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CAPITOLO X. LA INVIDIA.

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Messer Geri Cavalcanti era l'unico della sua casa rimasto a Firenze, essendosene usciti gli altri suoi consorti fino dal 1311: pendeva a ghibellino; ma era temperatissimo, ed avrebbe amato i guelfi, e avrebbe fatto parte con essi, se loro fosse venuto fatto di ritornare Firenze nel suo antico buono stato, lieta, ricca, e libera veramente.

Aveangli pertanto mosso sempre fierissimo sdegno tutti gli stranieri che ad ogni mutar di vento ci piovevano, o a nome dell'impero o a nome della chiesa, vedendo pur troppo chiaro che la libertà di un popolo non può mai avvantaggiarsi per opera di stranieri; i quali, anche quando vengono con essa sulle labbra, in cuore non hanno altro che la sete di predominio e di guadagno.

Più che con altri poi si era sdegnato con questo Duca e sua gente, come quegli che aveva turbato gli ordini della repubblica; vilificato il supremo ufficio del gonfaloniere; ridotti a nulla tutti gli altri ufficj; e che, avendo in dispetto e popolo e grandi, ogni potestà aveva recato a sè solo, e ridotto Firenze umile ancella, di matrona nobilissima che era stata per addietro. Non dee dunque far meraviglia la grande avversione che aveva all'amor della Bice con uno dei seguaci di Carlo; e che tale avversione fosse tanto potente da sopraffare il bene stragrande che voleva all'unica sua figliuola; e che fosse più potente ora che mai, inasprita com'era dal turbamento che aveva preso messer Geri dal caso della compagnía degli Scali, per cui riducevasi quasi a povertà. Combattuto questo povero vecchio da tanti diversi affetti, parvegli che anche la sanità gli si turbasse; e come fu uscita la Bice dalla sua stanza, lo prese un tremito così fiero, e fu oppresso da tal debolezza, che in fretta e in furia mandò per maestro Dino del Garbo, il quale non indugiò un momento a venire da lui.

— Maestro, disse Geri appena lo vide, sono un uomo morto.

Il maestro, che aveva buon occhio nell'arte sua, e che sapeva per avventura le cagioni dell'alterazione di Geri:

— State di buon animo, messere, subito gli rispose, chè ogni vostro malore passerà presto.

E veduto il segno[21], ripetè:

— State di buon animo: non è nulla. Forse il turbamento prodotto dalla disgrazia incòltavi degli Scali.... Ma tutto passerà di corto. Questo lattovaro ritorneravvi tosto in salute.

E intanto scriveva la ricetta. E datala ad un famiglio che andasse tosto per essa, continuò:

— Quel fallimento è stata gran rovina, non solo per voi, ma per la città tutta quanta, oppressa già da tante sventure.

— Maestro, ed io vi accerto che questo mi cuoce meno che altra sciagura a me dolorosissima.

— Della Bice, eh?

— Come! voi sapete?...

— E chi nol sa in Firenze? Guglielmo vide la Bice qui in casa vostra; e a quest'opera di vostra vergogna diede mano Cecco d'Ascoli.

— Quel negromante, di cui già suona tutta Firenze, venuto qua col duca di Calabria?

— Sì, quell'eretico e scomunicato, che, non contento di vituperare le onorate case de' grandi fiorentini, va poi spargendolo, e pavoneggiandosene per ogni dove.

Tanta era l'invidia di maestro Dino contro Cecco, che non pensò e non curò quanto siffatti discorsi potevano aggravare il leggero malore di Geri; e quanto poco dicevole fosse a gentiluomo e scienziato il dir quelle cose, men che onorevoli ad una gentile e dabbene fanciulla. E di fatto quel povero vecchio se ne alterò mirabilmente, e tutto acceso di sdegno esclamò:

— Ah! cane pateríno! Vedete a posta di chi è l'onore dei gentili e probi uomini! Vedete i bei presenti che fa ai cittadini di Firenze questo duca novello. Alla croce di Dio! non voglio avere più bene di me, se di tale onta non mi vendico.

— Acquetatevi, messer Geri — disse qui il maestro, accorgendosi che il vecchio si accendeva troppo nel volto — la vendetta si farà, e pronta. Ad ognuno puzza già questo barbaro dominio; ed è ito tanto in là il costui cieco furore di signoría, che tratta i fiorentini come un branco di pecore, e Firenze dispregia come un vilissimo ovile. E sempre pone nuove taglie; e se alcuno contraddice ne' consigli, è ruinato, come intervenne l'altro ieri a Giovanni Alfani nobile cittadino, il quale, dolendosi di certe imposte, fu fatto ribello, e arsogli le case. Sì, messer Geri, la vendetta si farà, e pronta; chè Firenze si duol tutta, e quando si duol tutta si muove anche lei. Del negromante poi lasciatene a me il pensiero: egli va colla testa alta, e corre quasi Firenze per sua; ma non sa, lo sciagurato, che già si fa la ragna per carpirlo. Intanto voi attendete alla vostra sanità.

E come in questo tempo era tornato il famigliare col lattovaro, lo porse tosto a messer Geri, il quale in brevissimo spazio si sentì tutto riconfortato.

Allora maestro Dino, studiandosi di temperar sempre più l'effetto che potessero aver fatto sull'animo, e per conseguenza sulla sanità di Geri, le sue parole, lo esortò da capo a non alterarsi più in questo modo; gli diè a vedere come cosa certissima la prossima vendetta della sua onta, ed il ritorno di Firenze nella sua libertà; nè si partì da lui prima che lo vedesse più quieto e men tristo.

E la povera Bice? la povera Bice struggevasi in pianto; nè bastarono a consolarla le amorevoli cure e le dolci parole della sua buona cameriera. Il disubbidire al suo caro babbo, e il vedernelo sdegnato, era dolor sì cocente a quel cuore, che non potea comportarlo; e lasciar di amare il suo Guglielmo, questo, non che le fosse possibile, ma non poteva nemmeno pensarlo. Che fare? Vinta dall'angoscia, si coricò; nè potendo in modo veruno prender sonno, le passarono per la mente mille e mille partiti da rendersi benigno suo padre senza abbandonare Guglielmo; ma niuno ne vedea riuscire a cosa che buona fosse. All'ultimo la sua mente, stanca di passare per tante ore di pensiero in pensiero, cominciò ad essere vinta dalla fantasía, che le dipingeva un modo efficace al suo desiderio, ma vago e indeterminato; poi le si rappresentava il suo buon padre sorridere tutto benigno a lei ed a Guglielmo, e benedire la loro unione; e con questi dolci fantasmi, vinta dalla stanchezza, si addormentò in tale amoroso pensiero. Povera creatura! preghiamole lungo questo dolce sonno; ed intanto ritorniamo in palagio.

Cecco d'Ascoli: racconto storico del secolo XIV

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