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(7) LA PROVA

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Nel mese della Nebbia-fra-i-rami-spogli, come viene chiamato a Morraine il periodo in cui l’autunno declina nell’inverno, presi la mia decisione. La decisione più importante della mia vita.

Qui il nostro narratore si interruppe e sorrise. Senza di essa, infatti, non sarei fra di voi. Ma è necessaria una spiegazione.

Come già sapete, Morraine è un’unica casa, racchiusa nelle mura di una normale città. Ciò significa che tutto il suo spazio interno è in gran parte già occupato. E data l’indole dei suoi abitanti, nessuno ha mai costruito la sua abitazione fuori dalle mura.

Per un raggio di venti leghe intorno a Morraine ci sono solo capanne per gli attrezzi agricoli, o per trascorrere qualche notte nella stagione del raccolto. Oltre, cominciano i villaggi e i paesi di coloro che vengono a Morraine per i mercati settimanali: gente che parla con la voce forte e alta di chi ha intorno alla sua casa uno spazio vuoto, e che noi ragazzini guardavamo con un misto di timore e sufficienza.

Ma a parte questo, che c’entra poco o niente, quello che voglio dire è che lo spazio, a Morraine, è limitato. Le possibilità di costruire nuove abitazioni sono prticamente nulle, per motivi igienici ed estetici, come minimo. Con qualche piccola eccezione, come vi racconterò a suo tempo...

Ma Morraine è ragionevolmente ricca e prospera: la sua pianura fertile, i fiumi abbondanti di acque, i suoi artigiani famosi anche dove gli uomini parlano altre lingue.

E a seconda delle circostanze (o dell’influsso degli astri, come vogliono alcuni), la sua popolazione aumenta.

Che fanno coloro che sono in eccesso? Se ne vanno, naturalmente. O non tanto naturalmente. Leggende antiche alludono a sparizioni misteriose, a rapimenti da parte di gnomi o di fate, e in queste leggende un ruolo importante giocano i cunicoli sotterranei della città. Ma ai miei tempi, posso giurarlo, nulla di tutto questo accadeva.

Chi se ne va è detto Portatore-della-lampada, perché al momento di lasciare la città, i suoi parenti gli affidano una lampada e dell’olio, che serviranno ad illuminargli la via.

I motivi per cui i portatori abbandonano Morraine sono molteplici e tutti convincenti. Perché una simile categoria di persone faccia la sua apparizione proprio nei momenti di sovrappopolazione, nessuno è mai riuscito a spiegarlo in maniera definitiva.

È come se una segreta inquietudine pervadesse la gioventù di Morraine, un desiderio di cose nuove, un’insofferenza verso i costumi dei padri, tanto forte da superare l’avversione per i luoghi dove “i muri non si incontrano”.

Nel mio caso, il desiderio si chiamava Lia. Il tempo, era quello dell’Abbondanza di Figli. Come le due cose coincidessero, è un mistero che non presumo di risolvere.

Il Portatore della Lampada è segnato, è quasi sacro. I cinici dicono che è il benvenuto: uno in meno! Comunque, nessuno contesta la sua decisione, e tutti si prodigano in aiuti.

Io avevo quattordici anni, che è giusto l'età minima per partire. Però non desideravo solo andarmene: desideravo andarmene per trovare Lia. Non potevo sopportare l’idea di aspettare, a Morraine, che Lelius riapparisse con il suo carro... fra un anno, o forse dieci, o forse mai.

Ma... lasciare Morraine! Viaggiare per il mondo! La prospettiva mi sgomentava. E c’erano anche un paio di ostacoli di ordine pratico. Primo fra tutti: come mi sarei guadagnato da vivere, durante il viaggio? Poiché la speranza di partire con ricchezze sufficienti appariva remota. La mia non era una famiglia ricca, e Morraine non offre occasioni di facili guadagni. Per non dire del fatto che la prospettiva di viaggiare con molto denaro era più inquietante che rassicurante: l’ignoranza ingigantisce i pericoli, soprattutto per chi, come me, era sempre vissuto entro le mura di una sola città-casa. No: una dignitosa povertà appariva più praticabile.

