Читать книгу Cecco d'Ascoli: racconto storico del secolo XIV - Fanfani Pietro - Страница 3
ОглавлениеIl nome di Pietro Fanfani è già tanto noto e venerato nella repubblica delle lettere, che temo quasi di venir tacciato di arroganza intraprendendo a scrivere alcune poche parole che devono servire in tal qual modo di introduzione ad un suo libro. Onde scansare questa taccia mi sia lecito di recare anzi tutto alcuni cenni sulla storia della presente edizione dell'eccellente romanzo del gran filologo italiano.
Verso la metà dell'anno 1870 il Fanfani, cui piace onorarmi della sua amicizia, mi era cortese di un esemplare della edizione del suo Cecco d'Ascoli fatta nell'anno medesimo a Firenze. Dopo averlo letto e riletto non potei fare a meno di giudicare che questo del Fanfani fosse un romanzo da porsi allato ai pochi buoni della letteratura romanzesca italiana, e da porsi in ischiera coi Promessi Sposi del Manzoni, colla Margherita Pusterla del Cantù, col Niccolò de' Lapi di Massimo d'Azeglio e con altri romanzi di questo genere. Anzi, io non dubitai un momento il Cecco d'Ascoli essere in diversi riguardi assai più bello dei romanzi or' ora nominati. Per dirne soltanto una, quella lingua tanto bella, semplice, pura e schietta nella quale è scritto il Cecco tu la cercheresti invano altrove. In me si risvegliò adunque il desiderio di veder stampato il libro in questa nostra Biblioteca d'autori italiani, alla quale esso sarebbe stato di non lieve ornamento. Ne scrissi adunque al Fanfani, il quale con quella sua amabile modestia che è propria soltanto degli uomini veramente grandi mi rispose: «Che quel libro sia ristampato a Lipsia lo terrei per grande onore; e però le dò carta bianca rispetto alle condizioni da porsi all'editore; il guadagno è sempre l'ultima cosa ch'io cerco. Faccia dunque e disfaccia, certo di piacermi in qualunque modo.» I patti furono stipolati senza veruna difficoltà, e stipolati che furono il Fanfani mi scriveva di nuovo: «Avrei caro che la edizione la curasse Lei; e che mi proponesse quelle altre correzioni che le paressero bisognare, facendo poi sull'opera tutte le annotazioni, discorsi ecc. che crederà meglio.» Quantunque occupato assai di altri miei lavori letterarii accettai nondimeno prontamente la proposta di curare la stampa, lieto di poter così in certo modo mostrare la mia gratitudine verso l'egregio autore. Correzioni da proporre io poi non ne aveva, neppur trovai che ci fosse uopo di annotazioni o discorsi. Ben si avrebbe potuto fare un discorso storico e critico sopra l'infelice Cecco d'Ascoli, l'eroe principale del romanzo; senonchè l'autore stesso nel suo libro ne dice assai per i lettori dello stesso, e i dotti non andranno a cercare ammaestramenti critici o scientifici in un libro che vuol essere ed è popolare. Soltanto mi parve, che alcuni fra i lettori del libro che non conoscono più che tanto la moderna letteratura e filología italiana, avrebbero forse caro di fare un po' di conoscenza col celebre autore del Cecco d'Ascoli, e che perciò alcuni brevi cenni biografici non sarebbero fatica gittata al vento. Communicai quest'idea all'autore e ne ebbi la sua approvazione; soltanto egli mi pregava di non voler scrivere sopra lui in modo tale da offendere la sua modestia. Questo desiderio m'indusse a premettere le osservazioni qui sopra, dalle quali si vede che il Fanfani non richiese lui nè che il suo libro si stampasse nella Germania, nè che vi si aggiungessero cenni biografici, ma che egli condiscese soltanto amichevolmente al desiderio da me espresso.
