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CAPITOLO XI. LA GELOSIA.

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La duchessa, da quel momento che scoprì l'amore di Guglielmo per la Bice, non cessava mai di spiare ogni andamento di lui, e per questo effetto misegli a' panni un suo fidato familiare, che nol perdeva mai d'occhio, e che riferivale punto per punto ogni atto e detto di lui; nè Guglielmo si accorse mai di avere questo osservatore de' suoi fatti, tanto accortamente faceva egli il suo ufficio. Solo quella sera che parlò con la Bice, all'uscire del giardino, gli parve di vedere uno rincantucciato là da un uscio, e ne prese qualche ombra; ma non ci si fermò tanto o quanto, nè più poi pensò a nulla. La duchessa sapeva per conseguenza, non solo il colloquio de' due amanti, ma sapeva altresì che Cecco ne aveva lastricata la via a Guglielmo; e però, quando sulla Piazza di S. Croce il duca volea rampognare l'Ascolano per le parole dette a conto della scomunica, ella s'interpose dicendo che lo avrebbe garrito lei, avendone altra cagione. E difatto il giorno di poi fe' significare a Cecco che tosto le comparisse davanti; il quale venuto, senza tanti preamboli, accigliatamente uscì in queste parole:

— Valente scienziato che tu se', quando la scienza ti condusse a fare il mezzano d'amori! Dimmi, non avevi promesso a me che ti ingegneresti di frastornare l'amor di Guglielmo con quella tale de' Cavalcanti?

Cecco si turbò forte in cuor suo di tali parole; ma, come colui a cui non mancavano mai ripieghi, senza mostrar nulla di fuori, rispose:

— Mia signora, lo promisi, è vero; ed è vero che io additai al cavaliere come potesse vedere la sua donna: ma l'una cosa non è all'altra contraria.

— Ti faresti tu scherno di me? disse con signorile atto la duchessa.

— No, madama: l'effetto sarà quale voi desiderate. Procedendo così, io attengo la promessa fatta alla vostra signorìa, e vendico me. Sappiate, madama, che maestro Dino del Garbo è mio fierissimo nemico, e mio nemico è parimenti il padre della donna amata da Guglielmo. Ora questo Dino si era proferto a Guglielmo di rendergli benigno il padre di essa, che è fieramente avverso a questo amore; ed io, trovando modo di fare che Guglielmo vegga la Bice nel suo giardino, ho in qualche maniera fatto onta al padre di lei, mio nemico; ed ho chiuso la via a Dino di poterlo abbonire. E la cosa è a termine, e la furia di messer Geri Cavalcanti contro la figliuola è così ardente, che io penso di non aver mai servito sì efficacemente verun signore, quanto ho servito voi, madama, in questa bisogna. Resta solo che per la parte vostra operiate sull'animo del vostro Guglielmo.

La duchessa mostrò di acquetarsi a questo mendicato ripiego di maestro Cecco; ma ben si accorse che il fatto dovea stare altrimenti. Come poi era rimasta punta da quel vostro Guglielmo, così disse a Cecco, con amaro ghigno:

— Maestro, ben dicevi, vostro Guglielmo. Quel cavaliere è a me troppo caro; di nobilissima prosapia, e leggiadro e prode quanto altro cavaliere che sia, quando venne alla mia corte fummi strettamente raccomandato dalla madre di lui, a cui promisi che gli avrei fatto io come da madre: ed ora mi sa male il vederlo mescolato in così bassi e volgari amori.

— Codesto avevo udito dire, e per codesto appunto ho detto vostro Guglielmo; il quale certo — aggiunse con tono di piacevole cortesía — ha molto e molto guadagnato nel cambiar madre; e di una madre così nobile, così gentile, così giovane, e maravigliosamente bella come la vostra signoría, ne sarà invidiato da ogni cavaliere di Provenza e di Francia.

La duchessa comprese la finissima ironía di quella apparente lode; ma la dissimulò, premendosela nel cuore. Anzi con modo umano e piacevole disse a Cecco:

— Ma ora, bel maestro, ti ho da fare acerba rampogna anche a nome del duca, perchè là in piazza S. Croce, mentre il legato del papa leggeva la scomunica, tu dicesti parole di dispregio alla chiesa, e ne avesti briga con un frate minore.

— Madonna, parole di dispregio alla chiesa? Così Dio mi ajuti, come io mai non le dissi. Dissi bene che le parole del legato non sarebbero sufficienti a disfare Castruccio, se non ci mette le mani il potentissimo e valorosissimo duca mio signore; nè questo parmi un dispregio alla chiesa. E che sia vero quel ch'io dico, monsignor lo duca e questi fiorentini si apparecchiano potentemente di armi e di gente per far guerra a Castruccio; a cui quelle parole del legato non hanno torto nemmeno un capello. Del rimanente, come io sento diritto nella fede cattolica ciascuno può vederlo nel mio poema dell'Acerba, più sacro senza fallo della Commedia di questo Dante, massimamente nelle parole colle quali gli do fine.

— Basti ch'io te l'ho detto; poi acconciatevi come volete tra voialtri scenziati, e azzuffatevi quanto vi è in grado, chè io non vo' brigarmene. Oggi è giorno di festa e di letizia, e non vo' parlare di cosa che non sia tutta lieta; anzi tu devi, chè il puoi, rendere anche più bella la festa con uno de' prodigj dell'arte magica, per la quale vai così famoso appresso la gente.

— Madama, questa non è virtù mia. Florone è quello che opera in me: se ad esso piacerà ch'io vi serva, ed io il farò di gran cuore.[22] Vi piace altro, madama?

— A Dio ti accomando.

Cecco d'Ascoli: racconto storico del secolo XIV

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