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(4) LIA

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– Insomma, perché vuoi vederla? – chiese Jues.

– È bella... – balbettai io.

– È innamorato – rise Lucibello.

Mi fermai. Detto così, faceva ridere.

Eravamo sotto il palcoscenico. Lame di luce penetravano fra le tavole, insieme alla musica. Nella luce danzavano innumerevoli particelle di polvere, sollevate dal nostro passaggio. Grosse travi incrociate reggevano l'assito del palco, perdendosi in una geometrica foresta. C'era a stento spazio per stare in piedi.

Anche gli altri due si fermarono. Scrutammo attorno a noi, e ormai non potevamo più avere dubbi: né il palcoscenico né tutta quella polvere erano stati portati lì dal carro. Il Cortile Segreto era un teatro. Guardandoci a vicenda, nelle strisce di luce e di buio, ci colse un brivido. Sentivamo di avere svelato un grande mistero. Questo fece tacere Lucibello, che altrimenti avrebbe continuato a prendermi in giro, e mi evitò di riflettere sulla domanda di Jues.

– Andiamo avanti! – dissi.

Le viscere del palcoscenico parevano senza fine. Ben presto ci trovammo in una zona dove nessuna lama di luce tagliava il buio, e anche la musica filtrava a fatica. Incontrammo ostacoli imprevisti e dolorosi. Infine, ci si parò dinanzi qualcosa che dovemmo aggirare a tentoni. E mentre lo facevamo, si mosse! Si sollevò cigolando. In alto, una botola si aprì e ci inondò di luce. La macchina scenica eruttò forme misteriose.

Qualcuno doveva pur azionarla, pensai. Rischiavamo di essere scoperti. Mi gettai a terra, perdendo di vista i miei due compagni. Il fragore della macchina era enorme, la luce bianchissima e implacabile. Arrancai fra i pali, in cerca di un riparo, e mi ero appena fermato quando vidi un grande sacco rigonfio calare verso di me. Rotolai via appena in tempo per evitare il contrappeso, che si afflosciò a terra fra una nuvola di polvere.

Mi sentivo soffocare. A pochi passi da me, un mastodontico ingranaggio di legno prese a girare con poderosa lentezza.

Non osavo chiamare i miei amici. Avevo paura a proseguire, e mi vergognavo a tornare. Dopo un tempo indefinito, tornò il silenzio sotto il palcoscenico. Da lontano, giungevano le voci e la musica di una nuova rappresentazione.

Decisi di proseguire a gattoni. Non ci volle molto: la foresta di travi terminò bruscamente. Sopra di me c’erano le stelle. E davanti, il carro!

Mi arrestai, nascosto dietro l’ultimo puntello. Che fare adesso? Dove poteva esser Phenissa? Fra le voci che giungevano dal palcoscenico non mi sembrava di udire la sua. E mi venne in mente una cosa: lei era stata l’unica, di tutta la compagnia, ad aver recitato una parte sola. Allora forse poteva essere nel carro...

Le gambe mi tremavano a tal punto che per un po’ non riuscii a muovermi. E quando mi misi a correre, inciampai contro non so cosa e finii rovinosamente per terra. Per farla breve: arrivai al carro, ci girai attorno, sbirciai attraverso ogni apertura. Non vidi niente.

Con un misto di delusione e di sollievo (cosa avrei fatto se l’avessi vista?), mi sedetti con la schiena appoggiata ad una ruota, ansimando e sentendomi molto stupido.

Una finestra si illuminò, davanti a me, di un chiarore giallo e tremolante. Andai a guardare: che avevo da perdere? Dovetti arrampicarmi, perché la finestra era posta in alto, e protetta da una grata di ferro. Scorsi un deposito: grande e cavernoso, con alte volte sorrette da pilastri che la luce fioca della candela non riusciva a raggiungere. Quelli che mi parvero attrezzi teatrali di ogni genere erano ammucchiati fino al soffitto. La fonte della luce era nascosta. Mi arrampicai sulla grata. C’era uno spazio vuoto, al centro del magazzino, ma ne potevo scorgere solo un angolo. Di tanto in tanto in quell’angolo compariva uno dei burattini, facendo capriole impossibili. Per una marionetta, s’intende. Era solo? No: sul pavimento si proiettava un’ombra allungata e indecifrabile...

