Читать книгу Fame usurpate - Vittorio Imbriani - Страница 17

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Mai non disse Aleardo Aleardi la più giusta cosa, che quando fece reclamare dalla sua musa come proprio retaggio

..... Fucate fantasie, vestite

D'arte caduca.

Infatti, chi, per mancanza di concetti e di sentimenti, nonchè di forma e di pensieri proprî, è costretto a vivacchiare di accatto e d'impostura, cerca per istinto necessario o per necessità istintiva, di nasconder questa menda esaggerando2, spaccando e rinvergando in cose estranee alla poesia le quali egli falsamente giudica fregi ed ornamenti, l'originalità, la virtù di piacere, che la steril sua fantasia è impotente a dargli. Questi mezzucci riescono spesso ad illudere e si scrocca fama di poeta; ma, trascorso il primo bollore, vien riconosciuto che lo scrittore è precipitato nel goffo, nel mostruoso ed ha sconfinato dalla poesia. Così talvolta una vecchiaccia, o rinsecchita od adiposa, a furia di perrucchini, di belletto, di bambace, di fascette, di polvere di riso e d'altri simili ordigni e cosmetici, giunge a simulare un'apparenza di grazia e di gioventù; e (l'uomo è fragile!) può farti scusabilmente girare il capo come un arcolajo per minuti cinque. Ma dopo i cinque minuti di capogiro scusabili, come la ti ha concesso un favore e l'effervescenza del sangue calmandosi toglie il momentaneo velo all'occhio, saresti inescusabile se non sapessi vederla nella schifosa realtà sua ed abborrirla.

Il nuovo piace anche a me: cui non piace? Pure, cosa intendete per nuovo? La novità non istà per Aleardo Aleardi nell'incarnare ne' suoi componimenti concetti e sentimenti così connaturati, che diano una [pg!66] impronta particolare, singolare a' pensieri, alle immagini, alla lingua, al verso. Egli spesso si figura di ringiovanire il triviale e l'altrui che costituiscono il fondo della sua poesia, aggiungendovi de' ghirigori superflui, degli ammennicoli inutili, frammischiandovi qualche barbaro o strano vocabolaccio. Ha molto del secentista, come del resto quasi tutti i più vantati del secolo fra gli stranieri. Del pari Bernardino di San-Pietro non ravvisava il merito del suo Paolo e Virginia nello aver creato delle persone vive o nell'importanza del concetto poetico e sociale; bensì nell'aver posta la coppia innamorata fra gli insoliti banani e palmizî, invece di collocarla fra le querce e le ficaje consuete.

Esemplifichiamo.

Il poeta non è botanico, nè la botanica è poesia. L'insopportabile abuso, che fa l'Aleardi di termini tecnici, i quali talvolta mi mascherano stranamente le più note pianticelle, non ha senso, ed esaspera il lettore. Mi ricorda la rabbia del vecchio cortigiano Behrisch, il quale avea riempita una delle stanze assegnategli per alloggio nella duchesca di Dessavia, con graste di geranî, pianta di moda, allora. Ma i botanici in Lamagna fecero distinzioni e suddivisioni tra geranî e geranî, attribuendo il nome di pelargonie ad alcune varietà. Ed il Behrisch li malediva: — «Imbecilli! io mi rallegravo di aver la stanza piena di geranî, e loro vengono e dicono che, nossignore, son pelargonie. Ed io cos'ho da farmene se non sono geranî? delle pelargonie a me cos'importa?» — Que' nomacci eterocliti non ci stanno mica per una necessità poetica; vi son tirati pe' capelli a documento della scienza botanica dell'autore. Ad Alessandro Manzoni, che si guarda ben dal farla, noi perdoneremmo quest'ostentazion di sapere, la quale in lui potrebbe psicologicamente giustificarsi. Difatti, il descrittore del giardino inselvatichito di Renzo Tramaglini non è un dilettante di botanica, anzi un filologo di primissim'ordine, che ha ideato una classificazione delle piante originalissima, [pg!67] e, come mi asseverano uomini competenti, scientificamente superiore a quelle dello svezzese Carlo di Linneo o del ginevrino Augustino-Piramo Decandolle. Ma la scienza dell'Aleardi probabilmente si riduce a qualche reminiscenza scolastica, all'aver isfogliato un manuale od all'aver passeggiato in qualche giardino de' semplici, leggendo su' polizzini attaccati alle piante od impalati lungo le ajuole: conifere, lonicere, ottonie, bromelie, benisterie, ninfee, napelli, solatro, ranuncolo scellerato, lemna, eccetera, eccetera. Propongo un'ipotesi: forse il Nostro fa ciò per mero esercizio mnemonico. Diceva il Goethe: — Degli studî ci rimane sol quanto praticamente applichiamo, il resto va perduto.» — L'autore adopera que' termini, perchè gli rimanga impressa qualche cognizioncella botanica racimolata qua e là. Non sarei punto sorpreso, che non avendole mentovate mai, ignori cosa sono la vellintonia, l'eucalitto, la zeodaria, lo xilosteo, le alimacee, il liriodentro tulipifero, l'asimina triloba, eccetera, eccetera.

