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A TOMMASO GAR

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— «Mesi fa, Ella, per ispronarmi, a scrivere, sulle poesie d'Aleardo Aleardi, mi fu cortese dell'ultima edizione fiorentina, impressa da Gaspare Barbèra, nel MDCCCLXIV. Veramente, percorse, io le aveva, già, non tutte, altra volta, e quando la fama dell'autore era bambina, accogliendone un'impressione, ma senza badare a formarmene un criterio proprio. Non mi pareva roba da badarci più che tanto. Stavolta,... La lo sa, La lo sa, son fanatico per l'incisione: baratterei tutta l'incolore scuola pittorica lombarda, per un'acquaforte del Rembrandt! Oh s'immagini, dunque! Quel ritrattaccio dell'Aleardi impomatato e stregghiato, che sta rimpetto al frontespizio, come drago sul sogliare d'orti incantati. All'adocchiarlo, raccapricciai; ed il volume ruzzolò, per le terre.» —

— «Sicchè, non ha letto?» —

— «Anzi! Raccattai l'opera; la spolverai; tagliai, con la stecca, i fogli; e, poi, mi dissi: Coraggio! Avanti, marsc'! E lessi, rilessi, studiai, postillai, da cima a fondo, il cosiddetto e sedicente poeta civile. Ma...». —

— «Ma che?». —

[pg!8] — «Ferma un'opinione in capo, esito a porla in carta! L'impegno assunto, duolmi, oltre ogni dire, per un giusto riguardo. Maledettissimi riguardi! Inceppano, precludono qualunque libero moto, al malcapitato estetico. Sono mostri, che non lasciano altrui passar per la sua via. Stai, per isnocciolare quattro verità, forse, dure, ma che stimi utili e che ti costan fatica, quando ti si para davanti una considerazione, uno scrupolo di convenienza; ed o t'imbavaglia o ti sforza a balbettare qualche scempiaggine menzognera e lusinghiera. Non se la pigli, con l'amico, che ommise d'avvertirla, quand'Ella, ierdassera, sedette a carteggiare, con quel baro: caspita! egli tacque, per onesti riguardi. E, sempre, per qualche buon riguardo, che mogli e drude c'infinocchiano; e che i ministri.... ne sballan tante. Qual meraviglia, quindi, se, per convenienza, per delicatezza, un critico anch'esso s'inducesse a mentire od almanco ad ammutolire?». —

— «Pure, abbiamo dietro le spalle i tempi, quando si pagava in busse od a pugnalate le giuste riprensioni. Ma comprendo! Il quieto vivere è desiderabile; e, talvolta, si teme, che gli scrittori biasimati.....». —

[pg!9] — «No, giuraddio! Temere? Un corno. Temere chi? La mi farebbe attaccar moccoli e ceri! O ch'io mi spiego male o ch'Ella m'ha franteso. Potrà darsi, che, altrove, allignino, tuttavia, scribacchini, a' quali imporre silenzio, con l'intimidazione; ma quì, tra noi, mi giova crederne spenta la razza. I riguardi ci s'impongono non dalla violenza, anzi dalla seduzione, ch'è vera forma di violenza, come sclama l'Emilia Gallotti, nel povero dramma lessinghiano. Sempronio ci pare un imbrattacarte: foss'egli efferato e potente, al pari del tiranno siracusano, glielo spiattelleremmo, sul muso, lì. Ma c'è, che, quantunque imbrattacarte, ha congiunti e congiunte, amici ed amiche, ammiratori ed ammiratrici; ed il critico meschinello (guarda combinazione!) sarà congiunto, ammiratore od amico od altro di alcuna od alcuno fra loro. C'è, che visceri d'uomo, ne abbiamo, ancor, noi, checchè blaterino gli scrittorelli tartassati. Abbiamo le debolezze della carne; ed, al postutto, non siamo angeli, come piagnucolava l'anima candida di Tartufo. Crocifiggeteci e non ritratteremo la menoma scioccheriuola, rivaleggiando coi fanatici (politici e religiosi), i quali si saranno, pur, talvolta, accorti delle assurdità, che perfidiavano nel confessare, per amor proprio malinteso. Ma non oseremmo affermare, che, a mezzogiorno, il sole sta, nel punto zenitale, ove dubitassimo di contristare persona cui ci leghi affetto; di attirarci, puta, occhiatacce bieche, da quel par d'occhi bruni, tanto gentili quando sorridono..... Ecco, io mi trovo, ad un simil bivio: o non dar parola al mio concetto d'Aleardo Aleardi; o calpestare riguardi e rispetti di non piccol momento». —

— «Che? Un par d'occhi bruni.... eh?» —

[pg!10] — «Pure?» —

— «Scrivo! certo, ch'Ella mi perdonerà. Le debbe esser noto a pruova, che, per l'onesto scrittore, quando ha la penna in mano, è giuocoforza scarabocchiare sotto la dettatura di quell'accattabrighe della coscienza. Il solo giornalista di qualche merito in Italia, Ruggiero Bonghi, dice (non so se sinceramente, ma, certo, congruamente): Io non vedo altro compenso dello scrivere, che giovare, dicendo il vero. Quando lo scrittore o non sa o non può vincere le difficoltà, che gli si oppongono a ciò, meglio tacere; e scegliere soggetti, ne' quali non debba mentire o dissimulare, a sè medesimo. Ma il galantuomo, la penna non può non recarsela in mano, quando ha qualcosa da bandire. Chi stima di posseder la verità e non si sbraccia per acquistarle fautori, aderenti, proseliti, partigiani, mi fa schifo. Al levita, capitato in mezzo ad un sinedrio di crisomoscolatri e che si sa provvisto di saldi muscoli abduttori ed adduttori, la sindèresi non concederebbe, mai, pace o tregua, s'egli non iconoclasteggiasse un tantino. Conoscendo quanto io La riverisca, Ella comprenderà, quanto mi affligga, il dover porre alla berlina un verseggiatore mediocre, ma protetto da Lei. E da un tale atto e dalla presente dedica, che ad uomo volgare parrebbe impertinenza, trarrà motivo, per confermarmi quella Sua stima, che tanto ambisco». —

[pg!11]

Angosce finse e simulò letizie

Con quell'accento che non vien dal core.

Aleardo Aleardi — Accanto a Roma.

Fame usurpate

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