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(24) I CACCIATORI

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– Ma noi che colpa potevamo avere?

– Si erano preparati, non ti pare? Dovevano saperlo in anticipo.

– Avevamo attaccato manifesti per tutta la città! – Dumpy Dum alzò le spalle, o immagino che lo facesse, nel buio.

– I nuovi regimi sono sempre sospettosi. – Dopo un istante aggiunse: – E anche quelli vecchi.

Sebbene fosse trascorsa da tempo la mezzanotte, il carro non si era ancora fermato. Procedeva lento sulla strada tortuosa e in salita, in una notte appena rischiarata dalle stelle, fra le colline a sud di Larissa.

– Gost ha paura che ci inseguano?

– Che ci ripensino – rispose laconico il nano.

Ad una lega dalla città, il nostro impresario aveva abbandonato la strada maestra, quella che conduceva ad oriente, verso il regno di Ichomene, per imboccare un viottolo che, sospettavo, neppure lui conosceva bene, perché ad ogni bivio o incrocio si fermava, e poi aveva l’aria di riprendere il cammino a caso.

– Dove stiamo andando?

– Credo che voglia trovare la strada per il mare.

Il mare!

All’alba, ci eravamo appena svegliati, ricevemmo la visita di due cacciatori. Apparvero nel nostro campo come un lento manifestarsi di ombre e di foglie e di rocce, finché non assunsero forma umana. Uno era anziano e piccolo e nodoso. L’altro giovane e piccolo e magro. Non dissero una parola. Il primo ci porse una sorta di collana: uccelli infilati per il collo in un giunco, già spennati.

Gost Baran, con notevole prontezza di spirito, li ringraziò e fece segno a Myrtilla di tirare fuori le nostre provviste, quel poco che c’era. Invitò i due cacciatori a sedersi. Il più giovane, con poche mosse, risveglio di muovo le fiamme dalle ceneri della notte. Myrtilla infilò gli uccelli in uno spiedo, insieme a dei pezzi di lardo, e li pose sul fuoco; poi tagliò il pane e del formaggio che aveva acquistato a Larissa la sera prima. Baran cavò da un nascondiglio del carro una bottiglia di vino e la stappò con sussiego, come avevo visto a fare da certi camerieri nelle locande dei cortili ricchi di Morraine.

I due non dissero nulla, mentre gli uccelli rosolavano. Ringraziarono con cenni del capo per il vino e il pane, bevvero, aspettarono. Avvolti nei loro mantelli grigio-verdi, assomigliavano a quei cacciatori che venivano a Morraine nei giorni di mercato.

Risposero ad una sola domanda: i loro nomi. Riskrill il vecchio, Paradin il giovane. Ben presto, anche la loquacità di Baran si arrese.

Una sola volta si mossero: il vecchio sfiorò con la mano il polso del suo compagno più giovane, con l’altra indicò un punto sopra la cima di certi alberi. Dopo qualche battito di cuore, un uccello dalla lunga coda bianca si alzò in volo.

Mangiammo. Del primo uccello, Riskrill gettò nel fuoco la testa, si lanciò alle spalle le ossa, seppellì in un buco praticato in terra con un dito il fegato. Paradin lo imitò con cura.

Il giovane era seduto vicino a me.

– Perché? – chiesi, senza molta speranza di ricevere una risposta. Ma forse il cibo e il vino, oppure l’esecuzione della cerimonia, avevano rotto la consegna del silenzio.

– Per conciliare. Il loro spirito – rispose. La sua voce era bassa, leggermente roca, come il fruscio del vento fra le foglie secche. Mi venne in mente che era come il suo mantello: adatta a confondersi con il bosco. – Lo spirito degli animali. Ha quattro forme. Fuoco. Aria. Terra. Acqua – aggiunse inaspettatamente.

Ci misi un momento a capire. Ma... – Acqua? – chiesi, parlando anch’io a voce bassa.

– La saliva – rispose lui.

Il ragazzo aveva più o meno la mia età. – È tuo padre?

– No. Maestro.

– Come faceva a sapere che quell’uccello si sarebbe levato?

– Il maestro è un grande cacciatore. Conosce la natura degli animali. – E dopo una pausa, a voce ancora più bassa: – Un giorno anch’io sarò un grande cacciatore.