Che fare? Un’idea si presentò naturale alla mente: diventare io stesso attore! Farmi assumere da qualche compagnia di comici, percorrere le stesse strade di Lia!

L’idea mi riempì di entusiasmo. Presi a frequentare con assiduità ancora maggiore di prima tutti gli attori girovaghi che capitavano in città, e anche i saltimbanchi, i funamboli, i suonatori, perfino quelli che fanno ballare orsi e scimmie. Talvolta, soprattutto le compagnie più numerose hanno bisogno di qualcuno che dia una mano per allestire il palco e le scene, in cambio di qualche soldo o di un posto nelle prime file di panche. Ma ahimè, nessuno era interessato ad un ragazzino della mia età come attore: i pochi ruoli di giovinetto, nella severa economia dei teatranti di strada, venivano assunti da una delle donne.

Mi convinsi, mio malgrado, alla pazienza. Dovevo prepararmi, attendere il momento opportuno, raccogliere informazioni. E chissà che nel frattempo a Morraine non ricomparisse Lelius...

Sarei diventato un attore! Nel mio entusiasmo, riuscii a trascinare e i miei due amici, e accarezzai perfino l’idea di formare con loro una compagnia: qualche ragazza l’avremmo trovata, accumulando risparmi avremmo comprato un vecchio carro, i cavalli e qualche costume, e poi... le vie di tutte le Terre di Mezzo sarebbero state nostre! Da Seth ad Aix, da Aiguerre a Kaliphrene, dalle montagne al mare, e magari oltre...

Nella nostra soffitta segreta allestimmo un teatro: Jues rubò una vecchia coperta di broccato blu a sua madre, per fare da fondale. Lucibello, grazie ai suoi soliti, misteriosi espedienti, arrivò un giorno con un costume da Artefice di Multiformi Metamorfosi. Il nome doveva esserselo inventato lui, ma il costume era senza dubbio impressionante: ampie brache verde cobalto, camicia che assumeva varie sfumature di viola a seconda di come la luce la colpiva, farsetto nero in cui erano intessute minute pagliuzze d’oro, scarpe nere con fibbia d’argento, cappello a cono con tre tese rivolte all'insù e uno stravagante pennacchio. La stoffa aveva il difetto di strapparsi ad ogni gesto un po’ brusco: ma questo era un segno della sua venerabile antichità.

Jues poi, che aveva una folta schiera di sorelle, venne costretto suo malgrado a procurarsi (e ad indossare) un improbabile costume da principessa. Il mio contributo al guardaroba fu piuttosto scarso: un cinturone di cuoio irrigidito, una spada che avevo fabbricato e dorato nella falegnameria di mio padre, il vecchio elmo di mio zio, che aveva servito qualche tempo nel corpo di guardia di Morraine. Ma soprattutto: un copione. Frugando in un baule dove erano conservati vecchi libri di mia zia, trovai alcuni scartafacci ingialliti, fragili, mangiati dai topi, formati da poche decine di fogli cuciti, con rozze incisioni sulla copertina e titoli come: La mirabile Historia dei Dodici Cavalieri, Le Due Figlie del Peccato, Il Mago di Qom, La Freccia insanguinata, Il volo dell’Uccello Fatato, Il Messaggero del Re, e altri ancora. Purtroppo, non trovai ciò che più avrei desiderato: la storia di Teseius e Phenissa.

La scelta ci occupò a lungo. La Mirabile Historia aveva evidentemente un numero eccessivo di personaggi, e nelle Due figlie ce n’era una di troppo. Il volo dell’uccello comportava l’uso di complicate macchine sceniche e così via.

