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(5) LA TORRE

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Il cortile era deserto. Tutti gli spettatori se n’erano andati, i commedianti si erano ritirati le scene smontate, i servitori avevano spento le lampade.

Io avevo provato la porta e le finestre, senza fortuna. Avrei potuto chiamare aiuto, gridare. E rendermi ridicolo agli occhi di Lia. Non l’avevo fatto, e ormai era troppo tardi. Avevo voglia di piangere. Anzi: lo stavo facendo. Pensavo a Jues e a Lucibello che se ne tornavano alle loro case, senza dubbio dopo avermi cercato. Pensavo a mia madre, e al mio letto.

Infine mi riscossi, balzai giù dalla finestra. Dovevo uscire, e c’era un unico posto dove cercare: nelle viscere del magazzino. Nel buio più completo. Doveva esserci un’altra porta: a Morraine, diceva un proverbio, nessuna stanza ha una porta sola.

Il buio si rivelò meno completo di quanto avevo pensato. Si era levata la luna, e una pallida luminescenza disegnava contorni di oggetti, per la maggior parte incomprensibili. Iniziai il giro della stanza, muovendomi a tentoni lungo le pareti. Sotto le mie dita l’intonaco umido si sbriciolava, cadendo con un fruscio di minute foglie morte, lasciando affiorare mattoni e pietre. Quando mi fermavo, e dovevo farlo spesso per superare o aggirare qualche ostacolo, sentivo altre cose muoversi nel magazzino: topi, speravo. Morraine è piena di favole sugli abitatori delle sue cantine. Cercai di convincermi che non credevo più alle favole.

La prima cosa che trovai non fu una porta, ma una botola: me ne accorsi dal risuonare a vuoto dei miei passi. Favole o no, non presi nemmeno in considerazione l’idea di aprirla e di scendere: è più difficile uscire da una cantina che da qualsiasi altro posto, mi dissi. E poi, un’altra porta doveva pur esserci!

Non ne trovai una, ma tre. Tutte chiuse. Ero quasi tornato al punto di partenza, quando inciampai contro una scala. I gradini di pietra salivano lungo la parete, senza balaustra. Si infilavano nel soffitto, piegavano, salivano ancora. A questo punto neppure la luce della luna mi aiutava più. Ogni tanto, nelle pareti, si apriva una porta, invariabilmente chiusa.

Poi le rampe presero un andamento regolare, piegando ogni volta a sinistra: ero dentro una torre. Una serie di feritoie me lo confermò. Tutte troppo strette per uscire.

Alla fine della scala trovai un’ultima porta. Mi sedetti sui gradini, ansimando. Non osavo toccarla. Non sapevo cosa avrei fatto se l’avessi trovata chiusa. Infine mi alzai, tirai un profondo respiro, cercai il catenaccio, lo tirai... spinsi.

La porta non si mosse.

Preso dal panico e dalla rabbia la scossi. E mi diedi dello stupido. Si apriva verso l’interno: era ovvio. La scala proseguiva ancora per qualche gradino e terminava su una terrazza coperta.

Era la più bella notte di luna.

Attorno a me si stendeva tutta Morraine, in argento e seppia. Avrei potuto contare tutte le sue 120 torri, e perfino i 3600 merli delle mura, e le 480 campane, i 600 cipressi, e le 72 bandiere e gli 840 segnavento... Naturalmente non lo feci. Ma una cosa mi colpì, mentre facevo il giro del terrazzo, passando da una colonna di mattoni all’altra: la città pareva estendersi egualmente in tutte le direzioni. Mi trovavo al centro di Morraine. E proprio sotto di me, nel cuore dunque della città, c’era un magazzino di attrezzi teatrali. La cosa mi parve, in quel momento, piena di qualche arcano significato. E nel magazzino c’era una botola... Se solo ci fossero stati con me Jues e Lucibello! Se solo non fosse stato quasi mezzanotte, e chissà cosa pensavano a casa mia! Se solo avessi avuto una lampada... E dopo un attimo pensai: se solo avessi meno paura.

