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(13) LA FESTA DELLE MASCHERE

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La Festa quell’anno cadeva il tredicesimo giorno del Mese-delle-Maschere.

I bambini escono la mattina; i ragazzi si uniscono a loro nel pomeriggio; la sera, la festa raggiunge il suo culmine, con i giovani e gli adulti che esibiscono le maschere più fantastiche, sfarzose, enigmatiche. È proprio indossando la prima vera maschera che a Morraine si raggiunge la maturità.

Io trascorsi la mattina negli ultimi preparativi, che consistevano nel cucire le ali del costume. La maschera stessa era già pronta da qualche giorno. Dal Cortile del Nano giungevano risate di bambini, voci in falsetto, colpi secchi, brontolii cupi: per tradizione nel nostro cortile, la mattina della Festa, si teneva uno spettacolo di burattini. In mezzo ai bambini doveva esserci anche mia sorella.

E d’improvviso fui afferrato dalla tristezza.

Aprii la finestra, montai su una sedia. Dalla mia camera potevo vedere solo i tetti. Uscendo sulle tegole, cosa che avevo fatto molte volte, avrei potuto sbirciare nel cortile. Ma non mi mossi. Ascoltai le voci dei burattinai, riconobbi la storia. Dopo un po’ richiusi la finestra.

L’anno prima ero stato anch’io in mezzo a quei bambini. Niente ansie, niente misteri, niente desideri inappagati. Niente Lia.

Incredibilmente, sentii i miei occhi gonfiarsi di lacrime. Per la prima volta, guardavo la mia infanzia come una cosa che apparteneva al passato.

La falena, per parte sua, mi guardava con occhi smeraldo. Io la guardavo attraverso due fessure tagliate sotto gli occhi della maschera.

Mossi la testa e le antenne della falena ondeggiarono.

Lo specchio che avevo in camera era molto piccolo, e dovetti eseguire vari contorcimenti per esaminare la falena nella sua interezza. L’insetto mi imitava in una sorta di balletto. Le ali, un velo di organza steso su un’intelaiatura di canne, sbattevano in maniera convincente. Non sapevo quanto avrebbero resistito fra la folla del carnevale, ma ne ero molto orgoglioso.

Indossavo, come si addice ad una falena, una corta tunica di un colore marrone arsiccio, di panno spesso e consunto, ritrovata in qualche cassapanca. Ma sul petto avevo disegnato tre spirali concentriche, in rosso, giallo e azzurro.

Ma cosa significava? mi chiesi ancora una volta.

Se l’avevo creata dovevo saperlo. Semplicemente, non l’avevo ancora scoperto. Forse ci sarei riuscito prima di sera. Alcuni trascorrono una vita intera con la stessa maschera, senza mai riuscire a penetrarne il segreto. Altri cambiano maschera spesso, magari da un anno all'altro, alla ricerca del medesimo segreto.

Tornai ad aprire la finestra. Il cielo era coperto, ma le nuvole alte non minacciavano pioggia. Un gatto dal pelo striato e rossiccio ebbe un sobbalzo, sulle tegole. Poi qualche felina percezione lo convinse che ero solo io, e venne a strofinarsi contro la mia mano.

– Ciao, Tigre – dissi.

L’appuntamento era sotto l’orologio del Cortile Rosso, nell’ora in cui il folle con il martello batte due tocchi sulla campana. Perché, vi chiederete, è un matto a battere le ore? Forse perché tenere il conto di tutte le ore di tutti i giorni del tempo è un’operazione di suprema follia.

Comunque arrivai in anticipo, perché non c’erano né Jues né Lucibello. O meglio: non c’erano le loro maschere. Che quel giorno erano Jues e Lucibello.

Mi sedetti sul bordo di una delle panche di pietra ai piedi della torre dell’orologio, per non rovinare le mie ali, e osservai le maschere che mi passavano davanti. Vidi un liocorno e una salamandra, un giullare e un buffo anatroccolo. Forse dietro ciascuno di quei gusci di carta, o cuoio o metallo, c’era un viso noto. Poiché la Festa delle Maschere è innanzi tutto un mistero.

