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(20) ARQUIN

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– Ecco – disse Gost Baran. – Questi sono gli strumenti.

Da sotto il carro tirò fuori una cassetta di legno, appesa a un gancio. Gost Baran era l’uomo corpulento della sera prima. Aveva anche una folta barba rosso fulvo e il naso rosso violaceo. Era Tiranno, Buffone, Vecchio, Re, Fanfarone e Mangiafuoco. Era anche il capo della compagnia.

La cassetta conteneva: un martello dal manico spezzato, una sega arrugginita, una tenaglia con le ganasce sconnesse, uno scalpello spuntato, un trapano con la punta storta, un assortimento di chiodi usati.

– Non credo che potrò fare molto con questi – dissi io.

– Non vanno bene? – chiese Gost Baran sollevando le sopracciglia rosse e folte come la barba. Possedeva una voce profonda e minacciosa: non sapevo bene se era una cosa naturale, o se gli veniva da qualcuno dei suoi ruoli. Avevo l’impressione che i miei nuovi compagni recitassero sempre, come se i personaggi fossero entrati dentro di loro. Come, mi venne in mente, se vivessero una perenne Festa della Maschere.

Il fatto era che avevano trovato un ruolo anche per me. O più modestamente un lavoro: quello di falegname. Con degli attrezzi inservibili.

– Vedete, signore, questo per esempio non taglia – gli mostrai lo scalpello, passando un dito sulla lama. – E uno scalpello serve per tagliare il legno. Questa è storta – gli mostrai la punta del trapano. – Come può fare i buchi? E poi non c’è neppure una pialla...

Gost alzò le spalle. – Bah! Myrtilla ti darà una pietra per affilare. Un buon artigiano si ripara da solo i suoi attrezzi.

Myrtilla era la ragazza bionda. Servetta, Smorfiosa, Ingenua, Principessa, Scudiero, Garzone. Siccome era anche la cuoca, si occupava dei coltelli. In quel momento stava lavando le stoviglie. Eravamo fermi in una radura, poco lontano dalla strada. Durante il pranzo, avevano passato in rassegna le mie abilità, e avevano deciso che la cosa più utile che potessi fare era di occuparmi della manutenzione degli attrezzi di scena e del carro. Sarei anche potuto comparire sulla scena in qualche parte muta: si erano resi subito conto che come attore non avevo molta stoffa, ed ero troppo vecchio per imparare l’arte del giocoliere o del saltimbanco, a cui bisogna applicarsi fin da bambini.

Potevo anche mischiarmi al pubblico per applaudire, e molte altre cose che mi sarebbero state dette di volta in volta. Tutti lavori non indispensabili, nella rigorosa economia di una compagnia ambulante. Ma suppongo che Occhi di Gatto, o chi per lei, li avesse adeguatamente ricompensati.

– A Larissa potremo comprare gli attrezzi che ti mancano – disse Gost andandosene. Larissa era la nostra prossima, e per me prima, tappa. Gost se ne andò con passo maestoso: si esercitava nella parte del Re Grendel, protagonista della tragedia omonima, che avremmo recitato fra due sere. Avrebbero recitato, cioè.

Non avevo osato dire delle mie ambizioni di poeta: in parte perché temevo di non essere preso sul serio, in parte perché non ero sicuro che a loro servisse un poeta: sembravano recitare più che altro a soggetto.

Così andai da Myrtilla a prendere la pietra per affilare lo scalpello.

– Che te ne pare della tua nuova vita? – mi chiese il nano.

Io ero sdraiato sull’erba e scrutavo una nuvola a forma di muso di tigre, che si andava trasformando in un rospo.

– Non so... È appena cominciata – risposi a bassa voce. Gli altri dormivano sdraiati qua e là sull’erba o sul carro, dopo una notte parzialmente insonne. Per parte mia, non riuscivo a chiudere occhio. Era la prima volta che trascorrevo tanto tempo fuori dalle mura di Morraine.

Dumpy Dum si grattò il naso con le unghie del piede destro. Era lui quello che avevo scambiato per un bambino con la voce di adulto, e usava il piede per grattarsi perché in quel momento le mani gli servivano per tenersi ritto a testa in giù. Come gli altri, usava i momenti liberi per ripassarsi la parte.

– La nostra è la vita più bella che ci sia al mondo – dichiarò Dumpy Dum, che doveva essere un nome d’arte. Aveva i due bicipiti più grossi che avessi mai visto in vita mia, le guance con due pomelli rossi che non capivo bene se fossero dipinti, la barba bionda e rada.

– Che ha di bello ? – chiesi.

Dumpy Dum sollevò un braccio, rimanendo appoggiato sull’altro. – Dipende – disse. Non era la posizione adatta per lunghi discorsi.

