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1.2. Le denominazioni nella Lombardia svizzera

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Se nel periodo ducale l’assenza di qualsiasi cenno agli svizzeri nelle denominazioni etniche e toponimiche della regione è naturale, in epoca balivale è lecito chiedersi se il mutamento della situazione politica modifichi questa consuetudine. Con la conquista della Leventina, stabilmente sottomessa al potere urano dal 1480, e con la calata di Uri, Svitto e Nidvaldo in Riviera, Blenio e a Bellinzona, tra il 1495 e il 1503, le estreme valli lombarde passano saldamente nelle mani dei cantoni confederati. Nell’àmbito delle Campagne transalpine, con il favore del papa Giulio IIDella Rovere (Giulio II)Giuliano, durante la spedizione di Pavia del 1512 i confederati estendono il loro dominio alle restanti terre dell’attuale Cantone Ticino, che costituirono durante l’ancien régime i quattro Baliaggi comuni di Locarno, Vallemaggia, Lugano e Mendrisio (dal 1522), fondamentali per il controllo dei valichi alpini.1

Il termine “baliaggio” (fr. ant. baillage), che storicamente indica la dignità e il territorio compreso nella giurisdizione del reggente, deriva dal nome di quest’ultimo, oggi comunemente indicato con la parola “balivo” (fr. ant. baillif), dal latino baiulis/baiula.2 Nella regione della Svizzera italiana l’impiego di questa terminologia – il cui uso, documentato a partire dal De Republica helvetiorum (1576) dell’umanista Josias SimmlerSimmlerJosias, si è assestato e consolidato soprattutto retrospettivamente – si afferma solo dalla metà del Settecento.3 Nei secoli precedenti le terre dei baliaggi italiani sono indicate più semplicemente come suddite alla sovranità degli svizzeri («Marc’Antonio de Marchi et Giambonini del luocho di Gandrio, giurisdittione delli illustrissimi Signori svizzeri»). L’uso della parola “balivo” risulta invece dall’adattamento degli storici al termine tedesco impiegato dagli Stati sovrani nel periodo di sudditanza elvetica, quando l’ufficiale incaricato era comunemente chiamato Landvogt o più semplicemente Vogt.4 Si vedano, ad esempio, gli atti del ricevimento ufficiale del cardinale Federico BorromeoBorromeoFederico avvenuto in Riviera nell’anno 1608, al quale erano presenti il pretore della Val Riviera, tedescamente chiamato landvogt, il prevosto di Biasca di nome Giovanni BassoBassoGiovanni (1552-1629) e altri sacerdoti e autorità civili:

Cum egressus esset de burgo Bellinzonae obvios habuit Praetorem vallis Riperiarum, appellant lingua germanica Lantfocht, et multos alios privatos dictae vallis, R. Joannem Bassum Praepositium Biaschae et multos alios sacerdotes dictae vallis a quibus cum magna laetitiae demonstratione receptus fuit.5

Lo stesso Giovanni BassoBassoGiovanni, citato in quest’ultimo documento, impiega a sua volta il termine Vogt (nella forma focth) in una lettera scritta a Cesare PezzanoPezzanoCesare il 25 settembre 1617, nella quale è discusso un contenzioso tra l’amministratore del baliaggio della Riviera e il sacerdote Jacomo di CrescianoJacomo da Cresciano:

L’altra cosa era, che questo focth delle Riiviere faceva gran instanza per haver da m. p. Jacomo di Cresciano il mal speso nei Trei Cantoni contra d’esso prette, nella causa che VSMR sa. me dissero detti ambasciatori, che havevano commissione delli s.ri di far che ‘l focth si accomodasse, ancora che conoscessero che ‘l sacerdote era inocente, et huomo di bene.6

Assecondando un principio di territorialità, il dominio politico confederato non modificò l’assetto giuridico e confessionale della Lombardia svizzera, che conservò autonomia legislativa e rimase legata alle diocesi di Milano e di Como.7 In questo stato delle cose, il rapporto dell’individuo con la comunità locale, così come le istituzioni tradizionali, quali la famiglia, la parrocchia e il patriziato, svolsero un ruolo centrale sul piano identitario.8 La dimensione comunale fu fondante, le singole comunità erano autogovernate, sul piano politico-amministrativo e religioso, sulla base di statuti locali, di tradizione medievale, riconosciuti dai cantoni confederati, che tutelarono i diritti e i privilegi degli abitanti. Nel contesto d’indipendenza comunale, questi complessi di norme giuridiche e le istituzioni locali erano indissolubilmente legati al concetto di libertà individuale e furono la principale ragione del sentimento aggregativo in ambito municipale, con le conseguenti manifestazioni etnonimiche.