Tanto basti della storia della presente edizione. Intorno all'edizione stessa vi spenderò alcune brevi parole alla fine del presente discorso. Sopra la vita e le opere dell'autore trascrivo imprima quanto ne dice il Pitrè a pag. 65-70 dei suoi Profili biografici di contemporanei italiani (Palermo 1864)[1], su cui il Fanfani medesimo così mi scriveva: «Non so chi fornisse i materiali al sig. Pitrè, ma sono assai esatti.» Il Pitrè dunque scrive:
«Nacque il Fanfani a Pistoja nel 1817, da famiglia piuttosto agiata anzichè no. Maschio unico, fu educato assai amorosamente, e le carezze gli nacquero a segno che nella prima età diede cattivi indizi della sua riuscita, e fu pessimo scolare. Il padre si vide necessitato a metterlo per castigo sotto la custodia di un suo fratello prete in campagna, dove il lasciò un intiero anno. Tornato, e messo sotto a privati maestri, imparò assai bene, ma la sua indole era sempre irrequieta e riottosa. Finiti gli studi di grammatica, e passato a quelli di lettere sotto il canonico Giuseppe Silvestri, grande rettore, eccellente scrittore latino e valente scrittore italiano e l'unico che ridestasse in Toscana lo studio della Divina Commedia, passava a quelli di filosofia sotto il Mazzoni. Prima dei diciott'anni si volle mettere allo studio delle scienze mediche nella scuola dell'ospedale di Pistoja; ma più che alla medicina, badava a coltivare le lettere, nelle quali trovava il suo vero elemento, senza però far senno; cosichè il padre di lui, che per disgrazie patite volgeva a povertà, fu costretto a cercargli una situazione nella milizia, e lo mise a fare il soldato, dove stette venti mesi, nella segreteria di un colonnello. Morto il genitore ed avuto il congedo, riprese gli studi medici, ma senza frutto, e li abbandonò nel 1838, per darsi solo alle amene lettere.
«Nel 1847 incominciò a Pistoja un giornale intitolato Ricordi filologici che ebbe buon successo e fu da molti applaudito; ma lo interruppe un anno dopo, per andare coi volontari toscani in Lombardia, dove preso colle armi alla mano (ed armi non istate oziose[2]), e fatto prigioniero degli Austriaci, il 29 maggio fu cogli altri suoi compagni condotto a Mantova, e poscia a forza di marciate assai penose nel forte di Theresienstadt, sull'estremo confine della Boemia, donde uscì nel settembre, al concludersi dell'armistizio solasco. Ritornato in patria ripigliava lo studio delle lettere e, amico del Gioberti, era da lui chiamato in Piemonte, nel Ministero di Pubblica Istruzione; ma salito al potere il Pistojese Franchini, si avea da lui ufficio onorato nel Ministero di Toscana. Dopo la restaurazione del Lorenese era mantenuto in ufficio, ma guardato sempre con sospetto. Non ostante qualche opposizione, dava mano a un nuovo giornale di Filologia, Letteratura, Istruzione Pubblica e Belle Arti, cui metteva il titolo di Etruria, bene a ragione encomiato dal Gioberti. Nel 1859 veniva eletto bibliotecario della Marucelliana, e poi nel 1861 con decreto del principe di Carignano, chiamato a reggere la Biblioteca Nazionale di Napoli, carica che non volle il Fanfani accettare[3].