Da lontano vidi una forma nera che avanzava con passo lento e ondeggiante. Sopra il mantello che la copriva fino ai piedi, una maschera con un lungo becco di uccello, e un cappello a larghe tese.

Mi alzai. Quando la maschera dal mantello nero mi fu vicina, vidi che era molto più alta di me. I suoi passi producevano un rumore secco sul selciato di pietra.

– Lucibello? – mormorai a voce molto bassa. Durante la Festa delle Maschere è sconveniente pronunciare i nomi normali delle persone in maniera che altri possano sentirli.

La maschera chinò il becco verso di me. Doveva avere delle specie di trampoli per essere così alta.

– Gli ubu sono ghiotti di falene – disse.

Forse non ci crederete, ma quella frase mi gelò il sangue. Poiché durante la Festa sono le maschere a guidare le persone.

L’arrivo di Jues mi salvò dall’imbarazzo. Era vestito da Pagliaccio Assorto: una maschera bianca, dalla bocca un po’ triste, gli occhi che guardavano in basso, un sobrio costume bianco e nero.

Ci osservammo a vicenda. Come succede fra amici molto stretti, ci eravamo svelati in anticipo la natura delle nostre maschere, ma non le avevamo mai viste.

– Perché i colori? – mi chiese Lucibello. – Le falene sono grigie, o marroni.

– Non sulla Luna – dissi. – Sulla Luna tutto è al contrario. Le falene sono grandi e colorate. E mangiano gli ubu.

L’uccello mi colpì col becco sulla spalla.

– Ma qui siamo sulla Terra!

– No – dissi io. – Siamo alla Festa delle Maschere di Morraine.

E per la prima volta da che mi ricordassi, Lucibello non ebbe nulla da replicare.

Iniziammo così ad aggirarci fra cortili e corridoi.

È impossibile descrivere la Festa delle Maschere a chi non l’abbia mai vista. O meglio, diciamo che io non ne sono capace. Basti sapere questo: ogni cortile dei 240 che compongono la città offre uno spettacolo proprio, allestito a cura dei suoi abitanti. Duecentoquaranta spettacoli in un solo giorno! Nessuno potrebbe vederli tutti. E dunque, ciascun maschera non può che seguire il proprio istinto.

Ciò significa che ben presto, io, Jues e Lucibello ci separammo.

Ma la Festa delle Maschere non solo separa, unisce. Sì, perché una medesima maschera incontrata in più cortili allude ad una segreta affinità. Tanto più che una sola cosa, per inflessibile convenzione, le maschere non osano nascondere: il sesso di chi le indossa. Si dice perciò che la maggior parte dei fidanzamenti, a Morraine, avvengano durante la Festa delle Maschere. Come la maggior parte delle separazioni.

Jues lo lasciammo nel Cortile dell’Ombra, preso da uno spettacolo di mimi dai gesti lenti e misurati, il cui significato sfuggiva alla comprensione mia e di Lucibello, ma evidentemente non a quella del Pagliaccio Assorto.

Procedendo, io e l’ubu scambiammo occhiate con altre maschere, cercando qualche segno... Di cosa, neppure noi sapevamo. Alcuni, nella folla, erano privi di maschera: si trattava invariabilmente di stranieri, poiché è considerata una grave sconvenienza per un abitante di Morraine uscire a volto scoperto in questa occasione. Ma anche molti di coloro che indossavano qualche costume erano stranieri; facilmente riconoscibili, tuttavia, dalla grossolana banalità delle loro scelte, che non sfuggiva neppure a noi ragazzini, benché, temo, sia quasi impossibile da spiegare a chi non è nato e cresciuto nella mia città.

Giungemmo nel Cortile Dorato, che è uno dei più grandi e ornati della città. Qui si esibiva una compagnia venuta da fuori, come capita nei cortili ricchi, dove gli abitanti raccolgono somme a volte ingenti per ingaggiare attori famosi. Segretamente speravo di trovare... ma è inutile che ve lo dica.

