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1.2.1. Svizzera o Italia: la percezione geografica della Lombardia svizzera
ОглавлениеIn età moderna, le Alpi si possono considerare, con buona approssimazione, la frontiera che separa lo spazio geografico e culturale italiano da quello tedesco. A questo assetto, che si prefigura già in epoca medievale, si riferisce DanteAlighieriDante nel ventesimo canto dell’Inferno, ambientato nella quarta bolgia dell’ottavo cerchio, dove sono puniti gli indovini. Nel testo, parlando delle origine mitiche di Mantova, VirgilioVirgilio MaronePublio menziona il lago di Garda, detto Benaco (lat. benacus), formatosi ai piedi della catena montuosa delle Alpi, che separa l’«Italia bella» dalla «Lamagna», Inf. XX 61-63:
Suso in Italia bella giace un laco,
a piè de l’Alpe che serra Lamagna
sovra Tiralli, c’ha nome Benaco.
Restringendo la prospettiva alla Lombardia Svizzera, il più importante punto di contatto tra le culture – che ha delle conseguenze sensibili anche sulle varietà linguistiche locali, come si vedrà nel secondo capitolo – è rappresentato dal principale valico alpino della regione, ovvero dal passo del San Gottardo. Il varco, forse praticato già in epoca romana, quando il gruppo montuoso era riconosciuto con il nome di Mons Tremulus, è dal Basso Medioevo (verso la fine del secolo XII) una via di comunicazione e commercio intensamente percorsa, volgarmente chiamata anche con il sintagma “via delle genti”.1 Con l’apertura di questo valico tra il mondo germanico e l’Italia, di notevole rilevanza economica e politica, le valli lombarde alpine e prealpine acquisirono una funzione strategica, che di fatto condizionò la loro storia. La denominazione Mons Tremulus, che oggi si conserva unicamente nel nome della strada della Tremola, che collega il comune di Airolo al passo del San Gottardo, deriva forse dal timore che il massiccio doveva suscitare, in ragione della sua imponenza (si pensi al mito del “tetto del mondo”), delle impervie e pericolose vie di passaggio e del clima particolarmente rigido che si incontra sulla sua sommità in ogni stagione.2 Ne riferisce il prete Pietro MartinoloMartinoloPietro, curato a Faido nei primi anni del secolo XVII, in un componimento latino dedicato a Carlo BorromeoBorromeoCarlo, redatto in distici elegiaci e pubblicato a Milano nel 1620.3 Nel testo, scritto in memoria della visita del Cardinale nella valle Leventina del 1581, durante la quale fu anche sul Monte Gottardo, MartinoloMartinoloPietro stabilisce nelle Alpi il confine naturale tra la cultura tedesca e quella italiana. Nella poesia l’autore avanza inoltre una proposta sull’origine del toponimo Mons Tremulus e chiosa il successivo mutamento della denominazione, avvenuto nella prima metà del secolo XIII (nel 1237: «Monte Sancti Gottardi»), che prese il nome dell’ospizio dedicato al vescovo benedettino Gottardo di HildesheimGottardo di Hildesheim (961-1038), canonizzato nel 1131 da Papa Innocenzo IIInnocenzo II. Il culto del santo ebbe da subito fortuna oltralpe come in Italia, ad esempio a Milano, dove a lui furono votate chiese e cappelle. Questo fatto spiega forse la scelta, presa dall’arcivescovo Galdino di MilanoGaldino di Milano, di fondare sul tracciato del valico l’ospizio «di San Gottardo» (1171), al quale venne aggiunta una chiesa nel 1237.4 Tornando al testo, volgendosi verso il massiccio alpino il curato MartinoloMartinoloPietro scrive:
Terminus hic Itali, Teutonicique jacet.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Mons alias tremulus dictus, quia causa tremoris.
Tam rigor alpinus, quam lapidosa via.
