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LE LETTURE FIORENTINE SU LA VITA ITALIANA NEL TRECENTO
II

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Confesso che non ho mai salito senza paura una cattedra e che appunto per questo, ho sempre proseguito con la mia ammirazione quanti hanno codesto eroico coraggio. Meglio parlare alle turbe in un comizio di disoccupati, giacchè, predicando l'anarchia, si deve cominciare da quella della grammatica. Meglio ascendere su d'un pulpito e recitare omelie e panegirici: ci son tanti squarci d'eloquenza da tradurre e da mandare a memoria! Meglio ancora salire in una bigoncia accademica avendo intorno e dinanzi un uditorio, cui le viete eleganze ipnotizzano e, mansuefatto, addormentano. Secondo me, non ha tutti i torti un mio amico, professore e accademico illustre, che fin qui non ha voluto piegarsi a parlare ad un pubblico femminile, ma deve fare onorevole ammenda se ha lontanamente pensato alle elette uditrici del palazzo Ginori, che alla dirittura del giudizio uniscono ogni più sottile squisitezza di gusto e di sentire.

Ascoltarono con profonda attenzione le letture del Bonfadini sulle Fazioni, del Bertolini su Roma e il Papato, e di Augusto Franchetti sulle Signorie e le compagnie di ventura; non batterono palpebra udendo la splendida e perspicua esposizione che Pio Rajna fece della Genesi della Divina Commedia; ammiraron plaudenti le pagine magistrali che Isidoro Del Lungo lesse intorno a Dante nel suo poema; manifestarono tutto il loro entusiasmo, quando Enrico Nencioni fece vibrare ne' loro animi gentili le corde più delicate del sentimento, parlando della Letteratura mistica nei secoli XIII e XIV.

Romualdo Bonfadini è certamente uno dei più valorosi artisti della parola, e le conferenze fiorentine non potevano esser meglio inaugurate. Il facondo conferenziere fu salutato al suo apparire da un fremito di simpatia, che alla fine d'una dotta e magistrale improvvisazione si mutò in un applauso di ammirazione e di ringraziamento. Sarebbe superfluo altresì riepilogare la lettura dell'illustre Francesco Bertolini, il cui nome è promessa mantenuta di profondità di pensiero e d'eleganza di forma. Questi i due primi conferenzieri, nei quali ognuno riconosce che le qualità preclarissime dell'ingegno sono pari alla fama; poichè i dicitori che la Società Fiorentina raccoglie intorno a sè debbono tutti esser già noti e pregiati dal pubblico, non trattandosi di creare riputazioni campanilesche, ma d'invitare quanti hanno nome di oratori valenti, quanti hanno autorità riconosciute per trattare questo o quel dato argomento. Ma non ci dilungheremo in elogi che potrebbero sembrare superflui. Meglio presentare ai lettori il profilo dei conferenzieri, còlto dal vero da un valente artista quand'eran sulla cattedra; che tentare di parlare dei loro meriti.

Augusto Franchetti, la cui testa va prendendo il colore dell'avorio antico, mentre la barba già nera comincia a inzuccherarsi, è un uomo di elettissimi studi e d'acutissimo ingegno. È avvocato, professore, o meglio libero docente di storia moderna all'Istituto di Studi superiori, insegnante a quello di Scienze sociali intitolato al nome di Cesare Alfieri, accademico della Crusca, segretario della Società dantesca italiana, consigliere del Comune e socio di non so quante altre accademie e sodalizi, alle cui adunanze giunge sempre… desideratissimo. Fra un processo verbale e un'interpellanza, tra una lezione e una relazione accademica, traduce l'Aristofane, scrive una rivista bibliografica o una rassegna drammatica per la Nuova Antologia, minuta una lettera per alcuna delle sue Società, arrotola la quarantesima sigaretta della giornata e, alle volte, si lascia andare ad un di quei brevi riposi che pur son necessari ad una esistenza così afflitta dalle pubbliche cure.

Amico zelantissimo, in tutta questa farraggine di faccende trova ancor tempo di ricordarsi dei molti che gli vogliono bene e di far la sua quotidiana passeggiata pedestre al Viale dei Colli, a tu per tu con qualche libro di scienza. La sua lettura sulle Signorie e compagnie di ventura, che dovè preparare in brevissimo tempo, diè prova dell'erudizione ond'è soppannato, e fu notevolissima per la nova maniera d'illustrare i fatti della storia con documenti della letteratura a quelli contemporanea; onde i versi di Dante, del Petrarca, del Saviozzo senese e d'Antonio Pucci davan luce e vita al racconto, mentre passi e luoghi tolti ai prosatori del tempo a quello aggiungevano forza ed evidenza.

