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6. Donna polacca e donna araba
ОглавлениеAdesso, Franzyska è seduta sul letto e sta per parlarmi.
È notte, oramai. La stanza è invasa dal chiarore lunare, come ieri notte che Franzyska entrò qui per la prima volta. Le zanzare ronzano, come ieri notte, ma nè Franzyska nè io ci accorgiamo delle loro punture. La zanzariera è aperta, sebbene Franzyska sia seduta sul letto. Io seggo nella poltrona, di fronte a lei. Da molto tempo Franzyska è rinvenuta dallo svenimento; ma lo svenimento è stato lungo e l’ha prostrata. Ho dovuto attendere che ella aprisse gli occhi, si muovesse, tornasse in vita, senza poter far nulla per portarle soccorso, dacchè mi sarebbe stato impossibile far chiamare un dottore. Ho subito compreso, dopo la scoperta del furto che, comunque fossero andate le cose, la presenza di Franzyska svenuta nella mia camera, avrebbe fatto scoppiare uno scandalo, che io debbo a ogni costo evitare, se voglio avere qualche speranza di ricuperare i documenti. Così, le ho spruzzato il volto di acqua di Colonia, le ho fatto annusare i sali, e ho atteso. L’attesa è stata lunga e non priva di angoscia. Fissando il volto immobile della giovane donna, mi sono domandato quali sentimenti si dibattessero in me. Poichè era evidente che io avevo piena coscienza del danno irreparabile che sarebbe venuto alla mia carriera, alla mia situazione, a me stesso, dall’essermi lasciato rubare così scioccamente carte di importanza eccezionale e in circostanze tutt’altro che favorevoli per la mia reputazione di uomo e di agente segreto di una Grande Potenza, mi chiedevo come mai questo fatto mi turbasse così poco e a ogni modo così sproporzionatamente meno di quanto mi avrebbe certamente turbato, se io non avessi trovata Franzyska svenuta sul mio letto. Una sola risposta potevo darmi: la presenza di quella donna immota accanto a me era bastata a vincere ogni altro turbamento, che non fosse quello dei miei sensi e del mio cuore. Ho detto cuore? È un modo di dire. Certo è che ho provato per quel corpo senza vita, guardando il pallido viso incorniciato dalla zazzeretta luminosa, il mento piccino e sottile, il collo bianco, i due segni del petto netti sotto la seta aderente del pigiama, una tenerezza tiepida e buona, un bisogno più forte di me stesso e delle mie consuetudini, di stringerlo dolcemente e di proteggerlo come se fosse cosa mia. È stata una sensazione nuova. Mai provata, le molte altre volte che avevo tenuta una donna nel mio letto, alla quale pure avessi dichiarato: «Ti amo».
Amavo io, dunque, Franzyska?
La reazione è venuta subito in me, improvvisa violenta, non appena questa seconda domanda si è precisata nel mio cervello. Ah no! non amavo Franzyska e non la avrei amata mai. È bastato che la ipotesi di un tale amore prendesse corpo, perchè io vedessi dinanzi a me il ghigno di Nikola Cripopoulo, i suoi piccoli occhi maligni e fuggevoli, accesi a tratti da lampi di fanatismo e di follia, l’oro dei suoi denti guasti. E sono fuggito contro la finestra, lontano dal letto il più possibile, e ho atteso improvvisamente sconvolto da una rabbia acre e cattiva, facendo forza a me stesso per non gettarmi sopra quel corpo a percuoterlo, stringerlo, morderlo, baciarlo. Baciarlo, sì, a quel modo selvaggio, oltraggioso, bestiale, con cui baciamo una donna che desideriamo e che odiamo, una donna che ci ha fatto acutamente soffrire nella carne, una di quelle donne di tutti, che ci piacciono e che vorremmo schiaffeggiare per poter vederle piangere.
L’attesa ha lentamente calmato i miei nervi eccitati. Mi sono seduto. Nulla volevo fare, prima che Franzyska mi avesse parlato.
E adesso ella mi parla. Si è ripresa completamente. Ma ha sorriso, si è guardata attorno. Dapprima con le ciglia aggrottate e gli occhi indagatori, come per rendersi conto, per ricordare, per ricostruire. Lentamente la sua fronte si è spianata, il suo volto si è rasserenato e mi ha sorriso. Sembra dunque, che, tutto quello che è avvenuto sia normale per Franzyska e che le cose vadano bene così!
— Ho fatto un brutto sogno, John!