I pipistrelli tentavano voli inquieti attorno alla torre. L’aria era fresca, ma carica della promessa dell’estate, e di odori che arrestavano il respiro. Su alcune terrazze le lampade erano ancora accese, si scorgevano delle figure, e adesso che il mio respiro si era calmato, potevo sentire perfino brandelli di musica e di voci.

Cercai i punti di riferimento della mia casa: la Torre degli Unicorni; un vecchio pino dalla cima piegata, che si alzava al centro del Cortile dell’Uovo; e sullo sfondo, la cima ancora innevata dell’Yiril...

Dovevo solo calarmi dalla torre. Una volta sui tetti, tornare non sarebbe stata un’impresa impossibile: come ho detto, Morraine è una sola casa.

Mi sporsi. La torre non era molto alta, ma c’erano almeno venti braccia per arrivare al tetto sottostante. Senza appigli di cui mi fidassi. Serviva una corda. A malincuore ripresi le scale, tornai nel deposito, frugai nei pressi delle finestre, dove c’era un poco di luce, trovai delle corde che non sembravano troppo sottili né troppo vecchie, le legai ad una grata e diedi qualche strattone per essere sicuro che non si rompessero, me le caricai sulle spalle.

Risalendo lungo la scala, giunto ad un pianerottolo, vidi qualcosa che mi fece fermare: una striscia di luce sotto una porta, alla mia sinistra. Prima, di certo, non l’avevo notata. Forse avevo richiamato l’attenzione di qualcuno, con i rumori che avevo fatto nel cercare le corde. E forse, in questa maniera, sarei uscito più in fretta... No: ormai potevo andarmene da solo. Superai la striscia di luce in punta di piedi, girai un angolo... E tornai indietro: ero penetrato nel Cortile Segreto, e non avevo intenzione di andarmene senza vedere tutto quello che c’era da vedere!

Ma non c’era niente da vedere: solo una lama sottile di luce. Nessuna serratura, e nessun buco per la chiave. Appoggiai l’orecchio al legno. Mi pareva di udire delle voci, ma non ero sicuro che non fosse il pulsare del mio sangue. Il tempo passava veloce. Dovevo andare.

Ripresi la salita. Altre due curve della scala... e di nuovo la luce! Questa volta non si trattava solo di una fessura, ma di una finestrella ovale, protetta da una grata a croce. Mi fermai un attimo a riflettere. Doveva corrispondere alla medesima stanza a cui dava accesso la porta che avevo incontrato prima. Una stanza attorno a cui giravano le scale. Nel cuore della torre.

Mi avvicinai. E vidi: un soffitto a volte ogivali. L’apertura attraversava orizzontalmente una delle volte, e ben poco si vedeva della stanza sottostante. Ma abbastanza per farmi trattenere il respiro. Dunque: uno scaffale altissimo, pieno di vasi in vetro e ceramica; quelli in ceramica con disegni e scritte in caratteri arcaici; quelli di vetro che lasciavano intravedere... non sapevo bene cosa, ma parevano bizzarri animali sospesi in un liquido trasparente. Appeso al soffitto, uno scheletro di mirabili dimensioni, con la coda dotata di aculei e mascelle in grado di stritolare un bue. Il collo di un alambicco, che saliva a spirale fin quasi alla finestrella. Un mantice gigantesco, appoggiato ad una parete. L’angolo di un tavolo ingombro di pergamene, libri, strumenti di ottone e vetro.

Un uomo passò davanti al tavolo. Un giovane: corti ricci biondi, carnagione pallida, lineamenti affilati. Le labbra strette, in un’espressione malinconica e sprezzante insieme. Indossava pantaloni neri, aderenti, una camicia bianca, dalle maniche a sbuffo, farsetto viola, alti stivali neri.

Gettò qualcosa sul tavolo, con un gesto brusco. Era uno dei burattini. Senza il costume blu con gli alamari e i bottoni d’oro, sembrava un bambino. Per un attimo provai una sensazione di orrore indicibile. Era davvero un bambino! Guardai meglio. No, non poteva essere. La distanza, la luce, l’angolazione mi avevano tratto in inganno. Era proprio un burattino: grassoccio, gambe e braccia corte, faccia dai lineamenti esagerati, privo di sesso, dalla pelle biancastra.