«Moltissime sono le opere di lui, ma non tutte del medesimo interesse[4]. Aspettando che egli, nella età in cui si trova, regali alle lettere lavori veramente degni della sua dottrina, come gli ultimi dati fuori, ci facciamo ad enumerare i principali: 1º. Il Vocabolario della lingua italiana (Firenze, Le Monnier 1856), lavoro pensato e coscienzioso dove in mezzo a tanti difetti (alcuni dei quali già stati notati dal Viani) risplendono pure pregi infiniti[5]. 2º. I Diporti filologici (Napoli 1858), dialoghi già pubblicati in vari periodici, e benchè dispaiano gli uni dagli altri negli speciali argomenti, veggonsi tuttavolta assai bene congiunti insieme per tendere a quell'unico scopo di scrivere bene l'italiano[6]. 3º. Le Osservazioni sui primi fascicoli della quinta impressione del vocabolario della Crusca (Modena 1849). Questa scrittura fu causa di molti dispiaceri al Fanfani, e diede argomento perchè tra lui e gli accademici della Crusca s'impegnasse una disputa che si mantenne viva per qualche tempo e venne acquistando molta celebrità in Toscana. Il Fanfani avea colla sua natural franchezza dichiarato, che i sette fascicoli di quella impressione erano erronei, anzi un vero plagio, una rapsodia, e lo avea solennemente espresso in una dedicatoria di quel suo scritto al Parenti. La Crusca se l'ebbe per male, e invitò uno dei suoi socii a rispondere. Il Salvi fu quello che volle mettersi a battagliare col filologo pistoiese, scrivendo le più orribili villanie. L'Arcangeli, imitando il Salvi, nelle ultime parole di un Apatista disse vituperii del Fanfani, suo amicissimo e confidente, quando afflitto da domestiche sciagure non poteva, com'era conveniente, rispondere. Con tutto questo pochi mesi dopo i Cruscanti diedero ragione al sagace critico, e quei fascicoli sui quali si era aggirato la disputa giudicati roba da nulla, furono messi da parte per dar luogo a una ristampa in altra maniera[7]. 4º. Il Vocabolario dell'uso toscano (Firenze, Barbèra. 2 vol. 1863), e 5º. il Vocabolario della pronunzia toscana (Firenze, Le Monnier, 1863), opere indispensabili a studiarsi da chi attende a curare il nostro bello idioma, per la molta conoscenza che l'autore mostra della lingua italiana e della pronunzia toscana, e per la straordinaria erudizione che sempre vi s'incontra: erudizione solida, abbondante, provata. Molti furono i critici che ripresero questi lavori e ai più non piacque quella mescolanza che il Fanfani spesso fa di parole che figurano sempre diversamente nelle diverse città toscane, come per la pronunzia. Assai sono gli errori, a vero dire[8], e tali che dovrebbe egli correggere in un appendice o in una seconda edizione, facendo suo pro delle osservazioni degli onesti e coscienziosi linguisti; ma non sappiamo trovar parole che bastassero a lodare il compilatore pel bene che arrecò alle lettere con questi nuovi libri, che gli costarono parecchi anni di studii indefessi.
«Le opere del Fanfani, che diremo minori, sono: le Lettere precettive di eccellenti scrittori; il Decamerone del Boccaccio; la Fiera e la Tancia di Buonarroti il Giovane; le Novelle e le Commedie di Grazzini detto il Lasca; le Poesie burlesche de' più illustri autori classici, libri tutti annotati e postillati. Oltre a questi ve ne sono degli altri editi per sua cura, tali sarebbero: l'Aiace del Buonarroti; i Conti di antichi Cavalieri; il Gazzettino di Girolamo Gigli; il Dialogo della bella creanza delle Donne di A. Piccolomini; l'Attila, Flagellum Dei, romanzo cavalleresco; i Marmi di Anton Francesco Doni; il Pome del Bel Fioretto, poema di Domenico da Prato; Lorenzo e Lorenzino dei Medici, ecc. le quali pubblicazioni, toltane alcuna, sono state tirate in numero scarsissimo di esemplari, collo intendimento di lasciarle come rarità bibliografiche; e finalmente poche traduzioni dal latino e dal francese, tra le quali stupenda ci pare quella dagli Anabbatisti di Monforzio.