A questo proposito, un brano di una sentenza di condanna a un ladro di Morbio Inferiore risalente al 1540 bene esemplifica la concezione del diritto municipale vigente nei baliaggi italiani e colloca geograficamente, mediante una formula di riverenza analoga ad altre osservate nelle pagine precedenti, le terre di Mendrisio nell’area di dominio svizzero:

Sequendo et volendo sequire nelle preditte cose la forma della rassone et de statuti de Mendrisio et Plebe di Balerna et ogni altro megliore modo et via quale meglio possemo et debbiamo atteso la auctorità podestà et bailia ad noi in questa parte atribuita et concessa per li magnifici illustrissimi et potentissimi signori Helvetii delli XII cantoni.9

Usi analoghi per esprimere lo statuto di sovranità svizzera sono documentati prevalentemente nei testi redatti da chierici o persone istruite, e possono variare secondo la cultura e la classe sociale dello scrivente. Per aggiungere un esempio, nell’intestazione degli atti relativi alla visita pastorale del 1591 del vescovo Feliciano Ninguarda nelle pievi comasche si legge una formula affine:

Visitationis personalis sitionum

illustrisimis dominis Helvetijs subiectarum

Diocesis nostrae comensis

factae anno domini 1591

per r.mum D. Felicianum episcopum comensem

pars secunda10

Anche per quanto concerne la consuetudine etnonimica il riferimento alla sovranità svizzera è talvolta aggiunto alle espressioni abituali. Come esempio a tale proposito, si veda la breve notifica di un medico di nome Benedetto della PortaBenedetto della Porta, stilata, in un italiano molto incerto, il 29 settembre 1659:

Notifico io Benedeto della Porta profesore delarte cirugicha alloficio del Ill.tre S.rg lanfocho di aver medicato Angero Realle di ColaAngelo Reale di Cola [Colla, nell’omonima valle] paiese deli Ill.tri S.rg Souiceri di una ferita fata di ponta nel peto nella parte sinistra la quale al mio giudicio non è mortalle ocorendo qualce cosa mentre che io lo seguitaro a medicarlo.11

Nel caso di artigiani o scriventi di media cultura, invece, il riferimento agli svizzeri quando presente è semplice e segue quello patriziale o diocesano. In coda alle usuali formule etnonimiche si sommano sintagmi come «degli suyceri», «stato suizero» o «dominii Elvetii». Ma le occorrenze, in questa situazione come nelle altre, oscillano sensibilmente caso per caso, testimoniando una tendenza facilmente intuibile e spiegabile: ovvero, questo tipo di menzioni sono più frequenti nelle carte redatte nel territorio e aumentano ulteriormente nei documenti ufficiali, allestiti per le autorità svizzere.

Nella Lombardia svizzera il riferimento alla sovranità non era sistematicamente esplicitato nelle denominazioni etniche e geonimiche, in special modo nei documenti vergati lontano dal territorio dei baliaggi comuni. Nel secolo XVI, con il progressivo fissarsi dell’uso cognominale anche per i ceti più modesti, una consuetudine che si è successivamente consolidata con la Controriforma, gli etnonimi oscillano anche più vistosamente, ma i riferimenti alla sovranità politica svizzera si attestano in rare occorrenze e con precise funzioni.12 A questo proposito, riagganciandoci a quanto osservato nelle pagine precedenti, possiamo vagliare la situazione di tre fra i più celebri artisti affermatisi nella vasta schiera di pittori, stuccatori, lapicidi e architetti partiti dai baliaggi italiani e attivi nei maggiori cantieri d’Italia e d’Europa.

