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IV.
ОглавлениеAleardo Aleardi ha scombiccherati parecchi componimenti in cui parla della madre e d'Italia e di libertà e d'amore e di religione: cose tutte le quali sono state e saranno in eterno fonte ricchissima di vera poesia. Ad un patto però: che siano sentite, che divengano passione, che si concretino in fantasmi autonomi. Sono poesia nelle loro manifestazioni, non già nella loro astrattezza. Spieghiamoci con un paragone: i paragoni, se non provano, rischiarano; ed in casi molti, rischiarare val quanto provare.
Nelle due pagine autobiografiche preposte ai suoi Canti il nostro autore vi dice: Ho considerato la poesia come la perla del pensiero: chè nasce anche ella da una febbre dell'animo, come la perla da un malessere della conchiglia: chè l'aceto della scurrilità e della malvagità la distrugge come l'aceto dissolve la perla. A dirla, io non so se l'aceto dissolva le perle, e mi ho annodato la cocca della pezzuola per ricordarmi di chiederne a Sebastiano De Luca la prima volta ch'io l'incontri; so bensì di certo, che la scurrilità è, quanto ogni altro, schietto e legittimo elemento di poesia: e se l'Aleardi non si trova in grado di comprenderlo, suo danno. Non sarebbe il solo; moltissimi, tutte le nature fiacche sono negate all'intelligenza delle categorie comiche. Ma lasciamo star ciò, ch'io non intendeva citare il paragone per biasimarlo, anzi per farlo mio. La perla si produce dalla secrezione sovrabbondante della materia che fodera la conchiglia, la quale, agglomerandosi in alcuni punti a mo' di bernoccolo, senza dubbio ingenera nell'ostrica un piacevol prurito; e tante volte l'ostrica ricopre di sostanza madreperlare qualche corpo estraneo, che gli dava noia con la sua forma irregolare, ma poi arrotondito dagli strati che gli si sovrappongono, non torna più d'incomodo. Se non che più l'escrescenza ed il corpo estraneo stanno e più divengono voluminosi; la protuberanza si stacca [pg!26] dal guscio e diventa una cosa per se, la pallottola ingigantisce, e dànno peso e dànno molestia all'animale, finchè questi non trovi modi di sbarazzarsene. Con simile appunto si ravvisa il processo poetico nella mente dello scrittore dalla percezione all'espressione. Il percepire avidamente l'objetto, (fatto, sentimento, eccetera) l'assumerlo in sè, l'appropriarselo, procaccia dapprima una piacevole impressione: l'è quel diletto che noi precisamente cerchiamo nella lettura od in teatro. Anche quando la percezione è tornata dolorosa o per la sua veemenza o per la sua natura, lavorandoci intorno con l'immaginazione, togliendone le asperità, finisce per essere ospite gradita della memoria. Poi, mano mano che procede la traduzione dell'objetto in immagine interna, e quanto più questa divien viva e potente, id est autonoma, s'ingenera e cresce un malessere nell'animo del poeta, cagionato dalla presenza del fantasma. Malessere del quale si guarisce incarnando esso fantasma in un lavoro, estrinsecandolo. La stessissima successione di momenti si percorre nella generazione fisica dal concepire allo sgravo. Più il pensiero diventa perfetto in sè, tutto immagine, cioè artistico, e più diventa estraneo allo scrittore, che quindi è angosciato dalla sua presenza, come donna negli ultimi mesi della gravidanza. Il fantasma s'impone allo scrittore, che non gli comanda, anzi il subisce. Molti anni dopo la pubblicazione delle Affinità Elettive, il Goethe leggendo il carteggio di Ferdinando Solger trovò una lettera su quel romanzo, la quale gli parve il meglio che se ne fosse scritto. Il Solger, riconoscendo che il fatto era il prodotto di tutti i caratteri, pur biasimava quello d'Eduardo: — «Non saprei volergliene» — disse il Goethe — «nemmanco io posso soffrirlo, benchè pieno di verità... Ma, mi piacesse o mi spiacesse, dovetti farlo a quel modo.» — Notatevi quel dovetti. Ecco perchè diceva che tutti quei santi e gentili affetti, i quali rendono caro un uomo nella vita empirica ordinaria, per mutarsi in poesia han bisogno prima di diventar passione, cioè di crescere [pg!27] in intensità, e poi di trasformarsi in fantasmi autonomi, cioè in immagini che abbiano in sè la ragion di loro vita e non siano mero prodotto dell'arbitrio di chi scrive.