Osservai il giovane Paradin con una certa invidia. Lui sapeva cosa sarebbe diventato. O almeno cosa voleva diventare. Il suo sguardo incrociò il mio.

Baran disse: – Stiamo cercando la strada per il mare.

Riskrill disse: – Vi accompagneremo. Per un tratto.

– Da dove vieni? – chiesi a Paradin.

– Gaskill. È un piccolo villaggio. – Indicò una direzione. Non chiese da dove venissi io.

Notai un movimento con la coda dell’occhio. Riskrill si era alzato, senza produrre il più piccolo rumore. Paradin lo imitò dopo la pausa di un respiro.

Il vecchio indicò – Di lì. Vi raggiungeremo. Volete comprare cibo?

– Sì, certo! – disse Myrtilla.

I due se ne andarono senza voltarsi. Appena superati i primi alberi, svanirono del tutto alla nostra vista.

Due ore dopo, e una lega circa di strada, ad un crocevia: eccoli ad attenderci.

Paradin appoggiò a terra un involto di pelle. Lo srotolò. Carni rosse, scuoiate. Forse due lepri e qualche uccello che non riconobbi. Alcune radici e delle erbe, raccolte in mazzi.

Myrtilla si inginocchiò per guardare. – Quanto? – chiese.

Il maestro nominò una cifra, molto modesta. Baran lo pagò senza mercanteggiare, e Myrtilla mise cacciagione e vegetali in un cesto. Paradin riavvolse la pelle. I due presero per una delle strade e noi li seguimmo. Non si voltarono mai a guardarci, né ci rivolsero la parola. Di tanto in tanto si scambiavano occhiate, segni, forse un paio di volte una parola sussurrata. Nessuno di noi osò turbare i loro misteriosi colloqui. I pochi contadini che incontrammo salutarono i cacciatori come se li conoscessero, ricevendo in cambio un cenno del capo.

Poco prima di mezzogiorno raggiungemmo una sorta di passo fra le colline. La vegetazione era rada: ginepro, ginestre quasi in fiore, qualche quercia. Molte altre piante di cui un abitatore della città, come me, non conosceva il nome, e probabilmente non lo conoscerà mai.

Oltre il crinale, le colline si adagiavano nella pianura. La calura rendeva indistinti i contorni, ma si intravedeva il nastro grigio-argento di un fiume, macchie più scure che forse erano città, tratti più chiari di strade.

Riskrill indicò. – Ah! – disse Baran, come riconoscendo i luoghi.

Paradin era sparito. Tornò poco dopo con della legna secca. Come per incanto, il fuoco era già acceso. Myrtilla gli sorrise grata e prese le provviste, gli attrezzi da cucina.

Ricordo che faceva molto caldo, le cicale cantavano forte fra l’erba secca, e la strada polverosa aveva accresciuto la nostra sete. Myrtilla prese un fiasco di vino che aveva tenuto in fresco nella botticella dell’acqua.

Paradin si sedette di nuovo accanto a me, per mangiare. Io mi ero tolto la giacca, e l’amuleto di Occhi di Gatto mi usciva dalla camicia slacciata. Me lo tolsi dal collo e lo mostrai a Paradin. Forse perché era l’unica cosa che avessi che potesse interessarlo, pensai.

Lui lo prese e se lo rigirò fra le dita. Era una sfera perfetta, nera, di un materiale opaco e liscio, che non avevo mai visto e di cui non sapevo il nome. Vidi che anche Riskrill la fissava.

– Questo – disse Paradin. – Possiede un grande potere.

– Come lo sai? – chiesi.

– Noi... cacciatori. – Con un movimento degli occhi cercò forse l’approvazione di Riskrill. – Conosciamo la magia. La caccia è magia. Il cibo è magia. La magia... – Non gli avevo mai sentito fare un discorso così lungo. – È sapere le cose.

Riskrill si alzò. Paradin teneva ancora fra le dita la sfera magica. Me la restituì, e nel farlo la sua mano si strinse attorno alla mia.

– Vi ringraziamo – disse Baran.

Fra i cespugli bassi, i due sparirono, in un tempo sorprendentemente breve.

Lia

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