Eh! no, mia cara, altro che brutto sogno! Bisogna smettere di sognare a occhi aperti!
— No, Franzyska, non avete fatto un brutto sogno questa volta, come non avete sognato la notte scorsa. Avvengono fatti, che occorre spiegare.
Ella china il capo e mi guarda tra le palpebre socchiuse.
— Non m’interrogate, John! — mormora.
— Non vi interrogo, Franzyska, io sono certo che voi stessa vorrete spiegarmi....
— Che cosa, John?
— Come mai io vi abbia trovata nella mia camera, quando ne eravate uscita alle cinque del mattino, e come mai.... invece, non abbia più trovata la valigia dei documenti.
— Se io vi promettessi, John, di fare tutto quello che è umanamente possibile... e anche di più!... per farvi riavere la vostra valigia, mi lascereste tacere?
— No, Franzyska!
— Avete ragione, John! Vi capisco!
— Se mi capite, risparmiatemi la sofferenza di dirvi quel che penso e quel che sento oggi dentro di me.
— Vi sarebbe molto doloroso, John, usarmi violenza, costringermi a parlare... sì, dico: costringermi a parlare con la forza... con la minaccia?...
Per esempio, puntandomi contro quella vostra rivoltella, che anche adesso dovete avere nella tasca?
— Molto doloroso, Franzyska, perchè...
— Perchè? – e si sporge verso di me col volto ansioso, fissandomi, come volesse guardarmi dentro e come se molto del suo destino dipendesse ora da me e da quanto sto per dirle.
— Perchè... siete una donna, Franzyska.
È stato un attimo di smarrimento, il mio, e mi sono ripreso. Adesso posso anche aggiungere, gelidamente: – Non mi piace minacciare una donna. E se pure per me adesso tutto passi in seconda linea dinanzi alla necessità di riavere i documenti, lo farei soltanto se voi mi costringeste.
Leggo chiaramente sul suo volto il dolore, la disillusione, un accasciamento profondo e disperato. Ma è tempesta rapida. Eccola in piedi, irrigidita, in atteggiamento di sfida, le labbra contratte, il volto pieno di ombre, pur contro il riflesso lunare.
— Non parlerò! Non posso parlare! Non saprete nulla da me.
— Franzyska!
— Battetemi, uccidetemi, non parlerò!
Le sue parole suonano scandite, martellanti. Il petto le ansima affrettatamente. Ella è tutta tesa oramai in una decisione disperata, contro la quale sarebbe inutile lottare. Ho, in un lampo, così viva e netta questa persuasione, che la mia mano abbandona la rivoltella che stringeva ed è con voce mutata, indifferente, cortesemente ironica persino, che le dico:
— Le donne non si uccidono, Franzyska. Non è a voi che volevo dire quel che ho detto. So dove trovare Nikola Cripopoulo. La porta è aperta e io non vi trattengo. Arrivederci, signora.
Mi guarda, ha una esitazione, vorrebbe parlare; ma scuote le spalle, si volge ed esce.
Io rimango solo nella camera illuminata dal chiarore lunare, e sento le zanzare che ronzano attorno a me e finalmente dico chiaramente a me stesso: «John, qualche cosa accade di grave, di molto grave».
Ma che cosa potrebbe accadere di più grave di quello che avviene dentro di me?
Ho passato una cattiva notte, naturalmente. Ma non è questo che conta. Oramai ho fatto il mio piano! Una volta arrivati a questo punto, non si tratta che di tradurlo in azione. Il meno, vale a dire, per restare nelle leggi naturali.
Vi sono leggi insfuggibili in natura, come vi sono nella vita insfuggibili leggi di convenzione, che pure essendo soltanto tali, e quindi arbitrarie, sembrano imposte da un fato superiore. Guardate, per esempio: vi potreste figurare un imperatore, un condottiero, un capo qualsiasi insomma, senza vedere, dico vedere, accanto a lui o sotto di lui un cavallo? No, non potreste, Dunque, imperatore e cavallo costituiscono un binomio inscindibile. Così non potreste pensare a un agente segreto, senza attribuirgli un piano d’azione, sottile, complesso, pieno di pericoli e di travestimenti, di pedinamenti e di fughe, di colpi di rivoltella e di sottrazioni di documenti. A me i documenti li hanno già sottratti, pur troppo! ma mi rimane tutto il resto. Fino a questo momento, io ero in difetto. In difetto, appunto, di un piano di azione. Adesso, me lo sono fatto nel corso di questa notte insonne grave di riflessioni e di incubi (non bisogna pensare! ma come fare altrimenti, se mi pagano per questo?) e sono teoricamente il più forte. A noi due, Nikola Cripopoulo. Io riavrò i documenti e ti taglierò le unghie, amico mio!
