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(1) LA STRADA

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Lungo la strada che dalle montagne conduce al mare cambiò il mio destino.

La strada è in salita in quel punto, e io correvo per raggiungere il vecchio cimitero dove mi attendevano i miei amici e compagni, cavalieri di ventura fra i boschi e i casolari abbandonati intorno a Morraine.

Avevo compiuto da poco dieci anni.

Qui l’uomo si interruppe, scrutando fra le braci, e noi, ai margini del cerchio di luce arancione, trattenemmo il respiro, in attesa.

Come inizio di una storia non era in verità molto promettente. Ma noi naturalmente non potevamo fare a meno di chiederci quali avventurose vicende avessero mai portato l’uomo dalla folta barba grigia a naufragare nel nostro mare di sabbia.

Correvo, riprese l’uomo con la sua pronuncia incerta, rallentando spesso per cercare le parole di una lingua che gli era estranea, e il cuore mi batteva forte, un po’ per la corsa, un po’ per l’ansia dei giochi, e il sangue mi pulsava nelle orecchie, e fu per questo che non sentii il carro che arrivava da dietro una curva, lungo la discesa. Il guidatore tirò le redini, i cavalli sbuffavano scalpitando, nel tentativo di fermarsi, i sassi schizzavano sotto gli zoccoli, ma il carro era grande e pesante.

Poi mi trovai sospeso a qualche braccio di altezza e guardavo tutta la scena: io steso a terra, il carro che si era messo per traverso sulla strada, la gente che scendeva correndo verso il mio corpo.

L’uomo spalancò le braccia, guardandoci con occhi grandi che riflettevano le fiamme, e quel suo sorriso che allora non riuscivo a definire, ma che è la cosa che ricordo meglio di lui, e ripensandoci, aveva questa qualità: che riusciva ad essere malizioso e infantile insieme. E in quel momento ci sfidava a credere alle sue parole.

Ero morto, disse con voce più profonda, balzando in piedi e facendo un passo verso di noi che eravamo più piccoli, cosicché io feci un mezzo balzo indietro da dove ero seduto, per terra, e mi aggrappai a mia sorella. E sebbene lei avesse tre anni più di me, sentii che anche il suo cuore batteva forte.

Le foglie del bosco erano nitide come se un artista le avesse ritratte una per una dopo un temporale, in quella primavera calda che riempiva l’aria di pollini ed esplodeva di verde. E sul fianco del carro, che sembrava una casa su ruote, con tetto e piccole finestre, c’era una scritta.

DOTTOR LELIUS ABRAMUS

Mago, Veggente e Burattinaio

e il suo straordinario spettacolo di

Trapezisti Giocolieri Domatori Saltimbanchi

Prestigiatori Equilibristi Pagliacci Pirofaghi

Sul retro del carro, un emblema: una sirena, con la faccia per metà nera per metà bianca, per metà triste per metà lieta. Ma non era la faccia: era una maschera. E non era sul volto, ma sulla nuca, perché guardando bene i particolari anatomici, si poteva capire che la sirena volgeva la schiena.

Qualcuno era chino su di me, cioè su di me steso a terra: un uomo vestito di scuro, con una grande barba. Io ero molto pallido, e fu solo in quel momento che ebbi paura, sebbene mi sentissi molto bene sospeso in aria. “Mamma, mamma,” pensai.

– Ho tanto male. – Perché ero di nuovo sulla strada, e la testa, dove uno zoccolo mi aveva colpito mi faceva davvero un male terribile. E aprendo gli occhi vidi tre facce chine su di me: quella con la barba; una donna non più giovane ma molto bella, dai capelli rossi; un vecchio dai capelli bianchi.

– Non preoccuparti, non ti sei fatto niente di grave. Ti portiamo noi dalla tua mamma – disse la signora. Poiché era vestita da signora. Il vecchio mi appoggiò una pezza bagnata sulla fronte. Ma io fissavo gli occhi dell’uomo con la barba, che erano neri e molto profondi. E il dolore, come d’incanto, sparì davvero.

Mi alzai a sedere. Mi dispiaceva di non volare più come prima. Ma siccome il mio demone è sempre stato la curiosità, chiesi: – Cosa vuol dire pirofaghi? – L’uomo sorrise. Cioè, mosse appena i muscoli ai lati della bocca, e le rughe attorno agli occhi si approfondirono. Ma era un sorriso sufficiente per il dottor Lelius Abramus.

– Sai leggere – disse. Mi accarezzò la testa. – Vuol dire mangiatori di fuoco. – Si voltò a guardare il carro. Che come ho detto si era messo di sbieco, e l’unica parte che si poteva vedere da lì era il retro. Il dottore tornò a voltarsi, e mi fisso stringendo gli occhi.

La signora mi circondò le spalle con le braccia. – Ce la fai ad alzarti? – Mi alzai.

– Come fanno a starci dentro tutti?

– Tutti chi? – chiese la donna.

– I trapezisti, giocolieri, domatori, saltimbanchi, prestigiatori, equilibristi, pagliacci, pirofagi – dissi tutto d’un fiato.

La donna rise. Aveva una risata cristallina, e una voce molto melodiosa. – Questo è un segreto – disse.

Il vecchio salì a cassetta. Il dottore prese i cavalli per le briglie, e fra nitriti e nuvole di polvere rimisero il carro dritto. Così potei leggere per la seconda volta la scritta sul fianco.

La donna continuava a reggermi. Sentivo il suo profumo, di qualche fiore di cui non sapevo il nome, mescolato a quello del sudore. Per qualche ragione, mi sentii imbarazzato e mi scostai leggermente.

Lelius Abramus tornò da me. – Dove abiti, ragazzo?

– Posso tornare da solo – mi affrettai a dire. In realtà mi ero ricordato di Jues e Lucibello, i miei amici, che mi stavano aspettando. – Sto bene adesso, davvero. – E poi temevo di essere rimproverato, a casa.

I tre si guardarono. Il vecchio mi tastò la testa. Doveva esserci un grosso bernoccolo. Mi accorsi che la pezza bagnata era sporca di sangue. – Sei sicuro? – disse. Era la prima volta che sentivo la sua voce. Aveva una accento straniero, ma sebbene passino molti viaggiatori per Morraine, venendo da Aix o dalle montagne, non lo riconobbi.

– Sì, certo.

Il dottore si frugò in una tasca del farsetto di velluto nero. – Prendi questi. – Erano tre foglietti di carta. Biglietti d’ingresso, per lo spettacolo del Dottor Lelius Abramus, Mago, Veggente e Burattinaio. – Con le nostre scuse.

– Domani sera, in città. Nel teatro! Ci saranno i manifesti – disse la donna, stringendomi il braccio. – Non mancare!

– No, certo... Grazie!

Il vecchio mi mise in mano la pezza bagnata. Il dottore mi fissò ancora negli occhi. Poi i tre risalirono sul carro.

Io rimasi lì sulla strada, con i tre biglietti in una mano, la pezza nell’altra, guardando il carro che si rimetteva in cammino, chiedendomi dove mai potesse esserci un teatro a Morraine.

E in quel momento, i lembi di una tenda che copriva la finestrella sul retro, e sui quali era dipinta la maschera della sirena, si scostarono un poco e vidi un viso di un ovale perfetto, bianchissimo, un naso piccolo e appena appuntito, una bocca rossa a forma di bocciolo, due grandi occhi neri che mi fissavano.

Lia

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