Scesi, trovai la porta, che mi sembrò enorme, l’aprii con grande cautela, mentre il battito del mio cuore soverchiava il fragore degli strumenti musicali che giungeva dal palcoscenico, e che sembrava preannunciare la fine dello spettacolo.

Scivolai dentro, richiusi la porta. La luce della candela, da quel punto, era quasi invisibile, e sembrava molto lontana; dovetti attendere qualche istante perché i miei occhi si abituassero al buio.

Un leviatano mi guardava da dietro la chiglia di una nave rovesciata. Avanzando, inciampai in un elmo piumato: per fortuna era di cartapesta, e il rumore non fu troppo forte. Accanto c'era una spada spezzata. Trovai poi un leone spelacchiato, un trono senza una gamba, un forziere spalancato. Il ritratto di una dama antica per un attimo mi fece balzare il cuore in gola, tanto sembrava vera nella penombra. Scavalcai alcune colonne cave fatte di legno, riverse a terra, aggirai a debita distanza uno scheletro penzolante, mi infilai sotto un carro trionfale... e fra i raggi dorati di una ruota scorsi finalmente la marionetta che danzava. Per qualche attimo attrasse tutta la mia attenzione: perché senza dubbio, non era manovrata da filo alcuno, né da altro congegno visibile. Pensai: forse è un nano, o una scimmietta travestita...

Ma perché guardavo quello sciocco burattino? Come se avessi paura ad alzare lo sguardo...

Allungando una mano, quasi avrei potuto toccarla. Ma muovere un solo muscolo pareva impresa più ardua che attraversare a nuoto un oceano.

Lo straniero si interruppe. Fissava le fiamme con lo sguardo perso e la fronte aggrottata, come se cercasse nella memoria qualcosa che gli sfuggiva.

Dire che ero innamorato, riprese infine, è troppo. O troppo poco. A quattordici anni non si è veramente innamorati. Era qualcosa di più... primordiale. Come se avessi atteso per tutta la mia vita quel momento, senza saperlo. E il momento mi sfuggiva fra le dita.

Ma vorrete sapere cosa vidi, suppongo. È presto detto: Phenissa seduta su uno sgabello, immobile. Indossava l’ultimo abito di scena, quello in cui era stata lapidata, che era anche lo stesso della scena sulla spiaggia. Teneva gli occhi fissi nella direzione della marionetta, ma senza seguirla nel suoi movimenti. Le labbra erano socchiuse, e sembrava che neppure un alito ne uscisse. Il volto chino, appena velato da una ciocca di capelli neri, aveva un’espressione di quasi impercettibile sorpresa. Per cosa, non avrei potuto immaginare.

Tutto questo durò forse il tempo di dieci respiri o di cento battiti di cuore, il tempo per la marionetta di eseguire una serie completa di capriole.

– Non dovresti essere qui.

Il terrore fu tale che per un attimo la vista mi si annebbiò. Era la voce di Lelius. Mi aveva scoperto! Quando tornai a vedere, la marionetta si era fermata, Phenissa aveva alzato gli occhi, e Lelius era davanti a lei.

– Lia.

Allungò una mano e le toccò la spalla. La fanciulla ebbe un sobbalzo, e nello stesso istante la marionetta balzò in avanti, come... se volesse difenderla. Ma era assurdo. E comunque si fermò.

Phenissa... Lia mosse la bocca come per parlare, e con un’espressione che forse era di dolore chiuse gli occhi. Un gemito quasi impercettibile le uscì dalle labbra.

Lelius si voltò a guardare la marionetta, con irritazione.

– Non devi giocare con questi... – Lia dondolava la testa da destra a sinistra, lentamente.

– Domani reciterai la parte di Issadee – disse Lelius, con voce severa, ma anche, quasi, con... compassione. – Vieni.

Lia, che non aveva ancora riaperto gli occhi, si alzò. Lelius prese con una mano la candela e con l’altra un braccio della fanciulla, e a passi lenti, come un cieco e la sua guida, i due sparirono dietro una statua colossale, alata ma priva di testa. Nel buio, qualcos’altro si mosse. L’ultimo bagliore della fiamma si riflesse sui bottoni dorati delle spalline della marionetta, che seguiva a passi rapidi i suoi padroni. Poco dopo, sentii la porta chiudersi, la chiave girare nella toppa.

Ci misi un po’ prima di capire che ero prigioniero.

Lia

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