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(0) NEL DESERTO

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Il foglio bianco è simile a un mare di insondabile profondità. Da esso può affiorare qualsiasi cosa: sirene e leviatani, perle e vecchie scarpe.

La somiglianza non era sfuggita agli antichi, che spesso hanno paragonato la scrittura ad un viaggio marino; e a navi, vascelli e barche il loro ingegno avventuroso.

Altri, all’opposto, hanno affermato che tutto è già stato detto, tutto è già stato scritto. Perciò hanno preferito un’altra metafora, e altre onde: quelle del deserto. Infatti, a differenza del mare, il deserto non nutre nel suo fondo creature vive, e ciò che affiora sono solo i relitti di civiltà trascorse. Elmi di guerrieri, ossa di giganti, pietre di fortezze. Tutto ciò che un tempo era splendido, viene macinato dalla sabbia e ridotto a sua sembianza. Solo quanto è già stato fatto dagli uomini ricompare fra le dune.

Questi due oceani sono perciò opposti? Forse no. Poiché alcuni saggi sostengono che un tempo i deserti erano mari di acqua. E portano a dimostrazione di questa loro affermazione rocce in cui compaiono impronte di conchiglie e di pesci. E se un tempo i deserti erano colmi di vita forse un giorno ne produrranno ancora, di nuova.

Inoltre, senza cercare con lo sguardo epoche lontane del passato o del futuro (poiché la brevità della vita umana impone moderazione anche al pensiero), non esistono forse nel deserto le oasi? Come questa dove sto scrivendo. Nel grande mare del deserto, la vita fiorisce: fontane sgorgano, dove nuotano pesci; ci sono alberi da frutto, e prati dove brucano le capre. Giardini chiusi da mura, e uccelli di ogni specie fra i rami. E le acque di questa oasi, come tutte le acque del mondo, torneranno prima o poi in quell'immenso Oceano che abbraccia tutte le terre.

Perciò, forse, questi due emblemi non sono troppo dissimili.

In entrambi i casi, per chi non cerca l’attenzione di un’ora, o l’orecchio distratto del mercante, accingersi a scrivere suscita sgomento nel cuore; la sensazione di essere in bilico fra lo smarrirsi e la futilità.

E tuttavia, la storia che ho sentito raccontare quando ero giovane da uno straniero che aveva attraversato il mare e il deserto, e in cui io stesso ho avuto una piccola parte, non appare indegna di essere narrata nuovamente e scritta, affinché non cada nell'oblio. Perciò, giunto ormai al mezzo della mia vita e avendo troppo indugiato, io, Djab ab-Varani, con l’aiuto del Signore, mi accingo a mettere sulla carta per la prima volta la storia degli amori di Arquin e Lia.


Lia

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