«Pietro Fanfani, ingegno carissimo, adorno di tanto e si squisito gusto è dei pochi, per servirci delle parole del Deputato Bruto Fabbricatore, i quali nella felice Toscana mantengono in pregio ed onore la buona lingua ed i classici studii, ritraendo bellamente in sè quello che ad altrui va inculcando; questo attestano le molte opere finora ricordate, e lo comprovano le varie prose da lui composte per la Rivista di Firenze, pel Passatempo e pel Piovano Arlotto, periodici diretti da quel raro ingegno che è Raffaele Foresi, e che non perdonarono ad offesa di sorta fatta alla nostra lingua.
«Il Fanfani dirige in Firenze il Borghini, rivista mensuale di filologia e lettere: il solo che si occupi seriamente degli studii della vera lingua italiana, che Egli vorrebbe veder propagata e abbracciata dall'universale; e dei pochi che servano di addentellato a nuovi e più vasti lavori sul nostro idioma.»
Sin qui il Pitrè. Ulteriori notizie biografiche non ne aggiungo. Chi vuol conoscere più addentro le vicende di questo principe dei moderni filologi italiani leggerà un giorno con interesse e con diletto la Vita che il Fanfani sta scrivendo, e che senza dubbio riuscirà un libro importantissimo. Là sarà pure svolta la storia dei combattimenti da quel profondo ingegno sostenuti. Chè come a tutti i grandi uomini non mancarono neppure al Fanfani persecuzioni ed inimicizie. Di sopra si è già potuto vedere quanto indegnamente egli fu perseguitato dagli Accademici della Crusca. Per altro la Crusca, dopo averlo perseguitato a morte, vedendo riuscir vani tutti i suoi attacchi, giudicò bene ravvedersi e riparare come si poteva ai torti fattigli. Il perchè non solo mandava alla cartería quei fascicolacci sul cui valore si era disputato, ma faceva pure suo socio ed Accademico quel medesimo Fanfani che essa aveva tanto fieramente perseguitato. Così alla fin dei conti la guerra letteraria fece grande onore al Fanfani e gran disonore alla Crusca. Assai fieramente e, non dubito aggiungerlo, assai puerilmente scrisse contro il Fanfani Vincenzio Nannucci nella prefazione al primo volume della seconda edizione del suo Manuale, dove egli te lo acconcia proprio pel dì delle feste. «Ma, sai che è?» dirò col Di Giovanni; «il Nannucci soffriva di bile, e se la pigliava contro chi fosse. Po' poi, sapeva tanto il merito del Fanfani in fatto di studii filologici, che il pregava fra le tante di correggergli a suo modo uno scrittarello sull'Arcangeli; e in stampa diceva all'Arcangeli e a tutta l'Accademia, che delle origini della lingua egli, il Fanfani, ne sapesse mille volte più di loro.» — Et de hoc satis! Oggi la polemica ed i vituperii del Nannucci sono intieramente dimenticati, nè la gloria del Fanfani ne ha sofferto un jota. E pure il Nannucci era un Grande! Potrebbe servir di esempio, ma non servirà, a certi letteratucci d'oggidì che van cercando gloria e reputazione nelle brighe e nei vituperii che vomitano contro chi è le cento e cento volte da più di loro. Le male lingue ponno bensì oscurare per un'istante la vera gloria, ma sono come le nuvole che si dileguano presto dinanzi al sole.
