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(11) STORIE TRAGICHE

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L’anno giunse al punto più basso della sua ruota. Nella Notte del Grande Cerchio d’Ombra, com’è tradizione, i bambini di Morraine ricevono doni, portati da una fanciulla cieca

Quell’anno ebbi una cintura di cuoio, con una borsa, che ho poi usato per buona parte delle mie peregrinazioni; carta e inchiostri colorati; un flauto in legno di bosso intagliato, che non ho mai imparato a suonare con qualche competenza.

Qui il viaggiatore scosse la testa con rimpianto.

E altre cose che non ricordo.

Ah, sì: da una zia alcune lire, con cui tornai nella bottega di Arno Borissein, uscendone con certi romanzi a poco prezzo e una malconcia Storia Universale dei Viaggi, ossia Atlante delle Terre Antiche e Moderne, ricco di mappe su cui cercai invano la mia isola.

Ogni volta che avevo qualche soldo in borsa (che mi accadeva quando lavoravo meglio o più del solito nella bottega di mio padre, oppure grazie alle misteriose leggi della generosità degli adulti), andavo da Arno, o in un paio di altre botteghe che avevo scoperto nel frattempo, dove vendevano libri di seconda mano.

La sera, mi ritiravo nella mia camera a leggere.

La chiamo camera, anche se in verità non lo era, esattamente. Forse vi interesserà sapere com’era fatta

All’angolo sud-ovest del Cortile del Nano si leva una torre massiccia, non tanto importante da meritare un nome. A ridosso di questa, una fetta di tetto era stata rialzata da qualche nostro antenato, onde ricavare le stanze dove abitavamo. Qualcuno, in seguito, aveva trasformato parte di questo tetto in una terrazza. E mio padre, quando nacqui, aggiunse la mia stanza. Così cresce Morraine: non allargandosi, ma innalzandosi e aggiungendo con grande parsimonia cellule al proprio tessuto di tetti. C’è da aggiungere che noi di Morraine, forse proprio perché viviamo tutti in una stessa casa, ci teniamo molto a potercene stare da soli, quando vogliamo. Ed è un privilegio che i genitori, appena possono, cercano di accordare anche ai loro figli. Io poi ero il primo.

Così mio padre, quando avevo compiuto appena qualche mese, andò insieme a parenti ed amici sulle colline ai piedi dell’Yiril, dove solitamente si procurava il legno per la sua bottega, e abbatté un pino non troppo alto. Ne ricavò due robuste travi, che a forza di braccia, di muli e di un carretto trasportò a Morraine. Nella sua bottega le scorticò, le piallò, le lavorò. Dal Cortile del Nano le travi vennero issate sul tetto con grande concorso degli abitanti del cortile stesso, e posate di sbieco fra il muro della nostra casa e due sostegni sporgenti dalla torre: una per reggere il pavimento, l’altra il tetto. E così, quando fui un po’ più grande, mi ritrovai con una stanza trapezoidale, il letto che occupava uno dei lati (e per quanto ne so lo occupa ancora), un armadio quello opposto, un piccolo tavolo sotto la finestra, che guardava il sorgere del sole. Non avevo da lamentarmi: esistono stanze ancora più piccole o più bizzarre, a Morraine.

La forma della mia stanza e la sua storia, devo dire, non sono affatto importanti per capire gli eventi successivi del racconto. Servono solo a farvi immaginare meglio quel ragazzino magro e sgraziato, mentre alla luce di una lampada studia la mappa che genera sogni di uccello.

Una di quelle sere, in mancanza di meglio, affrontai perfino i Fiori di bianco prato. Scoprii così che il prato in questione era il foglio e i fiori le parole. Appresi anche che si trattava di una metafora. O forse di un enigma: la distinzione non era del tutto chiara. Malgrado la prosa arcaica, trovai la lettura non priva di interesse, in parte grazie alla moltitudine vertiginosa di esempi, in parte grazie a quel fascino inquietante che è proprio dell’astuzia combinatoria.

Concepii così il primo germe di un piano temerario, ma come si vedrà in seguito non del tutto infruttuoso.

Ricordavo, infatti, a proposito di quel penoso tentativo di rappresentazione, su cui nessuno di noi era più tornato, che l’unico mio contributo a non aver suscitato imbarazzo era stato l’adattamento della ridondante versione del Mago di Qom in nostro possesso. Di qui la mia idea: se non sapevo recitare, la strada della scrittura non mi era preclusa! E chissà, un giorno Lia avrebbe perfino potuto recitare i miei versi!

Visto in questa nuova luce, l’acquisto del tutto casuale dei Fiori, seguito da quello, più deliberato, delle Tragiche Historie, acquistava l’apparenza di una predestinazione. Quale occasione migliore per mettere alla prova le mia capacità poetiche, che fornire le ossa dell’eloquenza, la carne della passione, il respiro del sentimento, a quegli scarni canovacci? Come vedete, avevo già cominciato a pensare per immagini.

Rilessi da capo i Fiori, e cominciai ad addentrarmi nei sentieri impervi della versificazione. I metri teatrali, nelle terre dove si parla la lingua yld, richiedono per tradizione un intreccio fra quantità e rima, reso complicato dal fatto che sono ammesse molte, ma non arbitrarie, licenze poetiche.

Si trattava poi di scegliere l’opera in cui cimentarmi. Scartai subito il Teseius e Phenissa, non osando misurarmi col ricordo, ancorché impreciso, di ciò che avevo udito recitare dalle labbra di Lia. Il Mago di Qom lo evitai per ragioni facilmente comprensibili. Altre trame erano troppo lunghe, altre ancora non eccitavano la mia fantasia.

Mi decisi alla fine per La schiava di Palaphon, storia di un amore infelice e di un mago: una combinazione che mi attirava per le affinità che immaginavo con le vicende di Lia. Una mago prevedibilmente crudele aveva rapito una fanciulla. Di lei si innamora un suo discepolo; il mago gliela concede, come dono per la sua fedeltà. Anche la fanciulla, forse, si innamora di lui. Ma quando scopre di attendere un figlio dal mago, preferisce darsi la morte.

Poiché la tragedia mi appariva eccessivamente cupa, decisi di introdurre qualche brano più leggero. Ispirandomi al burattino che avevo visto danzare per Lia, scrissi un intermezzo comico, in cui un buffone cerca di far sorridere la fanciulla.

Rileggendo il manoscritto dopo qualche tempo, scoprii che quella era la scena migliore (forse l’unica degna di essere salvata) della mia versione di Palaphon.

Suppongo avessi allora intuito, pur senza rendermene conto, che se il teatro deve essere uno specchio della vita, allora non può mai essere né del tutto tragico né del tutto comico.

Che non sarà forse un pensiero così originale, ma allora a me venne per la prima volta.

Lia

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