Ast postquam Goldinus sanctus episcopus Urbis,
Fundarit templum, quod benedixit ibi
Sub titulo Sancti Gottardi, nomen ab isto,
Mons sumpsit Divo, sicque rocatur adhuc.5
La catena alpina è dunque percepita come la frontiera geografica e culturale che separa, come nella visione proposta da DanteAlighieriDante nella Commedia, l’Italia dalla Germania. È lecito supporre che la stessa idea fosse condivisa anche da un altro religioso attivo nella regione, ossia Giovanni BassoBassoGiovanni il prevosto della comunità di Biasca, situata nel baliaggio comune della Riviera. Infatti, in una planimetria tracciata di suo pugno, prodotta nell’ambito di un progetto di restauro e ampliamento della chiesetta e dell’ospizio situati sul passo del Gottardo, il prevosto aggiunge la postilla «Discesa in italia lontano 5 miglia dalla prima terra Aerolo» in corrispondenza del lato degli edifici rivolto a sud-est, verso la Lombardia Svizzera, considerata dunque territorio italiano.6
Infine, per aggiungere un esempio relativo alle percezione geografica della regione che riassume al contempo anche le caratteristiche delle denominazioni osservate nel primo paragrafo del capitolo, fra i documenti conservati all’Archivio storico diocesano di Milano concernenti le visite pastorali nelle Tre Valli svizzere (sez. X), si legge un passo che colloca questi territori «negl’ultimi confini di Italia», riconoscendo implicitamente le Alpi come grande frontiera culturale:
Nelle Tre Valli Riviera, Leventina e Bregno poste negl’ultimi confini di Italia, diocese di Milano e dominio de’ Sig.ri Svizzeri non è in uso l’officio di s. Inquisitione, ma solo la giurisditione ordinaria del’arcivescovo e del Nontio Apostolico apresso a Sig.ri Svizzeri residente.7
Come nei testi degli scriventi autoctoni citati sopra, anche i forestieri giungendo dal nord e procedendo in direzione del versante lombardo delle Alpi percepiscono il naturale scarto geografico e culturale, che schematizzano in genere nel passaggio dall’area germanica a quella lombarda o italiana, a prescindere dalla sovranità politica svizzera. Così, ad esempio, l’avvocato e poeta piccardo Marc LescarbotLescarbotMarc (ca. 1570-1642) scrive versi che documentano questo assetto geografico nel suo Tableau de la Suisse (1618), un prosimetro relativo al viaggio da lui compiuto a seguito dell’ambasciatore di Francia Pierre de CastillePierre de Castille tra il 1612 e il 1614.8 Nel brano relativo alla descrizione dell’origine della Reuss e degli altri fiumi che sgorgano dal Gottardo, LescarbotLescarbotMarc osserva che percorrendo la valle d’Orsera, dove si trova il borgo urano di Hospental, si giunge attraverso le Alpi fino in Lombardia:
Entre Oursere [Val d’Orsera] est encor au profond de ce val
Un bourgad petit appellé l’Hospital [Hospental],
Qui par le mont Gothart conduit en Lombardie.9
Ai primi del Settecento il sentiero di difficile percorrenza che valicava il monte fu reso più praticabile con alcuni interventi volti a costruire una strada carrabile, fra cui il traforo dell’Urner Loch (la ‘buca d’Uri’) tra Andermatt e il Ponte del diavolo, opera dell’ingegnere valmaggese Pietro MorettiniMorettiniPietro.10 L’ingegnere, attivo e noto in tutta Europa per le sue costruzioni militari, nell’Enciclopedia metodica critico-ragionata delle belle arti dell’abate D. Pietro ZaniZaniPietro fidentino del 1823 è registrato come individuo di patria o nazione comasca, a riprova della confusione etnico-identitaria che persisteva ancora nel corso dell’Ottocento.11 Tornando al discorso lasciato poco sopra, in epoca romantica divennero sempre più intensi i transiti attraverso il valico alpino, che rimase impresso nell’immaginario dei numerosi viaggiatori diretti verso le principali tappe italiane del grand tour. Le testimonianze di questi personaggi sono state raccolte nel 1989 in un volume curato da Renato MartinoniMartinoniRenato, che documenta anche in anni vicini all’assestamento politico della Confederazione (1803) la consueta identificazione dei baliaggi italiani con l’Italia, culturalmente intesa. Così, la scrittrice inglese Helen Maria WilliamsWilliamsHelen Maria (1762-1827), nella cronaca del suo Tour in Switzerland (1798), annota di aver immaginato che dalla specola del San Gottardo avrebbe potuto guardare la Svizzera da un lato e l’Italia dall’altro:
On the top of St. Gothard, one of the most elevated mountains of Europe, we had once imagined the view into Italy on one side, and over Switzerland on the other, would reward all our toil.
