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(29) IL MERCATO

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Ci fermammo a Gyenna tre o quattro settimane, non ricordo bene.

Una notte prese a soffiare un vento caldo e umido, da sud. Mi svegliai con un senso di oppressione, come se l’aria non bastasse a riempirmi i polmoni.

Gli altri, Baran e Dumpy Dum, dormivano. Astrix aveva trovato alloggio presso amici, a suo dire. Le donne dormivano in un’altra stanza. Non solo avevamo una stanza per noi uomini, ma anche letti singoli. Gyenna è ricca e usa a ricevere molti viaggiatori: benché a buon mercato, la locanda era la più lussuosa in cui mi fossi mai fermato dall’inizio del viaggio.

I miei compagni producevano i soliti rumori di chi dorme; la casa costruita sull’acqua scricchiolava assecondando le onde. Ma c’era un altro suono che veniva da fuori, indefinibile.

Mi alzai, mi vestii in silenzio. Le stanze davano su un ballatoio. La porta aprendosi cigolò, ma non più forte di quanto facesse normalmente la casa.

Fuori, una luna perfettamente rotonda colava la sua luce sul mare, trasformando in argento fino il legno di ibix e le figure di draghi scolpiti, proprio come aveva detto Baran. Alcune nubi, in alto, riflettevano il rosa pallidissimo di un’alba ancora lontana. Io ricordai un’altra luna piena, sui tetti di Morraine.

Mi guardai intorno. All’estremità del ballatoio, nell’ombra di un tetto vicino, una figura era appoggiata alla balaustra. Piangeva. La scrutai a lungo, mentre i miei occhi si abituavano al buio.

Era Gertrid.

Le nuvole si fecero di un rosa più acceso. Gertrid si asciugò le lacrime, rientrò.

Io richiusi la porta alle mie spalle, raggiunsi le scale in fondo al ballatoio, scesi.

Un ragazzo che avrà avuto la mia età stava accendendo il fuoco, sotto un calderone pieno di acqua.

– Non è presto per la colazione? – chiesi.

– È giorno di mercato. I venditori arrivano di buonora, per prendersi i posti migliori. Viaggiano tutta la notte, per mare e per terra, hanno fame. Da noi naturalmente arrivano quelli di mare.

– Da che parte è il mercato?

Il ragazzo mi guardò come se fossi un po’ stupido.

– Dappertutto. Il mercato della luna è il più grande della costa.

– La luna?

– Si tiene il giorno dopo ogni luna piena.

– E cosa si vende?

– Tutto – disse, e mi voltò le spalle, riprendendo il suo lavoro. Io rimasi lì, senza sapere cosa fare.

Dopo un po’ si voltò. – Hai fame?

– Un po’...

Mi portò delle fette di pane, una ciotola di burro giallo. Quando l’acqua del calderone cominciò a bollire preparò del tè. Aveva un profumo di fiori.

– Tu sei con i comici?

– Sì.

– Cosa reciti?

– Oh... – Mescolai il mio tè. – Questo e quello...

– Hai viaggiato molto?

– Oh, sì... Larissa, Phainon... Morraine.

– Io quando sarò più grande mi imbarcherò. Un giorno avrò una nave tutta mia. – Forse vide il mio sguardo sulla sua camicia unta e sporca di cenere, perché dopo un attimo aggiunse: – Spero...

In quel momento entrò il primo cliente, e il ragazzo andò a servirlo. Dalle finestre filtrava la luce dell’alba.

Io uscii, per la prima volta da solo in una grande città.

Recitare a Gyenna rendeva bene: la gabella di ingresso non era troppo esosa, gli spettacoli sempre discretamente affollati. Oltre agli abitanti della città, che è piuttosto grande, c’erano marinai, viaggiatori, mercanti; dopo settimane, talora mesi, confinati su una nave, cercavano svaghi e divertimento. Che non erano in primo luogo quelli del teatro, ma magari in terzo o quarto sì.

