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(16) L'INDAGINE

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Il Conestabile disse: – Dunque eri solo nel Cortile della Mezzanotte?

– Sì, certo.

Il Conestabile mi guardò. Si chiamava Darko Gravosten, indossava una casacca di panno color ruggine, un poco consunta ai polsi. Il suo ufficio era pieno di vecchi schedari di un colore simile a quello della casacca, a parte le maniglie di ottone lucidate dall’uso.

Era la prima volta che mi guardava. Durante tutto l’interrogatorio aveva mantenuto un’aria distratta, rovistando fra le carte sulla scrivania. Ma io non mi ero lasciato ingannare; mi aveva avvertito zio Uri: “Non lasciarti ingannare da Darko.” Lui e Darko erano stati insieme nella Guardia, poi mio zio se n’era andato e il Conestabile aveva fatto carriera.

– E non hai notato niente di strano nel gruppo che è uscito dal passaggio dell’Unicorno? – Ero talmente deciso a non lasciarmi ingannare che anche il fatto che Darko non insistesse sull’argomento, se cioè fossi solo o no, mi parve sospetto.

– No... Però, uno di loro è arrivato qualche momento dopo gli altri.

– Com’era? – Riprese a sfogliare le carte. Cominciavo a sospettare che quanto più la domanda fosse importante, tanto più il Conestabile sfogliava le sue carte.

– Un sole. Aveva una maschera di ottone, raggiante. Grandi occhi. – Non dissi dell’eclisse.

– E gli altri? Sembravano ubriachi, vero? – Parve controllare degli appunti presi in precedenza.

– Sì.

– Non c'era una donna per caso? Capelli biondi?

– Io non l'ho vista. Con le maschere poi...

Darko sospirò. – Già... Ma sei sicuro che... il sole fosse insieme a loro?

– Sembrava di sì.

Sembrava. E pensai: se loro non avevano visto il cadavere, e se il sole era stato l’ultimo a uscire prima che io e la sirena lo scoprissimo...

– La maschera, quella da Grifone... ti sembrava fosse caduta da sola? O che fosse stata strappata?

Non ci avevo pensato fino a quel momento. Le nostre maschere di solito sono bene assicurate al volto.

– Non ho guardato bene... e non c'era molta luce. – E l'orrore di quella faccia livida aveva attirato troppo la mia attenzione. Ma questo non lo dissi.

Darko sospirò. – Puoi andare.

Mi sentii deluso. Dopo che mi ero presentato spontaneamente... (Non del tutto: era stato mio zio a convincermi, quando avevo raccontato in casa quello che mi era successo la sera prima. Lasciando da parte la sirena, si capisce.)

– Forse dovrò risentirti – aggiunse.

Mi alzai con una certa riluttanza. Darko mi accompagnò alla porta. Mi strinse la mano.

– Salutami tuo zio.

– Sissignore.

Aveva una mano enorme, le dita grosse come il mio polso, o quasi. Prima di lasciare la mia, aggiunse: – Sei un bravo ragazzo.

E chissà perché, io pensai che si riferisse alla sirena, e al fatto che non avessi detto niente di lei.

Uscimmo, io e mio zio, per una porta diversa da quella per cui eravamo entrati, e ci ritrovammo in un altro cortile.

Procedura normale, quando l’assassino è ancora in libertà, mi spiegò zio Uri.

Il quale mi tenne anche informato sugli sviluppi dell’indagine. Aveva molti amici nella Guardia, oltre a Darko. Alcuni del gruppo degli ubriachi erano stati rintracciati. Nessuno di loro aveva visto un uomo steso a terra, e nessuno ricordava il sole. Ma erano ubriachi, e le loro testimonianze non sempre coincidevano.

Il mistero più oscuro era quello che circondava il cadavere. Non era stato ancora identificato. Nessuno aveva lamentato la scomparsa di qualche congiunto o amico. Durante quella Festa delle Maschere vi erano stati altri tre omicidi. Tutte queste vittime erano state identificate. Uno degli assassini era già stato catturato. Un altro era stato scoperto, ma si nascondeva, o (cosa più probabile) era fuggito da Morraine. Il terzo si era suicidato dopo il delitto.

L’uomo assassinato nel passaggio dell’Unicorno indossava vestiti di Morraine, fino all’ultimo bottone. La maschera non era stata fabbricata da alcun artigiano, ma molti, come ho detto, se la fanno da soli o la ricevono in eredità. Vestiti e maschera erano stati conservati. Il corpo, dopo essere rimasto alcuni giorni in una cripta sotto l’edificio della Guardia, era stato cremato, le ceneri sepolte fuori dalle mura. Un pittore aveva eseguito un ritratto a carboncino del viso, di fronte e di profilo, per l’archivio color ruggine nell’ufficio di Darko Gravosten.

Anch’io ero stato portato nella cripta, per identificare la vittima. Darko mi aveva chiesto se volevo farlo: era una ben macabra incombenza per un ragazzino. Dissi che non ero più un ragazzino. Il corpo era steso su una lastra di marmo, coperto da un lenzuolo. Scostarono un lembo. Era lui, malgrado la faccia grigia e un po’ gonfia. C’erano altri sei tavoli di marmo nella cripta, tutti vuoti. Il lenzuolo lasciò scoperto l’inizio di un tatuaggio, sul petto, con un uccello a due teste.

Andai alla Biblioteca Canonica di Morraine e consultai alcuni libri di emblemi. Trovai parecchi Soli e Grifoni, ma nulla che li collegasse in qualche maniera. Non ebbi miglior fortuna con gli uccelli a due teste (in gran parte aquile). Darko doveva aver consultato gli stessi libri, o altri analoghi. O forse li conosceva a memoria. Poiché, come ho detto, vittima e assassino sono legati dalle rispettive maschere. In un certo senso, sono le maschere ad uccidere e a morire.