La WilliamsWilliamsHelen Maria non ignorava tuttavia la situazione politica dei baliaggi italiani nel suo presente. Nello stesso scritto l’autrice aggiunge infatti una considerazione a tale proposito, suscitata dal fatto che a causa delle limitazioni imposte dall’impero non le fu possibile visitare le isole Borromee del lago Maggiore. In questo brano, la scrittrice stabilisce come confine naturale la frontiera geologica delle Alpi:
Those far-famed islands [le isole Borromee nel lago Maggiore], we were obliged, from political considerations, to leave unvisited, not without a sigh of regret on my part, that since Swiss territory extended so far beyond its natural boundary the Alps, it had not repelled the limit of the Emperor’s dominions a little farther.12
Più di un secolo prima e in tutt’altro contesto, la formulazione di un concetto analogo si trova anche nell’opera Helvetia profana e sacra (1642) del sacerdote Ranuccio ScottiScottiRanuccio, vescovo di Borgo San Donnino (oggi Fidenza). Nella sua relazione sulla Svizzera del tempo, ben nota all’autore che fu nunzio apostolico a Lucerna dal 1630 al 1639, si legge un’affine considerazione relativa alla geografia dei Cantoni svizzeri e alla loro espansione in Italia, successiva alle campagne transalpine:
Anche à Ponente verso la Sauoia hà racquistati i suoi confini essendosi i Bernesi, e quei di Friburgo insignoriti di più luoghi di quello stato, et à mezzo dì valicate l’alte, e neuose Alpi Lepontine, hoggi dette Monte di San Gottardo, hà dilatati i suoi termini in Italia fin sù gli laghi Lario, e maggiore con l’acquisto della Leuantina, Belinzona, Locarno, Lugano, Mandrisio, ed altre Terre, che tempo fù soggiacevano à Milano.13
Lo stesso quadro è delineato nella cartografia del primo Seicento. In particolare, offre alcuni dati interessanti la carta Helvetiae, conterminarumque terrarum antiqua descriptio stampata nel 1616 da Philipp CluverCluverPhilipp, il geografo tedesco considerato il fondatore della geografia storica.14 La mappa, che descrive i confini dell’attuale territorio svizzero in epoca romana, situa gli Helvetii nell’altipiano a nord delle Alpi, mentre colloca le Prealpi lombarde in Italiae.
Come documenta questa breve rassegna di esempi, il territorio della Lombardia Svizzera, fatta salva la sovranità politica elvetica, era percepito come naturalmente lombardo. Non sorprende, allora, che il bolognese Leandro AlbertiAlbertiLeandro (1479-1552) nella sua opera intitolata La descrittione di tutta Italia del 1550 comprenda i territori della Lombardia Svizzera nel capitolo Lombardia di là dal Po, dai laghi Maggiore e di Lugano fino al San Gottardo.15 Tuttavia, su questo versante, dalla prospettiva cioè dei personaggi provenienti dalla penisola, è possibile documentare una percezione in parte anche diversa. Una percezione che sarà però dovuta, oltre che alla dimensione politico-identitaria, al progressivo impoverimento culturale e alla contaminazione linguistica che si poteva avvertire procedendo da Milano verso nord, avvicinandosi alle Alpi (su questo aspetto si tornerà anche più avanti, nel secondo capitolo). Il cardinale Guido BentivoglioBentivoglioGuido, ad esempio, in una lettera scritta da Lucerna il 21 di luglio del 1607 al monsignor di Medigliana, vescovo di Borgo San Sepolcro, nella quale racconta il suo itinerario da Ferrara verso Lucerna, afferma che nel territorio dei baliaggi comuni l’Italia perde «il nome e la lingua». Nella missiva, confermando inoltre l’impressione che la montagna del San Gottardo poteva suscitare nei viaggiatori in transito dal valico, il cardinale scrive:
In Milano fui ospite del signor cardinal Borromeo, che mi raccolse e trattò veramente con umanità singolare; e dopo aver soddisfatto al debito offizio col conte di Fuentes, me ne partii, e di là me ne venni verso gli Svizzeri. A Varese, ultimo luogo dello stato di Milano, mi licenziai dall’Italia; ch’ivi ella comincia a perdere il nome e la lingua. Tutto il resto sin qui è stato alpi, balze, dirupi, precipizj, una sopra un’altra montagna, e san Gottardo, sopra di tutte, che porta le nevi in cielo, e ch’a me ora ha fatto vedere l’inverno a mezza state.16
O ancora, senza i giudizi di valore impliciti nel brano appena letto, il protonotaio apostolico Filippo TitiTitiFilippo (1639-1702) nella sua Descrizione delle pitture, sculture e architetture esposte al pubblico in Roma rivista da Giovanni BottariBottariGiovanni e pubblicata nel 1763, indica con l’etnico «svizzero» il pittore Pier Francesco MolaMolaPier Francesco (1612-1666) nativo di Coldrerio (noto anche con l’anacronistico nome di Il Ticinese). Nella guida, relativamente all’affresco del 1656 raffigurante la storia di Giuseppe e dei suoi fratelli dipinto nella Sala Gialla del Palazzo del Quirinale di Roma, allora residenza estiva del Papa, l’artista è identificato con le seguenti parole: «Nella gran facciata si vede l’istoria, di quando Giuseppe fu poi adorato da’ fratelli, dipinta eccellentemente da Francesco MolaMolaPier Francesco svizzero». L’insolita denominazione etnica è ripetuta nel paragrafo dedicato alla Basilica di San Marco Evangelista al Campidoglio, nella quale il MolaMolaPier Francesco dipinse un affresco raffigurante Il martirio dei santi Abdon e Sennen: «Nella nave di mezzo la prima pittura a fresco sopra le colonne, cominciando a man destra, è di Francesco MolaMolaPier Francesco Svizzero».17