Tanto la passione, quanto l'autonomia del fantasma, sono rese impossibili per Aleardo Aleardi dall'idiosincrasia che chiamammo fatuità poetica. Il fantasma non acquista mai effettività objettiva nella sua mente; l'affetto non diventa mai cosa seria pel suo cuore; anzi egli se ne fregia, come una civettuola di finte trecce e di nastri nell'acconciarsi. Egli non può mai profondarsi nell'objetto, poichè questo al postutto non ha importanza intrinseca agli occhi suoi, anzi è solo un mezzo per farlo figurare. L'amor patrio, l'amor filiale, l'amor divino e finalmente ciò che dicesi amore per eccellenza e per antonomasia, sono nel freddo animo e morto di lui piante esotiche, le quali non fioriscono mai come passione.
Aleardo Aleardi ne si protesta buon cristiano: s'adonterebbe se lo chiamassimo, come Lisandro chiamava Aristodemo nella prima e men cattiva tragedia del Monti:
..... Uomo
Non sottoposto all'opinar del volgo
.... che questi dei, quest'ombre
De l'umano timor, guarda e sorride.
Ma un vero credente forse temerebbe che quel suo cristianesimo rettorico e sbiadito voglia conferir tanto poco alla sua salvezza eterna quanto poco giova al suo merito letterario. Quel dio, così spesso apostrofato, non è persona, anzi personificazione; e neppure: è una mera occasione, un pretesto, per rammodernare in fragorosi versi il cianciume delle immagini bibliche. Una vecchia protestantaccia importunava sempre la fantesca cattolica, acciò ne andasse al tempio ed ascoltasse i sermoni del pastore. La domestica v'andò una domenica per arrendevolezza; e si sciroppò la predica, attenta e devotamente. A casa poi la padrona l'accolse con una sfuriata [pg!28] d'interrogazioni. — «Neh, ch'è una gran bella cosa? Neh, che vi si parla benissimo e pertinentissimamente di iddio?» — La servetta, dopo aver ascoltato un pezzo, poi rispose: — «Ne parlan molto, ma nol mostran punto». — L'Aleardi nomina sempre dio; ma non cel mostra mai. Ma non ha la più remota idea dell'ardente religiosità ed appassionata, che cerca sfogo irreperibile nella penitenza, nelle stravaganze de' riti, nella preghiera; che guasta tante belle ginocchia e consuma tanti animi gentili sul genuflessorio o nel confessionile; che fa piangere; che fa sperare e sperare e disperare; che ci fa vedere il nostro ideale morale come una personalità distinta da noi, o amico perdonevole o giudice inesorabile. Egli non ha mai provato e neppure intelletto cose siano la paurosa preoccupazione dell'eternità, gli scrupoli severi, quei dubbi che schiantano il cuore, gl'imperativi categorici, i delirî sublimi di san Tommaso d'Aquino o di santa Teresa d'Avila, che udivano esterrefatti parlare i Cristi di legno, che si accorgevano con isbigottimento d'essere stati rapiti al cielo. Cheh! la religione dell'Aleardi non è neppure una cosa eterna, come la concepisce e pratica certa brava gente che va puntualmente a sentir messa la domenica e tutti i giorni crocesegnati nel calendario; che mangia di magro mercoledì, venerdì e sabato; che obbedisce al decalogo ed ai precetti di santa madre chiesa: ma nei quali dio non vive. Questa religione rifredda, alla Don Abbondio, desta almeno il riso o il disgusto: è cosa da commedia, è cosa scurrile; ma lo scurrile è categoria del comico ed il comico è forma di poesia. Invece il cristianesimo dell'Aleardi sembra un abito stanco, una vuota consuetudine di professarsi cristiano, com'usa pur troppo da molti in Italia, quantunque in fondo non si sia più cristiani che turchi o scettici od hegeliani e s'ignorino affatto gli spasimi e le voluttà del sentimento religioso, e non si pratichino neppure i riti del culto. Da questa disposizion d'animo può solo emergere l'ironia, e quando l'autore non sa o non [pg!29] può ironizzare, e vuol fingersi cristiano come Vincenzo Monti si fingeva pagano, rimarrà sempre nel declamatorio e nel rettorico.