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(9) IL CORTILE SENZA NOME

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Mi svegliai nel silenzio che segue una fitta nevicata, che è diverso da ogni altro silenzio perché la neve pare assorbire ogni suono, e impossibile da descrivere a chi è sempre vissuto nel deserto.

Mi svegliai da una serie confusa di sogni, di cui ricordavo solo un’immagine inquietante e affascinante insieme: una grande massa di acqua che aveva invaso Morraine, trasformandola in una città di canali e piscine, sotto un cielo grigio ma luminoso, come in attesa di nuova pioggia. Un grande lago si stendeva intorno alle mura.

Avevo trascorso la prima parte della notte rivoltandomi per la febbre, poi ero caduto in un sonno profondo, e adesso mi sentivo fresco e pieno di energia, il che può apparire strano, considerando la delusione della sera precedente. Ma forse mi sentivo solo libero per aver abbandonato un sogno che, in cuor mio, avevo sempre saputo impossibile.

Mi precipitai alla finestra. Non avevo mai visto tanta neve in vita mia. Una coltre spessa un braccio ricopriva i tetti, e perfino i muri delle torri apparivano incrostati di minute scaglie di ghiaccio, così che il bianco uniforme era interrotto solo dal grigio appena più scuro del fumo che si alzava dai comignoli. E mentre guardavo, uno squarcio si aprì fra le nuvole, e il sole appena sorto colpì di sbieco tutti quei cristalli, traendo da ciascuno un fantasma di arcobaleno.

Battei le mani di gioia e spalancai la finestra. Prima la nuvola del mio fiato, poi quelle del cielo coprirono il sole. Rinchiusi in fretta la finestra, ma considerai la visione apparsami di buon auspicio.

Essendo Morraine una città di corridoi e di cortili, a loro volta quasi sempre circondati da portici, le sue attività non sono particolarmente influenzate dagli eventi atmosferici. Perciò dovetti andare come ogni giorno ad aiutare mio padre nella bottega di falegname. Versò metà mattina, accorgendosi di come guardavo la neve nel Cortile del Nano, e immaginando che volessi andare a giocare, mio padre mi spedì a fare qualche commissione, con la tacita intesa che sarei tornato solo all’ora di pranzo. Io mi precipitai verso il Cortile della Mezzanotte, dopo aver scartato l’idea di cercare Jues e Lucibello: sia perché mi avrebbe portato via troppo tempo, sia perché, dopo il fiasco penoso della recita, preferivo non vederli. Da lì, cercai di ripercorre il tragitto della sera prima, quando inseguivo l’alchimista.

La cosa si rivelò meno facile del previsto. Prima di tutto, era giorno di mercato nel Cortile della Mezzanotte, e a causa della neve le bancarelle erano tutte ammassate sotto i portici. Bisognava scavalcare ad ogni passo mucchi di castagne, noci, fichi secchi, gabbie di uccelli da cortile, e schiere di uccelli selvatici morti, portati dai cacciatori delle colline: gente dalla pelle scura, che sedeva accovacciata sui talloni, avvolta nei mantelli marroni con cui si mimetizzavano per meglio cogliere le loro prede, e che li rendevano simili a cumuli di terra. Dai ganci infissi nelle volte penzolavano file di salsicce fresche, tranci di carne affumicata di natura incerta. E per fortuna, molti a causa della neve avevano rinunciato a venire; in compenso, i cittadini di Morraine erano accorsi numerosi, allarmati dalla medesima neve. I venditori cercavano di approfittarne, e il vociare delle contrattazioni risuonava sotto le volte.

Ma dov’era l’androne che cercavo? Il primo androne, cioè, poiché da questo se ne dipartiva un altro, più stretto, che raggiungeva il cortile senza nome. La luce del giorno e la confusione del mercato rendevano tutto diverso. Mi fermai frastornato. Era come la ricerca della torre, pensai. Non l’avrei mai trovato. Una ragazzina mi si avvicinò offrendomi vasetti di miele, ma desistette subito. Dietro un mucchio di pelli appese, scorsi un arco di pietra sormontato da una testa di unicorno. Mi feci strada fra buoi, conigli, castori, ghibetti, volpi, tutti ridotti a piatti simulacri, da cui emanava l’odore acre della concia. Mi addentrai nell’androne. Ecco: a destra un arco tanto basso che alzando la mano quasi riuscivo a toccarne la sommità. In fondo, sulla parete di sinistra, si scorgeva un vago riflesso di luce. Ricordavo che il passaggio piegava bruscamente a destra. Come se si perdesse nelle viscere stesse di Morraine...