Se il Fanfani fu perseguitato egli uscì alla fine vittorioso da tutte le persecuzioni, e non vi è oggi chi ardisca negargli la gloria di essere egli il principe dei filologi italiani. Egli occupa in Italia il medesimo posto che i celebri fratelli Grimm nella Germania. Nonostante le persecuzioni accennate ed altre non gli venne pertanto meno la riconoscenza dei buoni e non gli mancarono gli onori dovuti al suo ingegno ed al nobile suo carattere. L'Istituto veneto e tutte le principali accademie d'Italia si recarono ad onore di ascrivere il Fanfani fra i più distinti loro socii. Il Ministero di Agricoltura industria e commercio lo eleggeva Presidente della Commissione del vocabolario tecnologico; Vittorio Emanuele lo faceva di suo proprio moto prima cavaliere, e poi ufficiale de' SS. Maurizio e Lazzaro. Tanti onori avrebbero per avventura reso altri superbi, ma non il Fanfani, che è un vero esempio di modestia. Chi già ebbe relazioni secolui sa quanto egli sia alieno da qualsiasi orgoglio. E qual meraviglia? Non sono che i ciarlatani che hanno grande opinione di sè stessi e presumono di esser gran cosa subito che hanno accattato un qualche onoruccio, fosse pure un decreto di cittadinanza. Ma i veri dotti, i profondi scienziati da Socrate in qua si distinsero sempre colla loro umiltà e modestia.
Delle opere del Fanfani abbiamo già parlato. Ma soltanto in parte. Ci resta a ragionare di quelle che il celebre letterato pubblicò dopo che il Pitrè scrisse i suoi Profili. L'eccellente giornale Il Borghini finiva di vivere, non so perchè, dopo soli tre anni di vita. I suoi lavori lessicografici il Fanfani li aumentava pubblicando l'insigne Vocabolario dell'uso toscano (Firenze, Barbèra). «Questo Vocabolario contiene quella parte del volgar toscano, la quale non si trova, se non in piccola parte ne' vocabolari che abbiamo; e che forse e senza forse è la più bella e la più efficace. Vi si assegna la ragione di parecchi idiotismi comuni al popolo, di vari singolari costrutti e proprietà di lingua. Si pongono spesso dei riscontri tra l'uso corrente e l'uso degli scrittori antichi; e nulla si trascura di ciò che può illustrare la soggetta materia. Per non far poi un magro registro di voci, ed un lavoro uggiosamente uniforme, si dà varia forma ai diversi temi, quando venga il bello, e recasi ancora qualche composizioncella inedita, dove serva comecchesia di illustrazione.» Quantunque l'edizione di questo utilissimo libro fosse già da alcun tempo esaurita non se ne fece sinora una seconda, per colpa non già dell'autore, che pur desiderava di farla, bensì dell'editore Barbèra, che non reputò opportuno di farla per ora. Lo perchè il Fanfani pubblicava nel 1870 le sue non meno insigni Voci e Maniero del parlar fiorentino (Firenze, Polverini), che sono una Giunta al vocabolario suddetto.
Oltre all'essere principe dei moderni filologi il Fanfani è pure dantista insigne. Moltissimo devono a lui gli studii danteschi, massimamente in ciò che concerne la critica del testo della Divina Commedia. Quel suo secondo dialogo dei Diporti filologici che discorre di lezioni dantesche è proprio oro di coppella. Lo stesso è a dirsi dei suoi numerevoli lavori danteschi pubblicati nell'Etruria, nel Piovano Arlotto, nel Borghini ed in altri giornali. Convien proprio deplorare che al Fanfani non sia riuscito di eseguire un suo vasto disegno onde dare una edizione di Dante ridotta alla sua vera lettura. «Aveva disegnato», dice egli, di «metter su un giornale, ordinato solamente a preparare un'ottima edizione della Divina Commedia. Volevo aprire, per mezzo di esso, corrispondenza con tutti gli studiosi di Europa: chi aveva varie lezioni da mandare, interpretazioni da proporre, notizie insomma ed erudizioni da illustrare il Poema, dovesse farmele ricapitare: ogni cosa si dovesse stampare e discutere nei fogli del giornale: discusso e ventilato ogni cosa, si dovesse stampare, come lambiccato di queste discussioni e ventilazioni, un canto col suo commento: su questa stampa dovesse, chi voleva, far le sue censure ed osservazioni; dopo esaminate le quali, un consiglio a ciò deputato, composto di uomini più reputati negli studi danteschi, dovesse fermarne stabilmente il testo, approvarne il commento, e licenziarne la divulgazione.» Ognun comprende facilmente quanto di bene questo gigantesco disegno avrebbe recato agli studii danteschi. Ma perchè dunque il Fanfani non diede mano all'esecuzione? Fattelo dire da lui: «Ma poi mi misi a pensare si res mihi lecta esset potenter; e tutto il mio disegno fu cancellato da una bella risata, considerato ch'io ebbi la mia piccola sufficienza, e che sì fatta impresa potrebbe solo compiersi col favore efficacissimo di un Governo, o di qualche ricchissimo e generoso signore.»