L’uomo parlò. Aveva una voce secca, un po’ troppo acuta, con un accento vagamente straniero. – Non c’è niente da fare – disse. Sembrava infastidito dalla cosa. Un’altra figura entrò nella fetta di stanza visibile.

Era Lelius. Si chinò sul burattino e lo toccò, con un gesto quasi di affetto. Il burattino si mosse. Tese un braccio, agitò le gambe in un patetico tentativo di eseguire una capriola.

– Solo lei potrebbe... – cominciò il giovane biondo. Lelius scosse la testa, e il giovane alzò le spalle.

Poi Lelius sparì alla vista, tornò con il costume, rivestì con cura la marionetta. Senza aspettare che avesse finito, il giovane si avviò verso la porta, impaziente. Giunto sulla soglia si girò e disse: – Tu non vieni?

Pensavo si riferisse a Lelius. Invece una terza figura fece la sua apparizione, invisibile fin'ora perché si era trovata proprio sotto la finestrella. E perciò la vidi solo di spalle. Ma era inequivocabilmente una donna, e apparentemente giovane: lunghi capelli lisci e biondi, quasi bianchi, trattenuti da una coroncina con delle pietruzze scintillanti; alta, movimenti flessuosi. Una lunga gonna di velluto verde e corpetto uguale su una camicia bianca. Si arrestò un momento accanto al corpo del burattino. Si chinò su di lui, come per parlargli o per... baciarlo. Poi raggiunse l'uomo sulla porta. Che l'aprì per farla passare e...

Sentii la porta aprirsi, e contemporaneamente il rumore mi giunse anche dalle scale. Per un attimo rimasi paralizzato dal terrore. Poi sentii i passi scendere. Poco dopo una chiave girare in una delle porte del deposito. Lelius, intanto, aveva terminato la vestizione, e preso in braccio la marionetta. Questa, con un movimento improvviso, l’abbracciò. E di nuovo, per un istante, mi parve orribilmente simile a un bambino. Poi anche Lelius uscì, portando con sé la lampada.

Io raggiunsi la sommità della torre con passo ancora più felpato. Non sapevo cosa pensare della scena a cui avevo assistito, ma ero certo che quella stanza fosse un laboratorio alchemico. Il Cortile Segreto si rivelava sempre più colmo di misteri.

Calarmi sui tetti non fu molto difficile. È il genere di esercizio che i genitori di Morraine cercano in ogni modo di scoraggiare, e che i ragazzi imparano prestissimo. Il difficile cominciò dopo. Da che parte dirigermi lo sapevo, ma sui tetti di Morraine le linee rette hanno scarso significato. Anche perché i proprietari dei tetti non amano che qualcuno calpesti le loro tegole, magari le rompa, e frappongono ogni genere di ostacoli ai trasgressori. Ostacoli che rendono i tetti di Morraine oltremodo vari e pittoreschi, e mai su uno stesso livello: inferriate e muretti, siepi degne di giardini pensili e punte metalliche sporgenti. Ostacoli che i bambini di Morraine imparano a superare in tenera età (i tetti sono costruiti in maniera tale che è molto difficile cadere), ma non fra le ombre ingannevoli della luna. Queste sono riservate ai ladri e agli amanti, e a me procurarono non poche escoriazioni.

Trovai infine un lucernario aperto, una soffitta abbandonata, una scala scricchiolante... e alla fine di questa uno dei cortili più malfamati della città, in cui intravidi ombre di donne e di uomini intente ad enigmatici commerci.

Da lì, arrivai a casa di corsa.

Trovai mio padre pallido come non l’avevo mai visto. Mia nonna e le zie parlavano tutte insieme, frastornandomi le orecchie. Mio zio non c’era: era uscito a cercarmi. Quanto a mia madre, corse ad abbracciarmi, in lacrime, salvandomi così da una immediata e dolorosa punizione.

Mia sorella, ancora alzata, mi guardava con grandi occhi pieni di stupore e di una certa invidia.

Lia

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