Nel tardo Cinquecento è esemplare il caso di Domenico FontanaFontanaDomenico (1543-1607), primo di una serie di mastri provenienti dalle Prealpi lombarde che ebbero un ruolo centrale nell’edificazione della Roma barocca. L’uso etnico a lui riferito è oggetto di minime variazioni nel tempo. Nell’illustrazione che apre il suo trattato Della trasportatione dell’obelisco vaticano e delle fabriche di Nostro Signore Papa Sisto VPeretto (Sisto V)Felice di fatte dal Cavallier Domenico FontanaFontanaDomenico architetto di sua Santità, pubblicato a Roma nel 1590 e relativo all’erezione dell’obelisco di Piazza San Pietro, qui trasportato dal circo che sorgeva presso il colle Vaticano nel 1586 su ordine di Sisto VPeretto (Sisto V)Felice di, l’architetto è indicato con il nome di battesimo seguito dal riferimento al borgo natio e alla giurisdizione diocesana. Nella fascia che incornicia l’effige del mastro, posta al centro dell’incisione a tutta pagina collocata dopo il frontespizio, si legge infatti: «DOMENICO FONTANAFontanaDomenico DA MILI DIOCESE DI COMO ARCHITETTO DI S. SAN. D’ETA D’AN. XLVI».13 L’obelisco, trasportato a Roma da Eliopoli per ordine di Caligola, necessitò di un notevole impegno ingegneristico e di grandi mezzi per essere collocato al centro della piazza. A opera eseguita, sul lato nord del monumento, sotto le insegne papali di Sisto VPeretto (Sisto V)Felice di, l’architetto firmò la sua impresa ribadendo gli elementi etnici e onomastici presenti nel trattato: «DOMINICUS FONTANAFontanaDomenico EX PAGO MILI AGRI NOVOCOMENSIS TRANSTULIT ET EREXIT». Probabilmente in ragione del prestigio ottenuto con il lavoro svolto nei cantieri capitolini e napoletani, nell’edicola sepolcrale costruita nel 1627 e oggi posta nell’atrio della chiesa di Sant’Anna dei Lombardi a Napoli cadono invece le qualifiche municipali e regionali. Nell’iscrizione che trascrivo, FontanaFontanaDomenico è infatti indicato dai figli SebastianoFontanaSebastiano e Giulio CesareFontanaGiulio Cesare come patrizio romano, senza ulteriori riferimenti etnici:

DOMINICUS FONTANAFontanaDomenico PATRITIUS ROMANUS

MAGNA MOLITUS MAIORA POTUIT

IACENTES OLIM INSANAE MOLIS OBELISCOS

SIXTO V PONTIF.