Un giorno, era trascorso circa un mese dalla Festa, mio zio mi prese in disparte. – Sanno dove si trova l’assassino.

– Ah! E non l’hanno ancora catturato?

– Non è così semplice.

– Perché?

– È nel Cortile Segreto.

– Neppure la Guardia può entrarci?

– Oh, sì... avendo delle prove.

– Che non ha?

– No. Non abbastanza.

– Come hanno fatto a identificarlo?

– Non l’hanno identificato. Sanno solo dove cercarlo. E Darko non mi ha detto come c’è riuscito. Vorrebbe parlarti.

– Certamente!

Trovai il Conestabile in un’anonima stanzetta a cui giunsi dopo un giro particolarmente tortuoso, accompagnato da mio zio. L’unica finestra era quella di un abbaiano, da cui scorgevo tetti anonimi.

Nella stanza c’era solo un tavolo e un paio di sedie. Alle pareti, fogli ingialliti, incorniciati senza vetro, con dei ritratti.

Darko e Uri si guardarono per un momento negli occhi, poi mio zio ci lasciò soli.

Il Conestabile slegò i lacci di una cartella appoggiata sul tavolo... Vidi la faccia di un uomo, la barba lunga e lo sguardo corrucciato, disegnata a carboncino.

– Vorrei che tu li guardassi bene – disse Darko. – Nel caso ne conoscessi qualcuno... – Unì le grosse dita sulla pancia, e fissò fuori dalla finestra.

Io cominciai a passare in rassegna i fogli di carta spessa, color avorio. Le facce sembravano tracciate tutte dalla stessa mano: competente ma piatta. I ritratti alle pareti, da parte loro, parevano fissarmi con inquietante intensità.

– Sono ricercati? – chiesi.

Darko vide che guardavo quelli appesi.

– No. – Avevo ripreso a sfogliare i disegni della cartella, quando aggiunse: – Non più.

Dietro ad ogni foglio c’era un sinbolo, una lettera e un numero. Scorsi i ritratti lentamente, soffermandomi su ciascuno circa il tempo di un respiro. Non dedicai più tempo neppure a Torre B 12.

Quando ebbi finito alzai gli occhi. Darko mi stava guardando.

– Vuoi rivederli?

Ripresi a scorrerli, in senso inverso. Indugiai su una Corona, un Unicorno, una Lucertola. Giunto alla Torre ebbi qualche esitazione ulteriore. Alzai la testa, e Darko stava fissando fuori dalla finestra.

– Forse... – Talvolta, una sola parola può cambiare il corso della nostra vita. Un’infinità di cose, del resto, possono cambiare il corso della nostra vita.

Lo straniero pareva molto serio, ma poi sorrise e proseguì.

– Sì? – disse Darko.

– Questo l’ho incontrato, una volta.

– Dove?

– In una bottega di libri.

– Quale?

– Quella di Arno Borissein.

– E poi?

– Poi niente... Mi ha detto che era un Adepto.

– Arno?

– Sì.

– Quando?

– Era inverno... La prima nevicata.

– Ha comprato qualcosa?

– No... Cercava delle mappe.

– Poi?

– Niente. È uscito.

– E tu cosa hai comprato?

– Fiori di bianco prato.

– Cos’è?

– Un manuale di retorica.

Darko sorrise. – Non hai altro da dirmi?

– Il sole... – Ormai non potevo tirarmi più indietro. – Mentre correva quasi perse la maschera. Ho visto dei riccioli biondi. Chiari. Però non vuol dire niente – aggiunsi subito, inutilmente.

Invece di ridiscendere le scale salimmo ancora una rampa. Darko aprì una piccola porta con una grossa chiave.

Strinse la mano di mio zio, poi la mia.

– Non credo che avrò più bisogno di te.

La cosa un po’ mi dispiacque.

Entrammo in una soffitta immensa. Darko rimase fuori e chiuse la porta alle nostre spalle.

Gigantesche travi incurvate ed annerite sostenevano un tetto altissimo, in cui si aprivano rari lucernari che dissipavano appena le tenebre.

Ci incamminammo. Sparsi qua e là, si ergevano ordigni enigmatici, ricoperti da teli polverosi. Di tanto in tanto, a destra e a sinistra, si spalancavano altre soffitte, ancora più buie; incontrammo anche un paio di scale, che salivano ripide verso qualche torre.

Non avevo mai visto spazi chiusi così grandi, a Morraine. Avrebbero potuto viverci decine e decine di famiglie!

Nessuno di noi due parlò per tutto il tragitto.

Infine, mio zio armeggiò intorno ad una botola. C’era un meccanismo a molla, che, immaginai, serviva a non farla aprire dal basso.

Una stretta scala in pietra conduceva ad un ballatoio, con dei panni stesi ad asciugare. Poi delle scale malandate, dove incontrammo bambini non molto puliti e donne che li chiamavano gridando.

Cominciavo ad immaginare dove saremmo finiti.

Attorno ad una delle due fontane c’era un gruppo di ragazzini. Forse erano gli stessi che ci avevano fatto scappare l’estate prima.

Con mia sorpresa, zio Uri si infilò nella porta di un’osteria. L’oste lo salutò come se lo conoscesse. Ci sedemmo ad un tavolo. Mio zio ordinò un boccale di vino. Io avevo fame, e l’oste mi portò due fette di pane scuro, con una salsa indecifrabile e del pesce sotto sale. Per calmare la sete, bevvi qualche sorso del vino di mio zio.

– Hai detto tutto a Darko?

– Sì... Più o meno.

Mio zio finì il vino, e ce ne andammo.

Lia

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