Su un palcoscenico illuminato da lampade colorate, benché fosse ancora giorno, personaggi in abiti di seta, rasi e velluti di gran pregio, con ornamenti che sembravano, a chi li guardava dalla platea, di autentico oro e pietre preziose, eseguivano complicate evoluzioni, lanciando di tanto in tanto grida modulate, in cui con qualche fatica riconobbi delle parole, accompagnate da una musica stridente.

Dopo poco, entrò in scena un eremita, la lunga barba bianca, l’abito grigio cenere a brandelli, e misteriosamente, forse proprio per la sua incongruenza, o forse per l’abilità dell’attore, attirò su di sé tutta l’attenzione. L’eremita diede inizio ad un lungo sermone religioso, a cui gli altri personaggi reagirono in varie maniere, a seconda delle loro indoli: scherno, noia, ozioso interesse, fastidio; solo la Principessa, una eterea creatura quasi interamente ricoperta di gioielli, parve commossa e turbata.

Con mia grande sorpresa, Lucibello decise di fermarsi. Per conto mio, ero in preda ad una confusa irrequietezza. Mi allontanai silenziosamente, e voltandomi vidi l’ubu proteso con il lungo becco giallo verso l’eremita, la nera figura che sovrastava di una testa gli altri spettatori.

Trovai, in successione: saltimbanchi che costruivano piramidi umane; un giullare che narrava un cantare cavalleresco aiutandosi con pannelli dipinti e percussioni di vario genere; un cortile semivuoto, mentre gli artisti si riposavano fra un numero e l’altro; dei trapezisti su una corda tesa fra i tetti; nella Piazza dei Miracoli (in cui non avevo più messo piede dall’estate), un corsa di cavalli montati da cavallerizze scarsamente vestite, che avevano come mete le due fontane; una pantomima di orsi ammaestrati. E altri. Le maschere che incontrai erano troppo varie per essere descritte: ci vorrebbe tutta la sera. Notai comunque che la falena lunare suscitava un certo interesse, soprattutto fra maschere ugualmente notturne, che erano poi quelle da cui lei stessa era attratta.

Giunsi infine nel Cortile della Luna Piena.

La sera era già calata su un cielo screziato di viola e di rosso, mentre gli adulti, con le maschere più ricche, avevano cominciato ad uscire.

Lo spettacolo non era ancora iniziato, forse in attesa del buio completo. Su un lato del cortile si alzava un semplice telone bianco, che nascondeva quasi interamente le facciate delle case.

Mi fermai incuriosito, notando la presenza di molte maschere notturne, come del resto si addiceva al luogo.

Poi il telone si illuminò. L’ombra di un drago alato si stagliò su di esso. Vidi che la luce giungeva da dietro il telone. Dalla coda del drago nacque un fiore, da cui crebbe un muso di tigre, poi un volto di fanciulla, poi...

Mi addentrai fra il pubblico. Nel frattempo era iniziata una musica lenta, ma con esplosioni improvvise di cembali, piatti e campane. Terminata la virtuosistica introduzione, destinata ad attirare gli spettatori, iniziò la rappresentazione vera e propria. Quale fosse esattamente la storia, non saprei dire: c’erano solo la musica e le ombre, e forse le ombre erano solo un commento alla musica. O meglio: era un teatro che aspirava a diventare pura immagine, privandosi delle voci e dei corpi. Riconobbi comunque gli indizi di una favola mitologica, in cui un giovane eroe cerca di conquistare l’amore della sacerdotessa di una gelida divinità lunare.

Ma seppi, fin dal primo momento, che era quanto andavo cercando, nella mi identità di Falena Lunare.

Ci fu un’altro evento, in verità, che mi impedì di seguire con attenzione la storia. Fra la folla, scorsi una maschera che sembrava guardarmi: si trovava esattamente di fronte a me, e dunque doveva voltare le spalle alla scena; era metà bianca e metà nera, gli occhi due buchi scuri e insondabili, la bocca leggermente aperta.

Mi pareva di averla già vista, ma non riuscivo a ricordare dove.

Lia

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