IN VATICANO ESQUILIIS CELIO ET AD RADICES PINCIANI

PRISCA VIRTUTE LAUDE RECENTI EREXIT AC STATUIT

COMES EX TEMPLO PALATINUS EQUES AURATUS

SUMMUS ROMAE ARCHITECTUS

SUMMUS NEAPOLI PHILIPPO II PHILIPPO III REGUM

SESEQ.; AEUUMQ.; INSIGNIVIT SUUM

TEQ; INSIGNIVIT

QUEM SEBASTIANUS IULIUS CAESAR ET FRATRES

MUNERIS QUOQ.; UT VIRTUTIS AEQUIS PASSIBUS HAEREDES

PATRI BENEMERENTISSIMO P. ANNO MDCXXVII

OBIIT VERO MDCVII AETATIS LXIV

Un altro esempio rilevante si trova sempre a Roma pochi decenni più tardi e riguarda il pittore Giovanni SerodineSerodineGiovanni (1600-1630), originario di Ascona sul lago Maggiore, impostosi alla critica moderna come uno dei maggiori del suo secolo. Secondo le più recenti acquisizioni, l’artista nacque a Roma nel 1600, e non come precedentemente ipotizzato ad Ascona nel 1594, ma mantenne vivo negli anni il suo legame con la patria d’origine, nella quale i SerodineSerodineGiovanni conservarono la casa paterna e dove si trovano alcune tele di Giovanni, tra cui la grande Incoronazione della Vergine realizzata poco prima della morte per la chiesa dei SS. Pietro e Paolo.14 In una monografia del 1954, Roberto LonghiLonghiRoberto pubblica alcuni documenti d’archivio della famiglia asconese, tra cui due redazioni del testamento di Cristoforo SerodineSerodineCristoforo, il padre del pittore, nelle quali si verifica un uso etnonimico conforme alla consuetudine osservata nelle pagine precedenti. Una prima stesura in latino del 13 agosto 1625 legge infatti l’incipit «Dominus Christophorus Serodinus condam Joannis Andreae Serodinis filius, de Ascona Comensis dioecesis mihi Notario cognitus, sanus Dei gratia mente, sensu, corpore, loquela et intellectu, asserens alias et sub die 30 Mensis Septembris 1621 […]».15 Una compilazione successiva in italiano del 19 giugno 1626 ripete gli stessi elementi con due minime variazioni, cade il patronimico e compare il riferimento geografico al lago Maggiore: «Considerando io Christoforo SerodineSerodineGiovanni d’Ascona del Lago Maggiore diocesi di Como, che in questo mondo non vi è cosa più certa della morte et più incerta dell’hora et ponto suo […]».16 Una formulazione analoga è impiegata anche da Giovanni, che in un documento datato del 24 settembre 1624 scrive: «Die 24 7bris 1624, Jo: Baptista filius Christophori Serodani de lacu maiori comen.[sis] dioec.[sis] aetatis suae annor […]».17 Se questi documenti attestano un uso conforme alle aspettative, risulta invece eccentrico l’uso di un particolare «sobriquet toponimico» (così LonghiLonghiRoberto) impiegato in alternativa al nome di battesimo per identificare il pittore. Infatti, alla morte del marchese Asdrubale MatteiMatteiAsdrubale, avvenuta nel 1631, nell’inventario dei suoi beni sono elencati «un quadro dei Farisei, quando mostrano la moneta», ovvero l’opera riconosciuta come Tributo della moneta, conservata alla National Gallery of Scotland di Edimburgo; e un’altra tela raffigurante «quando Santo Pietro e Santo Paolo andarono al martirio», cioè l’Incontro dei Santi Pietro e Paolo sulla via del martirio, oggi a Palazzo Barberini. Entrambi i dipinti sono attribuiti a «Giovanni della Voltolina», ovvero Giovanni della ValtellinaGiovanni della Valtellina (voltolina nelle varietà lombarde), nome dietro il quale va riconosciuto Giovanni SerodineSerodineGiovanni.18 Verosimilmente, la denominazione etnica regionale, in senso ampio, era impiegata per indentificare in ambiente romano il pittore proveniente da un modesto borgo lombardo, genericamente ricondotto alla vallata del fiume Adda. L’equivoco è forse dovuto al fatto che la Valtellina al tempo era soggetta al dominio grigionese delle Tre Leghe, alleate dei Cantoni confederati. Era cioè una terra dipendente dal potere degli svizzeri, seppur mediato dai Grigioni, e proprio come Ascona, situata nel Baliaggio italiano di Locarno, rispondeva alla sovranità dei Dodici cantoni. Inoltre, come buona parte della Lombardia svizzera, la Valtellina era luogo di emigrazione, orientata verso le maggiori città italiane, e gli emigranti dell’una e dell’altra, considerati semplicemente come lombardo-alpini, si confondevano fra loro ed erano facilmente scambiabili.19

Ancora più significativo è il caso dell’architetto luganese Giovanni Maria NosseniNosseniGiovanni Maria (1544-1620), attivo in Germania dove operò alla corte di Dresda dal 1575. Il suo principale intervento nella città sassone fu la trasformazione del coro del Duomo di Freiberg in una cappella sepolcrale per i prìncipi elettori di Sassonia, alla quale lavorò tra il 1585 e il 1594.20 Qui, dietro l’altare del mausoleo, si legge un iscrizione datata 1593 nella quale l’architetto è identificato con il nome di battesimo seguito dal borgo nativo e dall’etnico «italus», cioè ‘proveniente dall’Italia’ o ‘italico’:

Hospes! Quod dico, paulum est, asta, et perlege. Sacellum hoc illustre, quod vides, quinquenni spatio extructum est arte mira, labore multo, sumptibus vero maximis. Ejus extructioni non interfui solum, sed et prœfui semper Joannes Maria Nossenus, Luganensis, Italus. Nec vero operis egredii forma hœc tantum a me Architecto profecta est, sed et materiam ipsam […].21

In contesto germanico il riferimento all’italianità dell’architetto lombardo-svizzero sarà certo parso più opportuno e necessario di quanto non avrebbe potuto essere per gli esempi osservati in precedenza. Tuttavia, fatto salvo il condizionamento dovuto alla contingenza geo-culturale, questo esempio rileva la visione della Lombardia svizzera che era dominante al tempo, e non solo dalla prospettiva esterna.