La neve, adesso, ricopriva per intero il selciato del cortiletto, e formava quasi una barriera all’uscita del corridoio, che alla luce del giorno appariva ancora più simile a un pozzo.

Mi fermai sotto l’arco. Non si sentiva il più piccolo rumore: come se Morraine fosse diventata una città morta... no: immersa in un sonno magico, come in una favola che mi era stata raccontata da bambino.

Alzai gli occhi. Un uccello nero attraversò obliquamente il quadrato di cielo grigio. Da un davanzale si staccò una falda di neve, che atterrò con un tonfo fragile. La finestra era protetta da una inferriata, dietro cui si intravedevano dei vetri sporchi, come di una stanza disabitata da molto tempo.

Anche alla luce del giorno non si scorgeva alcuna porta nel perimetro del cortile. Il muro del fianco destro era interrotto verticalmente da un contrafforte, che ricordavo di aver incontrato avanzando a tentoni nel buio. Era anche la direzione verso cui avevo visto sparire le impronte dell’alchimista.

Adesso il manto di neve era uniforme, e provavo una vaga riluttanza a disturbarlo.

Iko, mi dissi: è solo un cortile. E mi spinsi in mezzo alla neve.

Giunto al centro del cortile vidi: un gradino che spuntava dalla neve, nell’angolo fra il contrafforte e il muro; una porticina di legno annerito, larga non più di tre palmi, sopra il gradino; sopra la porta, molto in alto, una fenditura larga altrettanto, che saliva fino al tetto (anzi: i tetti, come se ci fossero due case separate!); e in fondo alla fessura, una torre che poteva o non poteva essere quella da cui ero fuggito qualche mese prima, e che avevamo cercato invano per tutta Morraine.

Dopo un tempo indefinito, ma sufficiente perché la neve sciogliendosi mi penetrasse nelle scarpe, mi avvicinai al contrafforte, e ripetei più o meno i gesti della sera prima. La mia mano passò dalla pietra dello spigolo a quella del muro, saltando la porta.

Tirai un sospiro. Un mistero, almeno, era risolto. Restava da spiegare come avesse fatto l’alchimista ad aprire la porta, che appariva priva di qualsiasi serratura. La spinsi, con una certa riluttanza, ma non si mosse di un’unghia. Fantasticai di qualche meccanismo segreto e tastai il muro intorno alla porta, e anche il gradino fin sotto la neve, trovando solo pietre molto corrose, con la malta fra gli interstizi quasi del tutto dilavata.

Mi resi conto che quella doveva essere una delle costruzioni più antiche di Morraine.

Alzai gli occhi, con un senso quasi di vertigine, e guardai nel varco fra i due edifici. Era un corridoio strettissimo... anzi... cercai nella memoria la parola che dovevo aver letto sui libri, perché non si usa a Morraine... un vicolo. Un uomo dalle spalle larghe avrebbe potuto percorrerlo solo di sbieco. La lunga striscia di cielo, fra i muri privi di finestre, sembrava una spada sul punto di calare.

Tornai al centro del cortile, da dove si poteva scorgere la torre. Forse era davvero quella del Cortile Segreto: la posizione corrispondeva. La piccola porzione visibile non mostrava comunque alcuna corda.

Un’altra falda di neve, cadendo vicino, mi fece sobbalzare. Mi guardai alle spalle. Il vetro di una finestra mandò un bagliore di luce grigia, come se si fosse mosso.

Non c’era altro da fare, lì. Con un senso di sollievo, abbandonai il cortile senza nome e ritrovai il consueto trambusto di Morraine.

Lia

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