Pio Rajna che successe al Franchetti, e il 21 di marzo risalì quella cattedra da cui l'anno decorso raccolse così largo tributo di applausi, è nome meritamente caro ed illustre in Italia e fuori. In lui la profonda dottrina è come irradiata dalla perspicuità della mente, e la sincerità scientifica, ond'è osservante fino allo scrupolo, aggiunge alle sue parole il fascino e lo splendore del vero. La lettura ch'ei fece sulla Genesi della Divina Commedia, ricercando nell'animo di Dante e negli elementi esteriori, quanto potè ispirare l'altissimo concetto, fu tra le più belle e originali di questa serie, e piacque all'eletto uditorio per la novità della ricerca e per la lucidità della forma.

Dante ha avuto un altro insigne illustratore in Isidoro Del Lungo, di cui tutti conoscono e pregiano le benemerenze verso la nostra antica letteratura. Il Del Lungo pare anch'oggi, a chi lo guardi, un uomo antico travestito co' panni moderni. Certo, gli starebbe meglio addosso il lucco scarlatto, e in capo il cappuccio o il mazzocchio de' nostri bisavoli; perchè egli è un uomo tutto di un pezzo, che deve trovarsi quasi a disagio in mezzo a questa modernità pettegola e piccina. In ogni sua cosa mette una parte di sè, e la migliore: fu maestro, professore di belle lettere in più di un Liceo del regno, e tutti i discepoli suoi ricordano con affetto riverente l'amore ch'egli metteva nel farli partecipi della sua ammirazione per le più elette pagine dei nostri classici. Passato all'Accademia, a quella buona e vecchia Accademia della Crusca, – quella povera vecchia come la chiamava il Mamiani – sfogò la sua idealità nelle fitte colonne del Vocabolario, e consacrò gli anni migliori nello studio de' tempi di Dante e di Dino Compagni. Lavorò con la coscienza d'un galantuomo e con la sincerità d'uno scienziato moderno, tutto in sè raccolto, sordo alle punzecchiature, ai sarcasmi, alle invettive. E dopo molti anni di ostinata pazienza, ebbe l'intima soddisfazione di veder ricredere molti scettici e di comporre al suo Dino un piedistallo glorioso di documenti inoppugnabili. L'onestà letteraria, che accompagna in lui quella di cittadino, di maestro e di scrittore, ebbe il meritato tributo di plausi e di ammirazioni sincere. Ormai nessuno dubita più della autenticità della Cronica di Dino Compagni; ormai nessuno oserebbe affermare ch'egli, il critico illustre, non sia quasi un testimone vivente di quei tempi immortali. Dante ha trovato in lui un interprete fedele ed eloquente. Ond'io vi lascio immaginare quale profonda impressione facesse nell'animo degli uditori la sua lettura veramente ispirata. Disse cose e non parole, e le cose peregrine che gli usciron dal labbro rivestì d'una forma impeccabile, leggendo con un magistero di dizione che tutti gl'invidiano, con quel calore che può dare soltanto il convincimento del vero.

Non fo il cronista di queste letture, che stampate correranno, come le precedenti, per le mani di tutti. Mi piace ricordare, dar libero sfogo a quel po' d'entusiasmo sincero che tutti abbiamo nei fondacci della coscienza. Lasciate dunque che senza tema di sembrare parziale vi dica della conferenza d'Enrico Nencioni sulla Letteratura mistica nel secoli XIII e XIV, compendiando il mio giudizio in brevi parole. Il Nencioni, esperto dell'arte difficilissima di commuovere un uditorio femminile, ebbe un grande e meritato trionfo. Egli conosce tutti i punti, tutte le delicatezze del sentimento, e fu pari all'aspettativa che di lui si aveva grandissima; anzi, ardisco dirlo, la superò. Enrico Nencioni è poeta anche in prosa: ogni frase, ogni periodo che lesse giungeva diritto alla meta e sapeva commuovere. Lesse con quella sua voce velata che sfugge gli effetti volgari e sottolinea ogni parola, e d'ogni parola ogni sillaba. Raffrontò l'antico all'odierno, ebbe lampi di humour felicissimi, fu convincente, patetico, ironico, sublime. Parrà ch'io abbia usurpato il mestiere ad un giornalista teatrale che voglia patrocinare una vecchia abbonata, una egeria della propria agenzia. Invece io esprimo in disadorne parole quanto provarono gli ascoltatori devoti di quella lettura, che salutarono l'oratore con un applauso caldo, pieno di commozione sincera. Enrico Nencioni sentì profondamente il soggetto che prese a trattare. E questo è ancor sempre il vecchio segreto per commuovere; è l'oraziano si vis me flere dolendum est primum ipsi tibi.

E, per una volta tanto, mi si passi la citazione latina.

La vita italiana nel Trecento

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