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(14) LA SIRENA

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Avanzando con cautela per non disturbare gli spettatori, e soprattutto per non rovinare le ali della falena, mi avvicinai.

Era una maschera senza dubbio femminile. Come lo sapessi, sarebbe troppo lungo da spiegare: basti dire che vi sono segni indubitabili e certissimi, per un abitante di Morraine.

Ma prima che potessi raggiungerla, essa si ritrasse con sorprendente rapidità, considerando che doveva camminare all’indietro.

Fu allora, credo, che intuii dove avevo già visto quella maschera. Ma non ebbi il tempo di pensarci. Lo spettacolo, senza che me ne fossi accorto, era terminato, e gli spettatori stavano lasciando il cortile. Intravidi l’ovale bianco e nero dirigersi verso un corridoio, mi lanciai all’inseguimento, creando qualche trambusto fra le maschere che, a quell’ora e in quel cortile si muovevano con languida flemma. Quando la ritrovai, non fu una sorpresa scoprire che aveva il corpo di una sirena. E che la maschera, in realtà, le copriva la nuca. Gli occhi, naturalmente, erano chiusi.

Era la stessa figura che avevo vista dipinta sul carro di Lelius, o almeno le assomigliava molto.

Ora che mi trovavo a pochi passi da lei, non sapevo più cosa fare. La seguii per tutto il corridoio, e giunta alla fine, lei si voltò. Per la prima volta vidi la faccia della maschera. Se quella sulla nuca aveva gli occhi chiusi, questa mi guardava con due grandi pupille che sembravano brillare di luce propria, come quelle di un gatto. La falena fece ondeggiare le sue antenne, e lei sollevò il viso di sirena.

Disse: – Perché mi segui, falena?

– Tu mi guardavi con la tua faccia lunare.

Come aveva potuto riconoscere immediatamente la falena, e perché io avevo chiamato lunare la sua maschera posteriore?

Questi sono i misteri della Festa delle Maschere di Morraine.

Lei rise e si voltò, tornando a mostrarmi il volto dagli occhi chiusi. Ricominciò a camminare, ed io mi affiancai.

Passeggiammo in silenzio fino ad un cortile in cui ballerini dai costumi floreali eseguivano complicate coreografie. Lo attraversammo senza soffermarci più di qualche momento. Sbucammo quindi in un cortile quasi deserto: gli attori già se n’erano andati, con i loro arnesi, e restava solo un palco disadorno, qualche panca; sparsi a terra, frammenti caduti dai costumi e carte che avevano contenuto dolciumi. Al centro del cortile gorgogliava una fontana ottagonale. Ci sedemmo sui gradini. Solo qualche finestra gettava nel cortile un chiarore giallastro. Nell’ombra dei portici si aggiravano ombre furtive. Ci guardammo.

Gli occhi della sirena erano molto verdi, luminosi, incredibilmente grandi. Dovevano esserci delle lenti di vetro inserite nelle orbite. La maschera era coperta di minute scaglie di madreperla, e senza dubbio doveva essere molto costosa. In quel momento mi vergognai un poco della mia, fabbricata in casa partendo da una larva di cartapesta.

– Perché i colori? – chiese lei. Per un attimo, ebbi il tremendo sospetto che Lucibello mi avesse giocato uno scherzo. Ma no: la voce, in ogni modo, non poteva essere la sua.

– Sono quelli di una falena lunare – risposi io, in mancanza di meglio. Ma la spiegazione, almeno a lei, dovette apparire sufficiente. Seduta accanto a me, nell’oscurità, il vestito argenteo da sirena la faceva assomigliare ad un fantasma.

– Perché hai due facce? – chiesi io.

– Una guarda in avanti, l’altra indietro.

– Ma una ha gli occhi chiusi.

– Perché guarda dentro.

– Indietro e dentro?

La sirena si stiracchiò senza rispondere.

– Guarda... i ricordi? – azzardai dopo un momento.

Lei si voltò verso di me. – Forse i sogni – rispose.

Scossi la testa. – I sogni non sono dietro, sono davanti.

– No – sibilò lei con singolare veemenza, ma non volle fornire ulteriori spiegazioni.

Cambiai argomento. – Ho già visto quella maschera...

– Impossibile! È il mio primo anno.

– No... l’ho vista su un carro.

La sirena sollevò la testa e mi fissò.

– Quando?

– Cinque primavere fa.

– Un carro di attori?

– Sì. Come...

– Mentre passava per Morraine?

– No, fuori. E poi... nel Cortile Segreto.

Lei si alzò. – Camminiamo.

Ci avviammo verso un cortile da cui proveniva una musica dolce e triste. Ci soffermammo sotto i portici ad ascoltare.

La sirena non rimaneva mai ferma a lungo. Come un pesce, sembrava doversi muovere senza sosta, sospinta da impercettibili correnti abissali. Mi rivolse la sua faccia lunare e si avviò lungo il porticato, senza una parola.