Alla fine, anche per via del costume di Lucibello, la nostra scelta cadde sul Mago di Qom, che presentava anche il vantaggio di avere solo tre personaggi principali. La storia è semplice: il malvagio mago Zarkos costringe alle sue voglie la bellissima Zeryna, minacciando di orribili tormenti il suo fidanzato Glyon se la fanciulla non acconsente. Per salvare l’amato, Zeryna in uno straziante colloquio lo ripudia, simula amore per Zarkos; Glyon medita alternativamente vendetta e suicidio, maledice il momento in cui è nato. Ma nel giorno stesso delle nozze, già abbigliata nell’abito da sposa, Zeryna sceglie di morire di propria mano, eccitando così gli animi di tutta la cittadinanza di Qom contro la folle superbia di Zarkos. Glyon si fa artefice della giustizia, uccide il mago, viene proclamato eroe.

La versione in nostro possesso abbondava di monologhi patetici, declamati da Zeryna e Glyon (ossia: Jues ed io), che mi incaricai di accorciare ed accomodare, trasformando ad esempio le “perle distillate dall’amara rugiada del ricordo” in semplici “lacrime di rimorso”.

I preparativi si trascinarono fino ad inverno inoltrato, anche perché nessuno di noi aveva molto tempo libero. Il giorno della prima prova aveva gelato. Le fontane nei cortili sembravano candelabri rovesciati, e l’acqua poteva essere attinta solo dai pozzi. Avevamo portato della legna per accendere il caminetto nella nostra soffitta segreta, e le feritoie per i piccioni erano state otturate con stracci e paglia.

Ciascuno si era imparato a memoria le parti del primo atto. Iniziava Lucibello, nella parte del mago, e ci lasciò senza fiato: nella luce rossastra e balenante delle fiamme, che mettevano in risalto al meglio il suo costume, sembrava un’apparizione infernale, mentre il vento che soffiava dalle fessure caricava le sue parole di orrore. Il suo fisico poi era perfettamente adeguato al ruolo: magro, quasi ossuto, il viso affilato dal naso aquilino e dalle sopracciglia nere e folte. Jues ed io applaudimmo con convinzione.

Toccava poi alla vergine Zeryna. Jues, devo dire, se la cavò con onore, malgrado le vesti lo impacciassero non poco e la parte lo imbarazzasse. Fu sufficientemente patetico, senza scadere nel lacrimoso; evitò la trappola del falsetto, accontentandosi della sua voce normale, e comunicando il senso della femminilità tramite un gestire sobrio, il capo pudicamente reclinato. Anche lui ebbe applausi meritati. Jues (mi accorgo adesso di non aver mai descritto i miei due amici, e colgo l'occasione per rimediare) al contrario di Lucibello era un tipo bene in carne, con riccioli color carotae e carnagione pallida, non priva di qualche lentiggine. Cosa di cui all'epoca si vergognava parecchio

Toccava a me. Sebbene non avessi praticamente pubblico, il cuore mi batteva forte, mi pareva di soffocare. Le prime parole mi uscirono a fatica. Mi ripresi, prosegui brandendo la spada; arrivato al verso “non resterà questo ferro in ozio”, mi interruppi per un vuoto di memoria. Lucibello mi sibilò le parole. Riattaccai. Alzai con troppa foga la spada, che si spezzo contro una trave del tetto. Lucibello dovette aiutarmi altre due volte. Finii in fretta e furia. Dopo qualche secondo, Jues provò ad applaudire, senza convinzione. Lucibello si era già tolto il costume.

– Io devo scappare – disse.

Jues si districò dalle gonne. – Allora ci vediamo... domani? – propose.

Feci un vago cenno col capo. Jues uscì. Io mi tolsi elmo e cinturone, raccolsi i pezzi della spada, riposi tutti i costumi nel baule. Del fuoco non restavano che poche braci. Spensi la lampada e me ne andai.

Quella sera avevo capito che non sarei mai diventato un attore.

Lia

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