Il poeta non è topografo; nè la natura per sè stessa poetica. Mancando l'uomo che vi si agita, non ci commuove. Il mondo senza uomini, come dice Piersippe Giusti, ossia il Marchese Giuseppe Spiriti, nella Salace trasformata:

..... ancorchè spettacolo giocondo

Di meraviglie sia egli a sè stesso,

Pur fora qual teatro a cui sian tolti

Chi vi giuochi la sera e chi l'ascolti.

Dunque, volendo rappresentarmi, puta caso, una valle, basta dipingermela come scena di un avvenimento caratteristico, ed è perfettamente inutile che tu spenda un cinquanta versi a particolareggiarmene la pianta, i nomi antichi e moderni, le produzioni e che so io; minuzie interessantissime in una Guida novissima del Viaggiatore, ma che non suscitano immagini commoventi, così da dar vita al fantasma di quella valle. Più analizzi, più distingui, più sminuzzi, più dettagli e meno veggo l'insieme. Dimmi [pg!68] che i monti son cinerei, che la consolare è candida (l'avran forse lastricata di carrara lustro), che il fiume è verde (cosa da stagno), e mi avrai unicamente posto sotto gli occhi tre immobili macchiacce: verdognola cinerognola e biancastra. Dimmi che passano poane pel cielo e zattere pel fiume; ed io potrò solo fondare meditazioni ornitologiche e commerciali su codesti fatti. Dimmi che l'Adice reca a Verona un sorriso di Trento, ed io rispondo sbadigliando: — «rettorica!» — Dimmi che un fortino veneto è trasformato in fortezza austriaca, ed io ti ringrazio della notizia archeologica.

— «Ma» — scappa fuori l'Aleardi, indispettito come un bambino, al quale si vieti di fare ogni impertinenza — «questo no, quello no; corpo dell'ostia, come aveva io a fare per dipinger poeticamente la Chiusa?» —

— Come, eh? Semplicissimo! Cancellar tutta la descrizione salvo queste parole:

..... Il loco ha somiglianza

Di Termopile, e forse alcuno attende

Leonida venturo.

Ma sa Ella, che questa immagine è degnissima del maggior poeta? Illumina la personalità dell'autore; suscita l'objetto innanzi alla fantasia; promuove un tumulto di pensieri. Ecco qua, senza corredo d'annotanzioncelle prosentuose, senza imprecazioni, senza contorsioni o scontorcimenti, lo scrittore si dimostra, io m'accorgo, ch'egli è patriota; m'accorgo, ch'egli è di una terra serva sì, ma ognor fremente, e fiduciosa nella vicina riscossa, e certa di non mancare al proprio dovere: onesta baldanza! Ch'è d'un paese insomma, eo immitior quia toleraverat, che ha dato i Mille come la Grecia i Trecento. Quella sola immagine mi dipinge la valle nella fantasia così vivace e caratteristicamente, come s'io l'avessi vista co' proprî occhi miei: vi ha pochi esempli d'una descrizione poetica tanto vera e perfetta. Ma perduta questa geniale oasi in un deserto d'inconcludenze e di rettorica, [pg!69] passa inavvertita e fallisce l'effetto. Quel che più importa allo scrittore ambizioso, non dico di eccellenza, anzi solo di serietà, è il saper cancellare. Un componimento esce dalla fantasia, come la statua di bronzo dalla forma, tutto sbavature; bisogna limare e cesellare, cesellare e limare senza mai stancarsi. Dicon che lo Schiller fosse maestro di cosiffatte potagioni. Gli avevano mandato una volta pel suo Almanacco delle Muse non so che oda pomposa in ventidue strofe: a furia di cancellazioni e' la ridusse a sette, e sì che mediante le crudeli amputazioni il prodotto ci guadagnò, rimanendo intatto nelle sette strofe il buono sparpagliato per le ventidue. Pirro Lallebasque, ossia Pasquale Borrelli da Tornareccio, osservò bene, quantunque barbaramente si esprimesse, scrivendo: — «Noi non siamo prolissi, se non perchè ci manca il tempo o la pazienza di esser brevi.» — Voleva dire: Siamo prolissi, sol perchè, eccettera. Come disse il Metternich al Varnhagen? — «Se scorgo qualche oscurità nel mio dettato o sento che qualche brano potrebbe non riuscir chiaro ai lettori, seguo il consiglio datomi una volta dal vecchio barone di Thugut, uomo pratico che m'insegnò di non ingegnarmi a dare un altro giro al pensiero, a modificarlo, anzi di studiarmi solo di cancellare quanto vi ha di superfluo nel luogo oscuro; il rimanente esprime compiutamente e sicuramente il senso. E trovo di fatto che il semplice si regge da sè, i puntelli e gli aiuti oscurano per lo più». —