– Da cosa?

Il nano tornò su due mani. – Prendi il mio caso. Nessuno ci trova qualcosa di strano in me, vedendomi su un palcoscenico. Anzi: mi applaudono. Nel mondo normale sarei compatito.

Nel mondo normale? In che razza di mondo vivevano gli attori? La conversazione languì, mentre Dumpy Dum eseguiva una serie di capriole. Per riposarsi si rimise sulle mani: per lui sembrava una posizione più naturale che starsene in piedi. Forse era anche naturale che vedesse il mondo al contrario.

– Ma nel caso di Gost? – chiesi. – O di Myrtilla? Vale anche per loro?

– Naturalmente! In che modo potrebbero essere Re o Principesse, altrimenti?

– Ma è solo una finzione.

Il nano alzò (cioè, abbassò) le spalle. – Un sacco di Re o Principesse lo sono per finta.

– Non per i loro sudditi.

– Ecco! Noi facciamo meno danni! Un altro punto di merito.

Non potei fare a meno di ridere. – Questo comunque non risolve il mio problema, visto che come attore sono un fallimento.

– E che ne sai? Hai mai provato davvero?

Oh, se avevo provato! – Sì... una volta.

– Be’, tutto si impara. Ci vuole tempo. – Dumpy Dum amava le sentenze, anche a costo di essere banale.

– Ma non tutti diventano attori.

– Perché mancano di costanza.

– Solo per questo?

Il nano eseguì qualche salto mortale all’indietro, forse per sfuggire alla domanda. Ma io continuai a guardarlo, in attesa, e alla fine rispose: – Molte cose sono necessarie per mettere in scena uno spettacolo, dal poeta che ha scritto la tragedia al falegname che costruisce il palco.

– Certo – non potei trattenermi. – Ma il falegname io lo facevo anche a Morraine.

Con un solo movimento del corpo Dumpy Dum si sedette e mi fissò negli occhi. – Tu non vieni da Morraine. Tu non hai mai abitato a Morraine. Ci sei stato solo di passaggio, insieme a noi. Tu sei nato sulla strada e vissuto sulla strada. Ricordatene sempre. E per non sbagliare la parte, fai come gli attori: ripassatela in continuazione, anche quando sei solo con noi cinque. E cerca di perdere quell’accento in fretta.

Rimase in silenzio qualche momento, poi aggiunse: – Il tuo nome d’ora in poi sarà Arquin. È il nome di un pagliaccio.

Detto questo, se ne andò.

– Sono un falegname – mormorai al nano. – Che ci faccio su un carro di attori? – Eravamo stesi sulle panche accostate della sala da pranzo di una locanda che si chiamava La Luna Nuova. Fra la mia schiena e il legno delle panche c’era un materasso che odorava del sudore di troppe persone, e chissà di cos’altro. Ma dopo di allora, ho dormito in posti peggiori.

La sala era immensa, e odorava a suo volta di fumo, di vino e del grasso colato sul fuoco. Nel camino c’erano abbastanza braci da durare fino al mattino. La luce rossastra mostrava le volte annerite, i tavoli con sopra ancora qualche bottiglia, le forme dei clienti addormentati sotto le coperte. La locanda possedeva anche delle stanze, al piano superiore, occupate dalle donne e da viaggiatori più danarosi.

– Ognuno ha la sua missione – disse Dumpy Dum con ponderosa banalità. Aveva bevuto non poco, e questo lo rendeva più sentenzioso del solito.

– Balle!

– Shh! Vuoi svegliare tutti?

– Questa missione non me la sono scelta io...

– Ragazzo, questo capita alla maggior parte degli uomini.

– ... me l’ha scelta Occhi di Gatto.

A voce ancora più bassa, Dumpy Dum disse: – È bene non parlare mai della Signora. Sotto qualsiasi nome.

Avrei voluto mettermi a piangere. Avrei voluto dire: “Voglio tornare a Morraine, voglio tornare a casa.” Solo la vergogna mi trattenne.

Restammo in silenzio a lungo, tanto che pensai che il mio compagno si fosse addormentato.

– Dumpy Dum? – sussurrai.

– Che vuoi?

– È vero che andremo sulla costa?

– Naturalmente. In autunno tornano i galeoni dalle rotte oceaniche. Le città sono piene di mariani e mercanti, con le tasche gonfie di soldi e una gran voglia di divertirsi.

– Hai mai conosciuto Lelius Abramus?

– Chi?

– Lelius Abramus. Ho visto un suo spettacolo, a Morraine. Teseius e Phenissa.

– Capisco.

Cosa avesse capito, non lo sapevo. Ma evidentemente non aveva intenzione di rispondermi. Quando lo chiamai di nuovo, doveva essersi addormentato.

Lia

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