La più eminente pubblicazione dantesca del Fanfani è sinora il Commento alla Divina Commedia d'Anonimo Fiorentino del secolo XIV, che si cominciò a stampare a Bologna nel 1866, e di cui ne uscirono già due grossi volumi, contenenti l'Inferno ed il Purgatorio, mentre il terzo ed ultimo volume si pubblicherà in breve. Il discorrere del valore scientifico, critico e letterario di questa esimia pubblicazione non è di questo luogo. Basti osservare che mediante essa il gran filologo occupa un posto eminentissimo fra i moderni dantisti, e non solo fra i moderni ma eziandìo fra i futuri, appo i quali il nome del Fanfani sarà ricordato con venerazione e gratitudine, quando certi frannonnoli che oggidì con millantería goffa e ridicola pretendono sostener loro «il peso erculeo della Letteratura dantesca», soltanto perchè sciupano carta ed inchiostri senza fine, saranno del tutto posti in obblío.
Tanto numerevoli sono le pubblicazioni del Fanfani che non mi è possibile di farne una enumerazione compiuta, nonchè di parlare di cadauna. Non voglio per altro passar qui sotto silenzio un paio di lavori che in tal qual modo si ponno considerare come i precursori del Cecco d'Ascoli. Il primo di essi è La Paolina. Novella in lingua fiorentina italiana (Seconda edizione. Firenze, Polverini. 1868). Propriamente questa graziosa Novella è diretta a confutar co' fatti la sentenza del Manzoni che l'Italia non abbia una lingua nazionale. Il Fanfani dunque, che già aveva combattuto contro il Manzoni nel suo dotto opuscolo: La lingua italiana c'è stata, c'è, e si muove (Faenza, 1868), fece una Novella nella quale «non si legge una parola che fiorentina non fosse, e che non fosse ad un'ora stessa italiana.» La Novella è dunque un lavoro assai artificioso, eppure è scritta in una lingua tanto bella e naturale che ogni fanciullo la può intendere senza qualsiasi difficoltà. Un'altro lavoro di questo genere è il grazioso romanzo: Una Bambola. Romanzo per le bambine (Firenze, Polverini. 1869). È questo uno dei più bei libretti per le bambine che io mi conosca nella letteratura italiana. «Il fine dell'autore è morale e educativo: facendo la storia di una bambola, ne piglia occasione a trattare i punti principali della educazione femminile, e a dimostrare qual è il vero ufficio della donna nella Società: il tutto con linguaggio e pensieri semplicissimi e adattati alla intelligenza delle bambine.» Su questo ed alcuni altri scritti morali ed educativi del Fanfani si può confrontare un mio articolo nel Magazzino di Letteratura estera di Berlino (1870. pag. 436 e seg.).
Chiuderò questi brevi Cenni esclamando col Prudenzano: «E dove porremo quell'ingegno carissimo di Pietro Fanfani, adorno di tanto e sì squisito gusto, di spontaneità e grazia soavissima nell'italico idioma?» ed augurando che gli sia concesso di arricchire la scienza e le lettere di nuovi parti del profondo suo ingegno. In ogni modo il nome di Pietro Fanfani vuol dire una nuova epoca nella storia della filologia e letteratura italiana.