Il poeta non è delegato di questura: non gli è concesso, mal presume di raffigurarmi una persona, enumerandone i connotati, perchè con essi posso solo al più arrabbattarmi a costruirmi nella mente un insieme di venti parti; ma l'immagine non mi balza viva nella fantasia, non vi s'affaccia repentinamente, non Fa di sè bella et improvvisa mostra, come Diana in scena o Citerea si mostra. Che vita nelle Silvie e nelle Nerine del Leopardi! eppure il recanatese non le esamina membro per membro dal vertice alle piante [pg!70] come in una visita medica, come usa con le meretrici. L'Elvira, la bellissima donna amata da Consalvo, era alta un metro e settanta, oppure un metro e sessanta centimetri? La Nerina era bruna o bionda? L'occhio della Silvia era nero od azzurro? Solo incidentalmente apprendiamo che quest'ultima era di capel nero:

Non ti molceva il core,

La dolce lode, or delle negre chiome,

Or degli sguardi innamorati e schivi;

Nè teco le compagne, a' di festivi,

Ragionavan d'amore.

In prosa, si può ammettere qualche latitudine nel descrivere i protagonisti; eppure Alfredo di Vigny (ch'è tra' quattro o cinque francesi di questo secolo, i quali abbiano saputo scrivere) sclamava: — «Non ho punto bisogno d'un ritratto in miniatura d'ogni vostro personaggio. Credetemi, a chiunque sia per poco immaginoso, basta uno schizzo. Un tratto indovinato vai più di tanti particolari. Se vi lascio fare, mi direte la manifattura de' nastri di seta adoperati per la coccarda degli scarpini. Abito pernicioso di narrare, che si diffonde spaventevolmente.» — Chi si lascia vincere dalla smania, dalla mania di descrivere, non ha più freno, e sacrifica tutto pur di soddisfarla. Mi ricordo, in un romanzo francese, che un tale dà un'occhiata, una occhiata fugace in una stanza e vede.... vede i più minuti oggetti, che ne vengono minutamente enumerati e descritti; vede e nota ciò, che un'ora di esame attento non sarebbe sufficiente a vedere e notare. Diceva il Goethe di Gualtiero Scotto: — «Strano che appunto la virtuosità nel particolareggiare, lo induca in errore! Nell'Ivanhoe descrive l'apparenza e le vesti d'un forestiero, che entra durante la mensa nel tinello d'un maniere, e sta bene; ma che ne descriva i piedi, le calze e la calzatura è uno sproposito. Quando siedi a mensa di sera, se qualcuno entra, ne scorgi solo la parte superiore del corpo. Descrivendo i piedi, [pg!71] entra subito in ballo la luce del giorno, e così la scena perde il carattere notturno.» — La poesia, impotente a darmi la forma esterna, mi dà la coscienza o l'azione del personaggio, che la fantasia del lettore riveste in un battibaleno di forme corrispondenti: in chi vuol gustarla, si richieggono alcune attitudini d'immaginazione, come in chi vuol gustar musica si richiede orecchio. Le Belle Arti, esse, invece, mi presentano le forme esterne, sotto le quali indovino una coscienza. Indarno lo scrittore sgobba per distinguere e determinare con parole i più minuti particolari od accidenti di forma e di colore: più s'affacchina, più l'oggetto sfugge. La vita del fantasma poetico non istà in un occhio piuttosto azzurro che nero, in un braccio più o men bianco, in questa o quella linea.