Questo per dire che Gost Baran aveva diviso, per la prima volta da quando mi ero unito al carro dei teatranti, i guadagni. Facendo le parti con grande equità, ossia, in misura decrescente: a Gertrid, ad Astrix, a Dumpy Dum, a Myrtilla, e a me. Il resto se l’era tenuto.

Perciò avevo qualche soldo in tasca, oltre a quelli che mi avevano dato i miei genitori alla partenza da Morraine; e quelli di Occhi di Gatto. Questi ultimi avevo giurato di spenderli solo in caso di estrema necessità: per non morire di fame o per salvare qualche principessa in pericolo mortale, ad esempio.

Preferivo pensare che quella borsa appartenesse al passato.

Uscii, dunque.

La città sull’acqua è un unico molo. Accanto alla Sirena Australe due barche stavano scaricando ceste ricolme di pesci che ancora si muovevano, e balle di tela grigia, dal contenuto misterioso, pesanti, che producevano tonfi sordi sulle tavole di legno bagnato.

Mentre il cielo trapassava ad un’altra sfumatura di blu, io raggiungevo il confine fra le due città. Qui barche e carri si contendevano ogni braccio di spazio. I muli soffiavano dalle narici umide. L’acqua oleosa lavava le conchiglie incise sulle pietre.

Dai moli salivano gradini arrotondati da infiniti piedi. La Gyenna di terra è quasi tutta in salita, per chi viene dal mare.

Sorgevano tendoni, alcuni colorati, la maggior parte grigiastri a causa del sale, della pioggia, della sporcizia. I venditori avevano iniziato ad esporre le loro mercanzie, alcuni per terra, altri su bancarelle costruite con i materiali più vari. Le donne cominciavano ad uscire dalle case per le compere.

Lo sguattero della Sirena Australe aveva detto il vero: al Mercato della Luna di Gyenna si vendeva di tutto: ciò che era lecito e, mi parve di intuire, ciò che non lo era; cose che conoscevo e altre che non avevo mai visto; prodotti della terra, del mare, e dell’artificio umano.

Ed ecco, sotto un arco, appese ad una rastrelliera triangolare: delle maschere. Mi fermai, trattenendo il fiato. Erano maschere di Morraine. Non vere maschere, in verità: solo quelle che noi chiamiamo larve. Non mi era mai venuto in mente che potessero diventare oggetto di commercio, in altre città. A che fine, poi? Come ornamento? Per altre feste, in altri luoghi? Non potevo credere che esistesse un’altra Festa delle Maschere, fuori da Morraine.

Feci un passo avanti, con l’intenzione di chiedere al venditore, poi cambiai bruscamente strada. Ero Arquin, adesso. Non dovevo dimenticarlo.

Prima di allontanarmi, lanciai un’occhiata al venditore: un ometto piccolo, dall’aria malaticcia, del tutto anonimo.

Altri individui, molto più singolari ai miei occhi, attirarono ben presto la mia attenzione: uomini dalla pelle nera e lucida, come se fossero stati immersi nell’olio; indigeni delle Isole Orientali, di cui si scorgevano solo neri occhi a mandorla da una fessura del velo; cinocefali, con diamanti incastonati nei canini sporgenti.

Attorno a me, sentivo parlare lingue che neppure avevo mai immaginatio. Per la prima volta mi rendevo pienamente conto di essere nato in una piccola città.

Col sorgere del sole le spezie emanavano più forti i loro odori, e i venditori avevano cominciato a vantare con alte grida la qualità delle loro merci e la modestia dei loro prezzi. Io soppesavo le monete nella tasca, cercando di decidere cosa comprare.

Un coltello, pensai. Non avevo un coltello, e nella mia nuova vita sulla strada poteva essere utile per mille evenienze, non necessariamente drammatiche.

Un mercante dalla pelle gialla, due lunghi codini di capelli intrecciati con amuleti, il mantello color ocra, aveva appoggiato sui gradini di una salita delle cassette, che su un fondo di velluto nero mostravano file di lame di Njard, di ogni lunghezza e forma, alcune cesellate, le impugnature di legno, osso, cuoio. L’acciaio grigio aveva sfumature di perla e azzurro.

Lia

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