Il Cecco d'Ascoli è fuor di dubbio uno dei più bei romanzi che orna la moderna letteratura d'Italia. Vi fu chi lo pose allato ai Promessi Sposi, all'Ettore Fieramosca, all'Assedio di Firenze ed al Marco Visconti. Io non dubito un momento di porlo al disopra di tutti questi romanzi. Della lingua non giova parlarne; in merito ad essa nessuno attinse giammai tanta purità bellezza e perfezione come il Nostro. Ma anche la tessitura del romanzo ed il carattere delle persone non teme mica il paragone coi più insigni lavori di tal genere. I caratteri di Dino del Garbo e di Cecco d'Ascoli sono forse forse un pochettino esagerati. Ma le sono queste quistioni di dotti e però non mi ci fermo sopra. Aggiungerò solo che a me sembra degno di considerazione quanto sopra il Cecco e la sua Acerba scrisse il cav. Palermo nel secondo volume della sua opera: I Manoscritti Palatini (pag. 163 a 258). Ritornando al nostro romanzo dico che alcuni caratteri che in esso ci si fanno incontro, sono veramente impareggiabili. Quanto amabile quella Bice! Essa vale due buone Lucie; e quel prete di Settimello colla sua Simona paragonato al buon don Abbondio colla sua Perpetua! Ma io non mi fermerò ulteriormente a commendare un libro che non ha certo bisogno delle povere mie lodi, e mi contenterò di presentare dinanzi agli occhi de' lettori un piccolo florilegio di giudizii che sul Cecco d'Ascoli si stamparono in Italia.
Antonio Zaccaria pubblicava a proposito del Cecco d'Ascoli un'opuscolo intitolato: Del romanzo dei romanzieri e del signor Pietro Fanfani, ove dopo aver ragionato di parecchi dei più celebri romanzi italiani il ch. autore continua:
«Ma un nuovo scrittore di romanzi ha oggi fatto capolino in sulle scene letterarie d'Italia, e questi è il signor Pietro Fanfani, già noto alla repubblica delle lettere per i suoi lavori filologici. Esso col suo racconto intitolato Cecco d'Ascoli ha fatto vedere d'intendere meglio di ogni altro, come voglia essere usato il romanzo in Italia, e a quale scopo rivolto. Esso ha conosciuto che il romanzo, com'è usato dagli stranieri, non può adattarsi ai popoli di stirpe latina, qual è l'italiano, stirpe esquisitamente sociale. Dietro l'esempio degli uomini dotti di tutte le età, egli usa la favola per propagare le utili cognizioni. Dipinge i costumi e le vicende dell'umana vita, dimostra gli errori in cui siamo tratti dalle nostre passioni, in fine rende amabile la virtù e odioso il vizio. La maniera sua è romantica, ma accomodata all'indole della letteratura d'Italia, conciosiachè si avvicini al fare della novella, componimento più nostrale e che deve all'Italia il suo vero splendore. Quello però che, a parer nostro, forma il più alto pregio del racconto del Fanfani, si è che ogni regola d'arte vi si trova scrupolosamente osservata. In vero se tu riguardi all'orditura del Cecco d'Ascoli vi scorgi quell'unità d'azione che i nostri buoni vecchi ci predicarono tanto; poichè nel Cecco il subbietto figura sempre principale, e tutte le cose che delle altre persone si vanno discorrendo si intrecciano ed annodano ad esso. Se poi osservi i costumi, li trovi dipinti co' loro colori naturali non solo, ma ancora con colori che non fanno l'un coll'altro alcun contrasto. Ivi non ti avvieni a quei costumi esageratissimi che o non s'incontrano in natura, o sono aberramenti non imitabili della natura. E quanto al dettato mal potresti desiderare cosa migliore: nel che vuol esser tanto più encomiato il chiarissimo Autore, quanto ha dovuto vincere difficoltà tragrandi; non si potendo dire a mezzo quanto arduo sia l'acconciare bene ad un lavoro più o meno di finzione il linguaggio della prosa, meglio fatto per l'espressione della realtà. Qui (o c'inganniamo), è dove il Fanfani toglie di leggieri la palma a tutti: perciocchè lo stile del Bresciani, per chi ha buon gusto, quantunque adorno sia d'ogni più vaga venere dell'idioma toscano, sente assai dello studiato e si dilunga da quella cara ingenuità che rende così amabili i nostri antichi. Per contrario nel Fanfani hai un dettato piano, semplice, vario, elegante, affettuoso, lucido, aggraziato, che ti porge diletto e scende al cuore. Trovi poi ritratte al vivo le usanze del tempo; e con esse le virtù, i vizi, le superstizioni ed ogni altra cosa che valga a dartene una piena cognizione. Insomma il lavoro del Fanfani è opera classica e degna de' maggiori encomi.»