Avea riccia la chioma e colorata

Come la buccia di castagna alpina

Molti fior di giardino avrian voluto

Paragonarsi coll'aerea tinta

Che azzurreggiava nella sua pupilla:

Ma ciò che forse le venia più presso

Era il lin che fiorisce o il ciel di sera.

Misericordia! eccoci alla più ridicola materialità, al passaporto in versi: capelli castagni e ricci; occhi cilestri. Eppoi questi occhi non ci guardano, non ci splendono, non ci ridono; sono vuoti di sentimento, due immobili macchie azzurregianti, sulla cui gradazione un tintore ragiona (l'Alfieri direbbe dissertaziona) in guisa da fare andare in solluchero l'autore del Dialogo sui colori che si danno alle sete. È Maria Luisa, Porcellana, Isabella, Minerva, Turchino del Re, Turchino Ghimè, Turchino della Regina, Turchino màmmola, Turchino di cobalto, Azzurro o Lapislazzuli? Sarà forse Celeste blù, Blù Raimond, Blù porcellana. Blù Isabella, Blù Maria Luisa, Blù Napoleone? O non piuttosto Aria, Celeste cielo, Latticino, Celeste chiaro, Celestino, Celeste Laudon, Celeste cupo o Celeste Lumiera?

[pg!72] — «O come aveva a fare» — sclama l'Aleardi con l'accento indispettito dello scolare, che nell'esame non giunge a soddisfare con alcuna risposta i pedagoghi, — «come avevo a fare, per dipingere la mia Caterina Cavalieri di Monte? Me lo insegna Lei?» —

— Perchè no, caro? Lo insegnare agl'ignoranti è opera di misericordia. O se a quel nome dolcissimo di Caterina si congiungesse daddovero in mente vostra una immagine, di tutta la lunga descrizione avreste scritto que' soli versi:

... da ch'ella era nata...

... Mai sovra il paterno

Camperello la grandine non cadde

Nè al (cacofonia) mandorlo imprudente arse la brina

I frutti; nè verun maggior dolore

Osò varcarne la vegliata soglia.

Versi, che mi ricordano questi altri nell'Ardelia d'Olympo degli Alessandri da Sassoferrato, il quale, parlando d'una bella donna, scrive:

— «E contra lei non giova dura sorte,

Che vince il ciel con sue piacevolezze...

La donna e 'l ciel e 'l mar governa e muove

L'aer la terra e l'universo clima;

Et son sopra natura le sue prove.» —

Similmente il Maresciallo di Francia, Biagio di Monteluco, scrive di Andrea Doria; — «parca che il mare ne ridottasse e quindi non si dovea scontentarlo od irritarlo senza grande occasione.» — Similmente il cavalier Marino:

Di tai chimere vo' che tu ti rida,

Ancor che d'empio ciel raggio ti tocchi:

Qual sì cruda sarà stella omicida

Che rigor non deponga ai tuoi begli occhi?

Quanta gentilezza in questa fanciulla dell'Aleardi, che ne impone alle stesse inesorabili leggi di natura, al fato stesso, il quale le risparmia il dolore debito ad ogni carne umana! Deh come può essere, che chi inciampa siffatte bellezze, non le comprenda, non ne [pg!73] abbia coscienza; e trovi requie solo quando ne ha distrutto l'effetto con mille aggiunte stolte? — «Vojaltri dilettanti» — scriveva presso a poco il Mozart a non so che barone, il quale gli avea mandate alcune composizioni: — «o non avete pensieri propri e rubate gli altrui; o ne avete e non sapete cavarne partito.» —

Simili baleni di poesia s'incontrano veramente nell'Aleardi; ma pur troppo son baleni fugacissimi, che fanno meglio avvertire la tenebria circostante, come gli spiragli nel sotterraneo di Montezuma, a detta d'Antonio de Solis, permitian solamente la (luz) que bastava, para que se viesse la obscuridad. È uffizio, è gioia, è dovere del critico richiamar sempre l'attenzione su queste belle parti; e specialmente poi quando in uno scrittore sono rare, mi sembra più che dovere, carità fiorita. Quanto è viva la nobil-donna ungherese, frustata dagli sgherri austriaci!

