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CAPO II.
Fu il ciel che delle lettere il conforto
Certo inventò.

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Così pensando e ruminando, non avea che finito di vestirmi, quando sento bussare alla mia porta; entra il postino, e mi rimette una lettera, ma molto grossa, che costava niente meno che trenta soldi. Prezzo enorme per la borsa avizzita d'un teologhetto!

Abbandonatomi sul seggiolone, stetti un buon quarto d'ora esaminando la soprascritta e il suggello, strologando da chi mi venisse.

Io ci ho un gusto matto a far così per combattere la mia curiosità; e poi ghiribizzare co' più bei castelli in aria sul contenuto della lettera.

Oggi poi la questione era se aprirla subito o aspettare domani. Non volevo mettermi a rischio di leggere forse notizie sinistre, proprio il mio giorno natalizio: sarebbe stato un cattivo pronostico per tutto l'anno. L'infelice è superstizioso.

Tirai le buschette, e la sorte decise pel no. Cattivo segno! ma la mia curiosità, animata da eroico coraggio, scosse il giogo della sorte e delle ubbie; il suggello fu rotto, — lessi, ed i miei occhi s'empirono di lacrime.

Dovetti deporre la lettera per calmarmi alquanto poi la rilessi. O provvidenza eterna! o mia Giulietta! — strinsi al cuore la lettera, mi posi in ginocchio colla fronte sino a terra, e sparsi le prime lacrime di gioja che avessi versate in vita mia, ringraziando l'Onnipotente della sua bontà.

La lettera veniva dal mio unico protettore, un negoziante di Francoforte sul Meno, nella cui famiglia ero vissuto un pezzo come precettore. Per un caso... No: dove c'è Dio non c'è caso!... Basta: per interposto del mio mecenate, io era chiamato come capellano nelle terre d'un conte dell'impero, ricco sfondato, con settecento scudi di paga, abitazione, giardino e legna, e per giunta la speranza, quando andassi a genio al signor conte, d'esser nominato precettore di suo figliuolo, con assegni particolari. Doveva ai 19 ottobre trovarmi a Magdeburgo, ove il conte faceva una scappata quel giorno, e desiderava vedermi.

Rimasi come stordito: tutti i miei voti erano compiuti. Lesto lesto finii d'affazzonarmi, e colla lettera di nomina in tasca, non corsi no, volai dalla Giulietta galluzzando. La sua padrona era per fortuna in chiesa, onde la trovai sola soletta. Restò spaventata al vedermi com'ero sfiatato, rosso come una brace, scintillante negli occhi; con angoscia mi trasse nella sua cameretta, dove io voleva bene spiattellarle il fatto, ma sì! non poteva formolar parole: piangevo, la stringevo fra le braccia, appoggiava il mio viso ardente sulle spalle di lei, che tremava di spavento.

— Cosa v'è accaduto di sinistro? Cosa potè abbattere tanto il vostro nobil cuore?»

— Oh Giulietta! (esclamai io) il mio cuore è avvezzo ai patimenti, sicchè vedrei il più acerbo destino col sorriso sulle labbra. Ma la gioja è ospite sconosciuta per me, nè ho armi contro di essa. Me ne vergogno: oppure, malgrado la mia filosofia, essa mi opprime.

— La gioja, signor dottore!» disse Giulietta stupefatta.

Nota bene, lettor cortese, che io aveva ottenuto all'Università soltanto il grado di licenziato, ma, per adattarmi alla moda, mi sorbivo a tutto pasto il titolo di dottore in filosofia.

— Vi ricorda (le risposi) quando nel giardino di Sans-Souci ci trovammo insieme la prima volta? quanto eramo contenti! Nove anni scorsero d'allora, o Giulietta, e noi serbammo il giuramento di amore e di fedeltà che prestammo quel dì sotto la volta brillante de' cieli, innanzi al Dio che è dappertutto: benchè senza speranza, lo serbammo religiosamente. — Vuoi venir con me, Giulietta? (io seguitai in tono men tragico, ed era la prima volta che le dava del tu.) Una bella casa, un fior di giardino t'aspettano: vuoi tu dividere la mia felicità? Guarda questa è la nomina: io sono capellano.»

Lesse la lettera, e mano mano che la scorreva, s'infocavano gli occhi suoi, che mai non la m'era parsa così bella. Poi finito, lasciando cascar le braccia, mi fissò un momento silenziosa, e le si gonfiavano negli occhi care lagrimette,

Pari alle stille tremule brillanti,

Che alla nuova stagion gemendo vanno

Dai palmiti di Bacco entro agitati

Al tepido spirar delle prim'aure

Fecondatrici.

— Verrò teco dove tu vorrai, Giammaria», essa mormorò, e singhiozzando gettommisi al collo.

Era il primo tu che le usciva dalle labbra: era il primo tu ch'io udissi darmi dopo morta la mia mamma, pover'anima. Noi eramo felici come angeli in paradiso. Pochi istanti dopo, si spiccò da me per gettarsi ginocchioni, e pregare; poi sorse, mi volse uno sguardo ove scintillava una tenera gioja, e la prima domanda fu: — Ma questo è proprio verità? non è un sogno? Mostratemi la lettera: non mi ricordo più del suo contenuto.»

Racconti storici e morali

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