Le centinaia di lettere spedite dagli emigranti di Meride, borgo di pittori, scultori e decoratori attivi in tutta Europa, raccolte nel corso di secoli dalla famiglia Oldelli e ora conservate nel fondo omonimo presso l’Archivio di Stato di Bellinzona, bene testimoniano la diffusa percezione dei borghi prealpini soggetti alla sovranità elvetica come territori italiani. Ad esempio, in una missiva inviata ad Alfonso OldelliOldelliAlfonso da Travostat il 17 luglio 1701, lo stuccatore Giovan Battista ClericiClericiGiovan Battista comunica alla famiglia l’impossibilità di ricevere o far recapitare la posta in «Itaglia», ovvero a Meride:

Io sono andato fora di Virzpurg ali 26 giugno a lavorare lontano dieci ore, cioè trenta miglia da parte dove non vi è posta di scrivere in Itaglia, in una vila che si dimanda Travostat, a fare una sala con doi scuadretori, e spero che presto verà il sig.r Giosepe Rinaldi in compagnia, dove averemo di fare sino a mezo otobre in circa e poi torneremo a Virzpurg, e frattanto se scriverano seguitarano a mandarle al sig.r Magni che lui me le farà avere.22

O ancora, Stefano Ignazio MelchionMelchionStefano Ignazio, con una lettera da Colonia del 24 agosto 1711, informa i famigliari delle difficoltà incontrate con la comunità italiana presente nella città sul Reno, nella quale non è riuscito a integrarsi. E nel farlo, lo scrivente si considera naturalmente italiano:

Jo lavoro come un cane et per l’ultimo di otobre spero di terminare quelo che ò intrapreso, et il sig.r Conte, quelo che è sopra le fabriche, loda a’ suoi li miei lavori et spero che me farà una bona stima. Li altri Jtaliani che sono qua non me poleno vedere, ma questo me dà poca pena.23

Altrettando interessante è una lettera del 1758 scritta dallo stuccatore Alfonso OldelliOldelliAlfonso (poi notaio e procuratore a Lugano) al nipote Carlo Matteo OldelliOldelliCarlo Matteo, che da Vienna chiedeva assistenza finanziaria allo zio. Quest’ultimo giustifica la sua indisponibilità in ragione del momento di carestia e povertà che la comunità stava vivendo «in questa nostra Lombardia», a Meride. Inoltre, più avanti, nella seconda parte della missiva, Alfonso raccomanda al nipote di essere parco nelle spese e rammenta la propria esperienza nella città austriaca, dove trovò una compagnia di altri «onorati giovini jtaliani» con i quali dividere i costi della permanenza:

Sento le denotate spese da voi fatte per sostenervi, al che vi rispondo d’esser io prima di voi stato diciotto mesi in questa Capitale, col solo lucro di Fiorini cinque e mezzo per settimana, e, misurate le mie forze, congiontomi et associatomi con altri onorati giovini jtaliani, onoratamente vivessimo all’Osteria dell’Angelo bianco nella Citadella di Marienhilf con un fiorino e tre bazzi per cadauno alla settimana.24

In sostanza, l’assenza di un’identità politica forte e condivisa sul piano regionale, solo in parte supplita da quella connessa alla diocesi, ha fatto sì che gli abitanti della Lombardia svizzera abbiano percepito loro stessi come lombardi perlomeno fino alla mediazione napoleonica del 1803 e si siano riconosciuti per lingua, costume e cultura come italiani. Nello stesso modo, d’altra parte, erano percepiti il territorio e i suoi abitanti dai visitatori forestieri che transitavano o visitavano la regione.

In questo giro d’anni, semplificando gli elementi emersi dalle testimonianze osservate nelle pagine precedenti, è lecito affermare che gli abitanti della Lombardia svizzera tendevano a qualificarsi come lombardi quando si rapportavano con altri italiani e come italiani quando si rapportavano con gli stranieri, come naturale. Allo stesso modo, il riferimento al potere politico degli svizzeri, perlopiù in formule reverenziali fisse e ricorrenti, si attesta quasi esclusivamente negli scritti ufficiali, ovvero nei documenti che si rivolgono o sono destinati ai rappresentanti del potere signorile elvetico.

Il nome e la lingua

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