.... La gentil ribelle

Sentì infamarsi le patrizie terga

Dal vitupero dell'austriaca verga,

E odiò la vita. E, dato

L'ultimo bacio a le atterrite ancelle,

Sotto la pietra del sepolcro ascose

Le membra vergognose.

T'impietosisci e parteggi per quella infelice ribelle, benchè il senno ti dica la legge dover essere sempre obbedita e la ribellione punita e soppressa a qualunque costo ed in tutti i modi, e che i governi costituiti hanno autorità suprema ed assoluta in chi sorge a combatterli. Quant'è sentito quel dire con enfasi, affermando Roma esser nostra, solo nostra:

Se cosa alcuna di straniero è in essa,

Sono il pianto e le ceneri de' servi,

Ch'ivi traemmo dalla vinta terra.

Spiove, l'atmosfera si rasserena:

Scuote i fogliami, che gli fero ombrello,

L'augelletto e giocondo vola via:

[pg!74]

Manda il ramo una stilla, e par che pianga

Dell'ospite cantor la dipartita.

Questo si chiama animar la natura, e l'immagine non sarebbe mai venuta in capo, a chi non avesse provato lo strazio di crudeli addii. — «È precetto d'Aristotile» — diceva un retore egregio del seicento — che quelle sono le ottime traslazioni, le quali cat'enérgian sono appellate; cioè, quando le cose inanimate s'inducono ad operare, come se fussero animate; quale, per esempio, è quella di Omero, che attribuisce il desiderio alla saetta di Panduro, dicendo, che ella desiderasse di volare fra gl'inimici; e quell'altra, che dice delle onde, cyrtà phalerióonta, cioè gobbe e che s'imbiancavano o incanutivano. Di questa sorta di traslazioni così parla Quintiliano: Praecipueque ex iis oritur mira sublimitas, quae audaciae proxima periculo translationis attolitur, cum rebus sensu carentibus actuni quandam et animos damus. Qualis est: pontem indignatus Araxes; et illa Ciceronis: Quid enim tuus ille districtus in acie Pharsalica gladius agebat? cuius latus ille mucro petebat? qui sensus erat armorum tuorum.» — Eccone un altro esempio Aleardesco: gli austriaci hanno innalzato la forca sugli spaldi mantovani per appiccarvi un patriota:

.... In mezzo a un campo

Scellerato, spingea le immonde braccia

Un patibolo al ciel, quasi pregasse

D'essere fulminato.

Un letteratuolo, premiato nello scorso secolo dall'Accademia francese, ha scritto: Les dieux ont un Olympe et nous une patrie. Nell'Aleardi, il poeta assunto a' cieli, li percorre, se ne inebbria, dipinge la terra come un meschino granello di sabbia e poscia con poca logica, ma con infinita poesia sclama:

Oh! potess'io, poscia che avrò veduto

Sì addentro l'universo, un'ora sola

[pg!75]

Rinascere alla terra Itala e sciorre

Rivelator di meraviglie un carme,

Nobile, forte, non caduco e nuovo.

Quant'è vero quest'uomo che stima un'ora di vita in patria, più che l'eternità in cielo! quanto è vero questo letterato che apprezza più la fama terrena della beatitudine paradisiaca! Ma l'ultimo verso stona; l'impressione sublime de' precedenti è ammorzata da quella gelida filza d'aggettivi qualificativi, che terminerebbe degnamente l'allocuzione d'un professor di quarta ginnasiale nell'assegnare agli allievi un tema di esercitazione rettorica. Nè si scusi l'Aleardi citando Dante:

Pareva a me che nube ne coprisse

Lucida, spessa, solida e pulita.

In una descrizione di cosa materiale, que' quattro aggettivi, che ne determinano le qualità essenziali, sono necessari; ma i quattro aggettivi appiccati da lui al carme, rivelator di meraviglie inaudite, ne indicano qualità, che si sottintendevano e ch'egli escogita con la riflessione.

