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CAPITOLO XX.
E qui finì la dolorosa storia.

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Ci fermammo a fare un boccon di colazione in un albergo, poco lontano dal luogo ove la madre di Giulietta abitava. Là un bravo rasojo cancellò le ultime vestigia del mio grado d'ajutante generale.

Giulietta mi comprò una bella giubba e un cappello, sicchè potei risalire il cocchio rinfronzito, e in un arnese più degno d'una bella giovinetta elegantemente vestita, e seguitammo la strada. Il sole ci saettava co' suoi raggi, e il cuor nostro non era men giulivo che tutta la natura. Da un pezzo erano state fatte le nostre pubblicazioni, sicchè nulla più impediva di sposarci; e ben tosto ci accordammo sul giorno.

Nel frattempo io doveva scrivere a Francoforte per informarmi del conte dell'impero e della capellania cui dovevo essere nominato, benchè avessi bruciato la mia vocazione nel campo, insieme co' miei pindarici canti di trionfo. Giulietta aveva messo da banda cento talleri fumanti, che, a buoni conti, erano un bel principio. E poi, se la sventura ci bersagliava, io poteva rizzar una scoletta; pane e acqua, noi lo sentivamo, poteano bastare e anche troppo alla nostra felicità, purchè non fossimo l'un dall'altro separati.

Mentre così abbellivamo la nostra povertà, Giulietta coll'immaginare de' pasti economici, io parlando sul mio zelo come maestro di scuola, un tintinno si fece sentire al fondo della vettura, come se qualche cosa ne cascasse ai piedi. Cercammo, ed era un marengo d'oro lampante.

— T'è cascato a te?» chiesi alla Giulietta.

— A me no: io non ne ho dell'oro», mi rispose ella.

Prendemmo questo amabile dono come un avanzo del signor impiegato. Ma un momento dopo non rotola un altro marengo a' nostri piedi?

— Da senno (diss'io) noi abbiamo qualche buon genio, o qualche fata benigna, che intese la nostra conversazione.»

Allungai le mestole a levar anche questo; cercai minutamente se non avesse altri compagni, ma non trovai nulla, il che m'increbbe al cuore.

Ma a poco andare, il fenomeno si rinnovò per la terza volta.

— Cattadedina, questo non viene dalla vettura!» gridai io, e rattenni i cavalli.

Allora un quarto ruspo d'oro brillò a' miei occhi, traverso una sfenditura del cofano, su cui stavamo seduti. La fonte aurea era dunque scoperta. Forzai il cofano, e trovai che, quel che dapprima avevo creduto il tintinno d'una catena, era un rotolo di marenghi che si era sgruppato, e presso a quello un sacchetto d'argento meglio chiuso.

In che modo il mio impiegato fosse divenuto possessore di questo tesoro, io nol so; e, appartenesse a lui o ad altri, poco m'importava. Ma sì io, sì Giulietta conoscemmo che questa somma era troppo considerevole pei nostri modesti desiderj; nè potevamo tenercela in coscienza. Riponemmo dunque i tre marenghi presso gli altri, rinserrammo il cassetto, e toccammo innanzi come se nulla fosse accaduto.

La vecchia madre di Giulietta, contentona di abbracciarci, ne ricevette con mille benedizioni. Il nostro tesoro fu dato a lei in deposito; ma, per quanti avvisi io facessi affigere sui cantoni e sulle gazzette, mesi e mesi passarono senza che alcuno comparisse a reclamare sia il cavallo e il calesso, sia il denaro.

Al termine dunque delle avventure mie, rimasi più ricco che mai non l'avessi sperato, e con Giulietta per moglie.

Mandai al mio amico di Berlino un lauto compenso per quella tal vettura che il signor Maggiore, m'avea menata via, senza tanti complimenti: rinunziai alla cura d'anime; una bella campagna, in situazione deliziosa, e all'ombra di tigli e di castani, una casetta grande abbastanza per Giulietta, sua madre e me, ecco il mio paradiso.

1845.

Racconti storici e morali

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