.

L'uomo, e specialmente l'uomo italiano, è cosiffatto che ama nascondere sotto una rigida differenza di parole la sconfinata elasticità del suo pensiero politico.

Questo era vero nel 1300 e nel 1400 come è vero nel 1891.

Probabilmente al nome di guelfi e di ghibellini s'erano acconciate le popolazioni italiane quando un po' di fede le animava a sostegno dell'una causa o dell'altra, e per questa fede si sapeva combattere e morire.

Ma, sopravvenuti gli scetticismi politici del Rinascimento, e sostituito nella vita pubblica il concetto utilitario alla lotta di parte, quelle denominazioni di un antico dualismo dovettero parere alle masse popolari italiane una specie di sciarada storica che non cercavano di approfondire.

E certo gli scrittori politici dovettero continuare, per abitudine, l'uso di siffatte denominazioni, assai tempo dopo che ogni caratteristica di guelfi o di ghibellini era scomparsa dalla fisonomia delle cose e delle persone.

Come accade – lasciatemelo dire – a parecchi pubblicisti moderni, i quali traggono da un antico dualismo di Destra e di Sinistra criteri offuscatori di una situazione politica, sfuggita di sotto a quei nomi, e intonata a forme nuove di pensiero e di avvenire.

Chi dice uomo dice dissidio; e non può essere che transitoria, come la pace di Paquara o il baiser Lamourette, una fase di unanimità. Però il progresso morale influisce su questa legge umana in due modi: temperandone le asprezze personali e sostituendo intenti elevati a passioni volgari.

Ho dovuto richiamarvi, per la necessità del mio tema, a pagine dolorose del nostro passato, e forse dovrei chiudere, come il Prati:

Se iniqua storia vi raccontai,

Quello ch'è storia non cangia mai.


La nostra generazione però ha cambiato anche la storia, ed ha fatto dell'Italia un paese, che pochi pensatori avevano desiderato, che nessuna moltitudine aveva sognato mai.

Ora, neanche in questa nuova condizione di cose, il dissidio storico mancherà. Dirò di più, non è desiderabile che manchi; perchè le unanimità sono più spesso sintomo di paura che di pensiero.

Solamente, bisogna augurarsi che, spazzando il terreno di guelfi e di ghibellini, come lo spazzeremo certo di destra e di sinistra, il dissidio ricompaia sopra questioni di più preciso significato; che si allarghi a più vaste intuizioni di bisogni futuri; e che si manifesti con una vigorosa emulazione nel bene, dopo averci per tanti secoli ballottati fra il male d'un giorno ed il peggio del giorno dopo.

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Pasquale Villari.

La vita italiana nel Trecento

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