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Ripubblico, ritoccati, ma senza alterazioni sostanziali, quattro studî critici, scritti parecchi anni fa. Vennero stampati dapprima in giornali o riviste; e conservano sempre la macchia originale, essendo conditi di capestrerie, che dovevano, secondo me, renderli tollerabili al palato de' lettori di Appendici, Se non erro però, sotto all'intingolo più o men pruriginoso, v'è cibo sano e nutriente.

Ho intitolato il volume Fame Usurpate. Un birrichino d'un pretazzuolo schiericato, mi fece un casa del diavolo addosso, perchè avevo adoperato, in non so che versucciacci, Fame, plurale di Fama. M'ero servito di quel vocabolo pensatamente e confortato anche da esempli numerosi del Petrarca e del Boccaccio. Quindi, invece di recitarne il mea culpa, colgo con piacere l'occasione di ripeter la parola sopra un frontespizio, per mostrare in qual conto tenga le riprensioni delle birbe, degli sciocchi e degl'ignoranti, che s'imponeano a parlar di lingua, senz'aver neppur letto i migliori nostri scrittori.

[pg!2] Non c'è cosa, ch'io aborra quanto le riputazioni scroccate d'ogni genere; quanto le virtù posticce, gli eroi (façon Sapri) finti ed i falsi dei. Nulla di più dannoso per un popolo de' culti irrazionali, di ogni venerazione inconsistente. Ho cercato sempre di purgarne l'animo mio; ed ho sempre consigliato altrui di tenersene immune, di resistere agli andazzi, di non venerare od amar checchessia, se non a ragion veduta. Da sedici anni, in questa Italia, che mi riesce tanto diversa dal mio desiderio, veggo invece l'impostura e la ciarlataneria riscuoter plauso e trionfare; farabutti e dappochi incensarsi a vicenda; le fabbriche di grandi uomini artificiali ingombrare il mercato politico e letterario, e cattedre e parlamento, di prodotti di scarto. Non inchinandomi ad alcun vitello, nè di carne nè d'oro; non comperando io lodi bugiarde con encomî menzogneri; dicendo sempre quel, che io stimo vero; mi son procacciato nemici e malevoli senza fine, molti dolori e non ho fatto gli affari miei. Ma non me ne duole; ch'io so d'aver fatto il dover mio, ch'è meglio.

Potrà darsi, che la pubblicazione di questo volumetto stuzzichi un vespaio. Che m'importa? Ad un Italiano, amante della patria e devoto alla dinastia, che può importare di persecuzioncelle letterarie in questo momento? Qual pettegolezzo o briga o dissapore privato può aggiungere all'amarezza, ch'io provo, vedendo il potere in mani abjette e malfide, scorgendo i pericoli, che corrono la Monarchia [pg!3] e l'Unità, prevedendo l'avvenire, che ci minaccia?

. . . . La cruda e iniqua

Ragion di parte vinse

Valor, senno e virtù; sì che in segreto

Ne geme Italia, rossa di vergogna1.

Uomini peggiori e più scadenti no, che non è possibile l'immaginarne, ma uomini ugualmente malvagi ed insipienti, son forse giunti qualche rara volta altrove al potere: però sempre in tempo di rivoluzione, ne' parossismi della massima perturbazion morale, quando la canaglia prevaleva e sopraffaceva armata mano. Che il santuario dello Stato potesse venir profanato in tempi ordinarî e per le vie legali da tanta dappocaggine ed iniquità; che, per un voto delle Camere, ratificato dagli elettori, dovessimo subire questo obbrobrio di Ministero; mi spaventa e sgomenta. Qual è dunque mai lo stato morale e sociale dell'Italia, se qui è possibile e si tollera pazientemente quel, che altrove non si ammetterebbe neppure come ipotesi?

Per la patria e la dinastia, inseparabili nel cuor mio, nulla posso: non posso nè lavar la macchia, nè rimuovere il pericolo. Ma stimando, che chiunque, comunque, ancorchè per un solo istante abbia potuto acquetarsi ed anche solo mentalmente [pg!4] consentire ad un tanto vitupero e scempio, debba arrossirne; voglio almeno, a tutela della fama mia, dichiarare, pure innanzi a questo volumetto, ch'io non ho nulla di comune con la banda de' sedicenti progressisti.

Roma, 7 Gennaio 1877.

Imbriani.

[pg!5]

Fame usurpate

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