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CAPITOLO XIII.
Me prigioniero.

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Ora eccomi prigioniero di guerra. Mi condussero in una casa da paesani isolata, e lungo il cammino feci penitenza cedendo l'orologio, la borsa e l'anello d'oro che portavo, memoria della Giulietta.

Un capitano, che stava trincando e scuffiando a due palmenti con diversi ufficiali in essa casa, mi domandò qual fosse il mio grado, dopo che fu narrato come qualmente io aveva inseguito i cacciatori fino nel campo. Cosa rispondere? Capellano? maestro d'arti? dottore in filosofia? M'avrebbero riso sul muso. Carlomagno non m'avea sollevato al grado d'ajutante generale? Senz'esitare adunque risposi: — Ajutante generale.»

L'abito fa il monaco; ed anche i titoli. Mi fecero prender posto a tavola; c'era dell'arrosto rifreddo, del malaga, fior di rosolio; il capitano mi drizzò parole di consolazione sul caso mio: — È il destino della guerra. Cinquant'anni fa voi avevate Federico il Grande, e a noi toccò Rosbach; oggi noi abbiamo Napoleone il Grande, e a voi tocca Jena.»

Gli uffiziali montarono a cavallo, ed io fui messo in arresto nel campo. Il brivido della paura non m'era passato ancora, onde il trovar fuoco al corpo di guardia mi tornò da morte a vita.

Che ne sarà del tenente Leonida e de' suoi magnanimi? che sarà divenuta la regina Elisabetta col suo barile traforato? che diverrò io stesso?

Questi pensieri m'invadevano lo spinto. M'era stato detto che sarei condotto a Francoforte sull'Oder, e che là mi unirei ad un convoglio di prigionieri per la Francia. Offrii di giurare sull'onor mio che non porterei più le armi contro sua Maestà Imperiale e Reale l'Imperatore de' Francesi, ma l'offerta non era stata accettata dal capitano, il quale diceva che la mia sorte doveva essere decisa dalle autorità superiori.

Eccoti dunque destinato per la Francia, povero dottore per esservi inchiodato in una fortezza. Deh come tutto in un lampo si cangiò! Quando stavi assettato nella tua soffitta da poeta, girando gli occhi sopra i tetti vicini; quando leggevi Plutarco o la gazzetta, tirando quietamente una presa di tabacco, che cosa mai poteva turbare la tua pace? Poi finita la giornata, date le lezioni, tu andavi a fianco della tua Giulietta, a ragionar con lei delle speranze e dell'avvenire, o nella tua poetica solitudine scrivevi nuovi cantici guerrieri.

A ciò mi corsero in mente gl'inni delle vittorie prussiane, che tenevo sempre in tasca: onde cacciai a mano lo scartafaccio, mi guardai attorno per vedere se ero osservato, e lo gettai sul fuoco. Canti di trionfo, canti pieni di rabbia e di spregio contro Napoleone e gli eserciti suoi, poteano nella mia prigionia costarmi nientemeno che la pelle. Dunque li vidi perir tra le fiamme, quasi col piacere stesso onde, in momenti più felici, io gli aveva partoriti. Nè la mia gioja fu sminuita per avere nella furia gettata con loro anche la mia nomina di capellano.

Alcuni soldati mi s'accostarono ben tosto; quelli appunto che mi avevano fatto cascar di cavallo, e mi domandarono: — Cosa bruciate costì furtivamente?» e parlavano di spionaggio, di moschettare. Io, imbarazzato a rispondere, davo cartacce, il che non migliorò la mia situazione. Que' mariuoli, me n'accorsi ben io, cercavano di attaccar bega; m'insultarono, mi condussero in una camera del corpo di guardia, ove dovetti deporre la giubba e gli stivali; essi se li presero e via, nè più rividi i mariuoli nè la giubba.

Fuori pel giorno fui interrogato molte volte sulle carte bruciate; e perchè io stava sul tirato, sostenendo che erano miserie, carte di famiglia, lettere private, fui condotto al quartier generale da due uomini, che in mia presenza caricarono il fucile.

Senza giubba, mal in arnese, e in una giornata brusca d'ottobre, dovetti seguitar le mie guardie per una passeggiata di tre ore. Impillaccherato, stracciato, mezzo svestito, stavo peggio d'un pitocco, perchè non aveva la mia libertà: anzi la mia vita stessa non valeva in quel punto cinque soldi, perchè i Francesi in campagna amano i processi spicciativi. Un povero diavolo accusato di spionaggio essi l'impiccano e lo fucilano caldo caldo, senza curare s'egli se l'abbia a male.

Racconti storici e morali

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