Nell'Ardelia di Messer Baldessar Olympo da Sassoferrato Nella quale si contiene Sonetti Capitoli Dialoghi Frottole et Strambotti Et di nuovo con ogni diligentia Stampata et ridotta in una bella e nuova forma; opera pubblicata, come in calce all'ultima pagina: In Venetia per Dominico de' Franceschi al segno della Regina 1569; trovo parecchie Ottave di Epitetti (sic) bellissimi di Baldessare Olympo da Sassoferrato in laude di Leontia. Sono una sfuriata prima di aggettivi e poi di sostantivi; e veramente questo genere di poesia, che si direbbe imitata dall'Aleardi, non richiede isforzo grande di fantasia. Eccone per saggio una stanza:

— «Unica, eccelsa, singulare, grata,

Gentil, soave, gratiosa e honesta;

Piacevole, gioconda, accostumata,

Inclita, saggia, famosa, modesta;

[pg!76]

Ingeniosa, accorta, vaga, ornata,

Humil, pietosa, dolce, pia e presta;

Celeste, amena, ludibonda e lieta,

Tepida, pura, angelica e discreta.» —

Deh, perchè tutti i canti non sono pari a' pochi brani surriferiti? Allora l'estetico saluterebbe con gioia in Aleardo Aleardi, se non il — «quinto gran poeta Italiano,» — come ha detto qualche imbecille, che non conosceva di certo ne l'Alfieri, ned il Leopardi, ned il Manzoni, di certo una nostra nuova gloria. Mentre invece ora queste gemme, rari nantes in gurgite vasto, servono solo a dimostrare non esserci letamajo, nel quale non possano scavizzolarsi perle. Basterebbe aver pazienza e stomaco da razzolarvi, e chi sa? potrebbero trovarsi dei galantuomini sugli stalli della sinistra parlamentare. Ma quando in un tutto artistico qualcosa non riesce, esso è sbagliato come tutto, per quanto alcune singole parti possano essere buone in sè, e quindi l'autore ha prodotto un'opera senza pregio e valore. Un'immagine indovinata non può salvare un componimento pessimo del resto; giacchè una sola immagine basta unicamente a formare l'epigramma, genere di componimento, pel quale riconoscemmo gran disposizione nell'Aleardi.

Il poeta non è dotto, ned istoriografo; dottrina e poesia son due: possono coincidere, possono divergere. Non so immaginar cosa più ridicola del pretendere ad un merito poetico versificando nozioni geologiche od isteriche o rendendo inintelligibili i versi senza un buon corredo di noterelle. Ma non è poi lecito, quando uno vuol darsi l'aria del dottore, d'incorrere in quegli svarioni, che fanno scoppiare i precordi dalle risa e giustificano lo scherzo: doctores a docendo, sicut montes a movendo. Estendere la passione delle reminiscenze e del rettorico fino ai farfalloni, l'è un po' troppo. Nè vale per iscusa il provare che l'errore fu tenuto ieri per verità inconcussa: oh bella! tu vivi oggi; e, se se' savio, hai da vivere [pg!77] com'usa oggi. Se tutto muta! Non più d'un dieci anni fa, quando ottenevi da una signora il ritratto, potevi tenerti sicuro dal fatto tuo, anzi le belle facevano quasi quasi più difficoltà per accordarti la miniatura, che per concederti i sommi favori: adesso, invece, possediamo la fotografia di chi ci pare, e nessuna l'ha per male e non implica nulla. Fosse del pari agevole l'aver gli originali in braccio! Se quindi uno scrittore, ora, facesse andare in bestia qualcuno, solo perchè scopre il ritratto della sua donna in mano ad altri, farebbe una castroneria. In simili castronerie incorre parecchie volte il Nostro.

È egli lecito d'impiegare ben sedici versi a maledire quel valentuomo, anzi grand'uomo, che fu Omar ed a compianger l'uman genere per lo incendio della biblioteca alessandrina, che i bimbi a scola imparano il prelodato Omar non aver mai bruciata, perchè già distrutta prima di lui? Stupisco che l'Aleardi calunni un nimico melensamente, uniformandosi a' suggerimenti di Don Basilio. È egli permesso di chiamare il tedesco

..... ispido nipote

Dei Nibelungi da la fulva chioma,

..... gentil favella,

Che non ha madre, che non ha sorella,

creando un nuovo fenomeno filologico? Una lingua prima e senza parentele! È egli perdonabile di battezzare per Cimbri i tedeschi? Mah! e dire che Aleardo Aleardi sprofessoreggia, la fa da professore in Firenze! [pg!78] Sia però notato a lode de' fiorentini, l'uditorio di lui comporsi di qualche inglesaccia sfiancata, di qualche damina emancipata, del loro codazzo e degli amici del professore. L'Italia impiega pur bene i danari, che gli snocciola! Pagherei una lauta mancia, sborserei una larga cortesia, a chi potesse dimostrarmi, che l'insegnamento di lui è stato fecondo del benchè menomo frutto.

Fame usurpate

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