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CAPITOLO XVI.
Questi furo gli estremi onor renduti
Al domatore di cavalli.

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Senza guardarmi ai piedi, corsi per forse un'ora a rotta di collo, poi sfiatato m'accôrsi d'aver lasciate le strette e miserabili callaje de' sobborghi: una sabbietta copriva la strada sotto gli stanchi miei piedi: intorno a me nell'oscurità si stendeva un bosco di pini, e sovra il mio capo la luna inargentata scintillava attraverso le nubi.

Trovai la situazione mia poeticissima: eppure, che volete? una prosaica cena presso una cuccetta di paglia non mi sarebbe dispiaciuta.

Ed ora che fare? ove drizzarsi? Io non sapeva cosa rispondere a queste mie domande. La fame non si fa mai sentire così viva come quando non si sa come calmarla: nè la vita è mai sì cara come nel momento che è in pericolo. Questi tristi pensieri ingombravano il mio spirito; onde rimisi in moto i miei piedi a benefizio di fortuna, curioso di sapere cosa diverrei, e dove infine mi condurrebbe la mia sorte avversa.

Sentii cani abbajare; qualche lume mi apparve da lontano, alla cui scorta arrivai spedato ad un villaggio. Innanzi all'osteria stava un carozzino di posta a tiro a due, voltato proprio verso la direzione ch'io intendeva seguire. Guardai attorno: il sottopiede dietro al cocchio non aveva nulla che mi impedisse di accomodarvimi d'incanto, e di attaccar un sonnellino intanto che la vettura mi trascinerebbe lontano assai. Il padrone era ancora nell'osteria: io, cercandomi nelle tasche, non mi trovai allato nemmeno la croce d'un quattrino: eppure avrei comprato sì volentieri una pagnottina, perchè la vedevo in aria. In qualità d'uffiziale non potevo batter l'accattolica; potevo bensì goder a isonne mettendo a contribuzione: onde risolsi di tentare la fortuna, ed entrai nella casa.

Sopra un truogolo di avena erano posati un cappello rotondo, un palandrane ed un frustino. Risoluto di cavarne le mani dal mestiero dell'armi, senza esitare gettai in là il mio cappello gallonato, deposi la giubba turchina sull'avena, e presi il palandrano: se avessi avuto la sciabola, di tutto cuore l'avrei barattata col frustino, che non ostante presi in mano per sicurezza, se non altro, contro i bottoli del villaggio. Non occorre dire che in tale arnese non potevo più pensare a cenar in quella casa onde attaccai la voglia ad un arpione: ma andava in solluchero pensando che ormai potrei viaggiare incognito tra mezzo ai Francesi.

Stavo ancor ritto e fermo come un termine a piè dell'uscio, cercando cogli occhi un cantuccio, dove ripormi ad agguatar la vettura, che non la se ne andasse senza me, quando a un tratto una voce francese mi sonò dietro, che fece su me l'effetto di un fulmine. — Andiamo, ghiotto; lesto, andiamo,» gridò il Francese, che mi aveva tolto pel suo cocchiere, lo rimaneva lì intra due di cascar morto, o di darla alle gambe come un ladro: ma il Francese non voleva nè l'uno nè l'altro: e ghermitomi pel colletto con una forza prodigiosa, mi trasse presso il cocchio, e mi intronò nell'orecchio: Sitzen dich auf: poi balzando egli stesso nella carrozza, aggiunse: — Presto, frusta; avanti.»

Alla buon'ora: pensai io nel sedermi sulla cassetta: e sferzando i cavalli uscimmo dal villaggio, tirando via di pratica.

Racconti storici e morali

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