La seguii, in un girovagare apparentemente senza meta.

O forse no. Intuii ad un certo punto che stavamo girando in cerchio sempre più stretti; e che al centro di questi doveva esserci, più o meno, il Cortile Segreto.

Quando raggiungemmo il Cortile della Mezzanotte ne ebbi la certezza. Con l’assenza di stupore propria dei sogni, la vidi dirigersi verso l’androne sormontato dalla testa di unicorno.

Nel cortile, su un palco, dei pagliacci cadevano a terra rovinosamente, giacevano come morti, si rialzavano con immutata foga.

Un gruppo di maschere uscì dall’androne, con risate da ubriachi. Le lasciammo passare, ma mentre la sirena stava per infilarsi nel passaggio arrivò di corsa un ultimo personaggio, la faccia formata da un dorato disco solare, raggiante, con due grandi occhi spalancati. Il sole urtò la sirena. La maschera solare, segno infausto!, quasi cadde, l'uomo la raddrizzò. Non prima che scorgessi dei corti ricci biondi, quasi bianchi. Per un attimo i due rimasero immobili, fissandosi, e io da dietro vidi il sole parzialmente eclissato dalla luna. Poi il sole corse ad unirsi agli altri, e la sirena si addentrò nell’androne.

Dove si apriva il passaggio che conduceva al cortile senza nome, trovammo il cadavere. Un’unica lanterna, sul soffitto a volte illuminava la faccia nuda e livida, contratta in una smorfia. Non ebbi alcun dubbio che fosse morto. Era la cosa più oscena che avessi mai visto. La maschera giaceva poco lontano: un grifone dal becco crudele, inutilmente minaccioso.

Solo quando la sirena mi diede uno strattone, mi accorsi che le stavo stringendo la mano. Non so chi di noi due avesse preso quella dell’altro. Cercava di trascinarmi verso il passaggio. In quel momento, altri cominciarono a giungere, dalla parte opposta dell’androne. Non mi mossi; non so se fosse per istinto, o perché l’avevo sentito dire da mio zio (che come ricorderete era stato soldato nella Guardia), ma sapevo che fuggire era il modo migliore per essere indiziati. Con le mie ali bianche e la sua maschera di madreperla, di sicuro qualcuno si sarebbe ricordato di noi.

Una donna gridò. Io agitai un braccio. – Sta male! – dissi.

Un orsacchiotto rosa si chinò sul cadavere. – È morto – disse.

Cedendo alla pressione della sirena, mi accostai poco a poco all’imboccatura del passaggio. Un coniglio dalle orecchie rosa e bianche disse: – Bisogna avvertire la Guardia.

Arrivarono gli spettatori che erano nel cortile, poi anche i pagliacci. Ormai noi due eravamo giunti sotto la bassa volta del passaggio, e la sirena continuava a tirarmi.

Scorsi le divise rosse e blu della guardie. Anche loro indossavano maschere, ma erano semplici cappucci neri, con i buchi per gli occhi e per la bocca.

Nel passaggio il buio era quasi totale. La sirena mi stringeva la mano tanto forte da farmi male, ma mi rifiutai di correre finché non superammo l’angolo a metà del corridoio.

Non avevo alcun dubbio che lei sapesse dove stava andando.

Quando arrivammo alla porta la sirena estrasse una chiave; brillò argentea nella luce di una mezza luna che nel frattempo era sbucata da uno squarcio fra le nuvole, e insinuava i suoi raggi entro lo stretto cortile. Ricordavo di non aver visto alcun buco di serratura nella stretta porticina, ma la chiave era molto piccola, poco più di un’asta con quattro nervature dentellate, e in effetti nel legno c’era un buco altrettanto minuscolo.

Quando la sirena fu entrata, richiuse la porta e si appoggiò contro un muro, ansimando. La fenditura era stretta come avevo immaginato da fuori. Ci tenevamo ancora per mano, e quasi senza volerlo, l’abbracciai. Poi lei mi lasciò la mano e si avviò lungo il passaggio.

Le mie ali erano irrimediabilmente rovinate.

Attraversammo, ricordo, quello che mi parve un numero interminabile di corridoi e sale. Solo una era illuminata. Mi arrestai sulla soglia, ma la sirena mi trascinò dentro, impaziente. La sala era deserta. Poi mi arrestai di nuovo. Una delle pareti era coperta da una grande mappa. Una città. Era Morraine e non era Morraine. Riconobbi il Castello, alcuni dei cortili, dei passaggi. Altri invece erano diversi dalla realtà, ne ero certo. Ma la cosa più singolare, era che l’insieme della mappa formava un disegno, come un fiore complicato ma regolare.

La mia guida mi toccò un braccio. – Adesso andiamo – disse. Con una seconda chiave aprì una piccola porta di quercia, in un angolo della sala.

Lia

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