In un lungo articolo stampato nella Gazzetta di Pinerolo (Nº. 33. 14. Agosto 1870) il dottore C. Giambelli fra altro così si esprime:
«Questo racconto (il Cecco d'Ascoli) è d'un'infinita bellezza riguardo alla lingua, e molte notizie di quei tempi, sebbene le conosciamo già per diverse fonti, pure qui raccolte in breve fanno maggior effetto e più ne piacciono.»
F. Lanza chiudeva un suo ragguaglio sul Cecco d'Ascoli pubblicato nella Piccola stampa (Nº. 60. 29 Agosto 1870) colle seguenti parole:
«Mi resta ora a parlare della condotta del lavoro, dello stile, della lingua, ed in tutto ciò nulla ho a dire che non sia in lode dell'autore. Ben delineati i caratteri ideali, e specialmente quello della Bice, e del vecchio Geri, ben tratteggiati e conservati quelli storici. Benissimo immaginato l'intreccio della favola, e bene svolto, bello e naturale lo scioglimento. Dello stile e della lingua che dirò quando l'autore si chiama Pietro Fanfani? Stile elegante, terso, chiaro; lingua (cosa rara al giorno d'oggi) veramente Italiana e purissima. Questi e molti altri pregi che troppo lungo sarebbe enumerare, compensano sì largamente quelle piccole mende ch'io ho creduto scorgervi, che il signor Fanfani può andar superbo del suo lavoro, che avrà certo un posto eminente fra le opere letterarie italiane.»
Con questi critici son pure d'accordo molti altri, il cui giudizio non riferiremo qui per non istancare il lettore. Chiuderemo pertanto esclamando col Fruscella: «il Cecco d'Ascoli è gloria novella delle lettere nostre.»
Ci resta a dire due parole della presente terza edizione del celebre romanzo. Allorquando si trattava di farla, l'egregio autore mi scriveva: «Correzioni non ce ne saranno, se non lievissime, avendovi posto molta cura nella seconda edizione.» Di fatti in ciò che concerne la materia ed i concetti la presente edizione è invariata, conforme alla seconda. Le correzioni ed i miglioramenti sono di lingua e di stile, e di questi ne ritroverai, quantunque per lo più lievi, in ogni pagina, essendosi l'insigne autore nuovamente affaticato a ripulire il suo esimio lavoro ed a condurlo per quanto possibile fosse alla perfezione. Questa è conseguentemente una edizione riveduta e migliorata dall'autore quantunque nel frontespicio non lo abbiamo detto. Del mio non vi ho aggiunto nulla, tranne tre o quattro brevissime notarelle che come tali sono contrassegnate. Ho poi posto ogni cura perchè la stampa riuscisse corretta quanto possibile. Se tuttavia errori vi sono rimasti spero di trovar scusa appo chi consideri che il libro non solo si stampò in Germania e da Tedeschi, ma eziandio molto lontano del mio presente luogo di dimora, lo che doveva necessariamente rendere di molto più difficile a me il curarne la stampa.
G. A. Scartazzini.