Dacchè, come avrete compreso, io sono convinto che i documenti mi sono stati rubati da Nikola Cripopoulo, a meno che non lo sieno stati da Charles Caisgraim, il che sarebbe la stessa cosa.
Il mio piano – almeno la prima pare di esso, chè il bello viene dopo – consiste anzi tutto nel riuscire a entrare nella casa di Nikola. È ovvio che, se io mi presentassi all’uscio di casa sua così come sono e come egli mi conosce, otterrei soltanto di essere rinchiuso nella camera dai sette candelieri o di non poter neppure oltrepassare l’ingresso, perchè la porta mi verrebbe serrata sulla faccia. Non potendo entrarvi col mio volto, occorre che me ne procuri un altro. So per gli amari insegnamenti di Amleto, principe di Danimarca, che così, facendo offendo gli ordinamenti divini: ma non mi andrò a rinchiudere in un chiostro per questo. Un altro volto. Quale? Mi sono guardato lungamente nello specchio e ho provato vari trucchi che avevo con me. Nessuno mi è parso rispondesse alle necessità del momento. Nikola è una volpe vecchia e non si sarebbe fidato nè di un vecchio signore con le basette e gli occhiali, nè di un signore di mezza età con i baffi all’americana e la caramella, nè tanto meno di un giovane dai capelli color carota, dal naso rotondo, pieno di lentiggini, così fortemente miope da dover portare grandi lenti colorate di turchino. Ho pensato per un momento di tingermi il volto di nero e di vestirmi da sudanese; ma con questo calore da bagno turco, non vi sarebbe stata vernice al mondo che non si fosse disciolta sul mio volto in rigagnoli neri. La mia perplessità è stata però di breve durata. In me il genio del travestimento è ereditario, come sapete per via di quel tale costume da pellerossa che mio padre indossava quando io nacqui. Fattasi in me la luce, ho chiamato Mohamed.
— Mohamed, vuoi che io ti regali questo orologio da braccio, di puro argento a 900, che hai già lungamente ammirato e che è certo oggetto della tua più viva concupiscenza?
— Bono Mohamed! Bono padrone! Bono orologio!
— Bene. Ma devi guadagnarlo. Eccoti due lire egiziane. Vammi a comperare un abito completo da donna araba, con il velo, le scarpe gialle, le calze di seta nera, tutto! Hai capito?
— Non capiscio, padrone.
Finalmente ha capito e anche ha dovuto capire che era conveniente per lui tacere con tutti del delicato incarico ricevuto. È andato. E adesso io scendo le scale del Claridge sotto la specie di una molto velata donna araba, accuratamente ravvolto nella testa dalla mellaia, la ermetica habara ricadente in abbondanti pieghe sul ventre, gli scarpini gialli dai tacchi alti che fanno un rumore di zoccoli sul marmo della scala e mettono in evidente pericolo il mio centro di gravità. Gli occhi, largamente bistrati di kohl, sfavillano nel taglio del velo, che un aureo bastoncino sostiene all’altezza del naso.
Attraverso rapidamente la hall e salgo in una vettura. Quasi nessuno ha badato a me: Mohamed mi ha garantito, dopo avermi guardato, che, se mi fossi tinte le unghie di rosso, nessuno avrebbe dubitato un istante della mia qualità di donna araba ancora ligia alle tradizioni più pure. È per questo che nascondo le mani.
Ho dato al cocchiere l’indirizzo di Nikola e per il moto di meraviglia del buon uomo al mio francese di schietto accento londinese, ho capito come sia necessario che io parli il meno possibile.
Ecco il nauseabondo portone di Nikola, salgo le scale, suono il campanello che la mano disegnata sotto la targa continua a indicarmi. Subito la porta si apre e la nera sudanese, lucida come la tuba del mio Primo Ministro, mi è davanti. Mi sorride questa volta amabilmente.
— Saìda, sitt.
— Saìda. Nikola Cripopoulo?
— Aìna, sitt.
E si fa da parte per lasciarmi entrare. Le cose procedono lisce, mi sembra. Purchè non mi rinchiuda nella stanza dai sette candelieri.... Ma no! Procede per il corridoio, apre una porta, mi fa entrare. Eccomi nel gabinetto del chiromante. Come chi dicesse, vale a dire, nel cuore della città nemica.
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