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L’arrivo al Patronato di Santa Isabel

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Nella storia politica spagnola il secondo semestre del 1931 fu contrassegnato dalla tormentata approvazione della Costituzione della Seconda Repubblica che, in sostanza, sancì un progetto culturale e sociale praticabile soltanto dai repubblicani di sinistra e dai socialisti.

Le Camere Costituenti furono inaugurate il 14 luglio e nei giorni che seguirono furono discussi gli articoli della Costituzione. Il dibattito precedente l’approvazione degli articoli 26 e 27, che sancivano lo statuto della Chiesa, fu particolarmente teso e appassionato. Furono approvati, rispettivamente, il 14 e il 15 ottobre, dopo una settimana di forti contrasti dialettici nella Camera. Fra le altre misure, agli ordini religiosi era proibito l’insegnamento e venivano iscritti in un registro speciale; la Compagnia di Gesù veniva sciolta e i suoi beni nazionalizzati; veniva anche soppresso il fondo destinato al culto e al clero[99]. In tal modo la separazione andava al di là del concetto di uno Stato non confessionale o indifferente al fatto religioso. Era un modello statalista, che introduceva il laicismo[100].

Come tutti i cattolici spagnoli, José María Escrivá seguiva questi avvenimenti con grande trepidazione; però, nel suo caso, quei mesi furono caratterizzati anche da altre vicende che lo coinvolgevano ben oltre la situazione politica. Ricevette nuove luci fondazionali, che gli permisero di capire la fisionomia spirituale dell’Opus Dei. In alcuni momenti sentì in modo del tutto speciale l’azione divina. Il 7 agosto, mentre celebrava la Messa nel Patronato de Enfermos, comprese che il lavoro professionale è il mezzo mediante il quale i membri dell’Opera si identificano con Cristo e rendono visibile la sua dottrina di salvezza[101]. Poi, durante l’autunno —e in particolare nei giorni 22 settembre, 16 e 29 ottobre—, si sentì inondato dalla gioia di essere e di sapersi figlio di Dio; da quel momento spiegava che il senso della filiazione divina diveniva il fondamento dello spirito dell’Opus Dei[102].

Nel frattempo riuscì a cambiare l’incarico pastorale, come chiedeva insistentemente. Nel luglio del 1931 venne a sapere che le agostiniane del Patronato di Santa Isabel avevano bisogno di un cappellano che celebrasse la Messa per loro. Quel Patronato, ubicato in calle Santa Isabel, era costituito da un monastero di agostiniane di clausura, una chiesa conventuale e una scuola per bambine diretta dalle religiose dell’Assunzione. Alla sua sinistra si trovava l’Ospedale Provinciale, comunemente chiamato Ospedale Generale, e, di fronte, la Facoltà di Medicina e l’Ospedale Clinico di San Carlo. Il quartiere era abitato da persone di ceto medio−basso, tra cui alcuni dipendenti della vicina stazione ferroviaria di Atocha[103].

Un rettore e due cappellani —uno per il monastero e l’altro per la scuola— era l’organico del personale ecclesiastico del Patronato di Santa Isabel[104]. Quando fu proclamata la Seconda Repubblica, lo Stato si era assunto l’incarico di pagare gli stipendi dell’organico; dal punto di vista ecclesiastico, il clero era rimasto sotto la giurisdizione palatina, retta allora dal vescovo Ramón Pérez Rodríguez. Sennonché il 16 giugno il Governo provvisorio della Repubblica soppresse lo stipendio del personale ecclesiastico dei patronati, rimuovendo don Josemaría dall’incarico. Temporaneamente alcuni padri agostiniani provvidero alla comunità del monastero di Santa Isabel.

Messo al corrente di questa situazione da Catalina García del Rey, collaboratrice delle Dame Apostoliche, José María Escrivá offrì i suoi servizi pastorali. Nel mese di settembre la priora del monastero delle agostiniane ottenne la concessione verbale del vescovo palatino di accogliere don José María come cappellano; da parte sua, il sacerdote accettò di non ricevere una nomina ufficiale, né uno stipendio, né l’alloggio nei locali destinati al clero del Patronato. I suoi obblighi di cappellano consistevano nella celebrazione della Messa alle otto del mattino nella chiesa del monastero, con la partecipazione della comunità delle agostiniane; e nella cura delle confessioni prima e dopo la Messa. Il 21 settembre 1931 Escrivá celebrò per la prima volta nella chiesa di Santa Isabel. Un mese dopo, il 28 ottobre, concluse definitivamente l’incarico di cappellano del Patronato de Enfermos[105].

Dal punto di vista giuridico, l’incarico a Santa Isabel era molto incerto. Dato che le autorità repubblicane non gli concedevano la nomina ufficiale di cappellano, neppure l’autorità ecclesiastica palatina gli concedeva quella canonica o ecclesiastica scritta; pertanto non poteva far altro che accontentarsi di essere un cappellano supplente designato sulla parola[106]. Neppure dal punto di vista economico, la nuova mansione risultava vantaggiosa. Fino a quel momento, pur non trovandosi in una situazione florida, José María Escrivá aveva potuto mantenere la famiglia grazie alla somma dei diversi contributi che riceveva: lo stipendio della cappellania del Patronato de Enfermos e quello dell’Accademia Cicuéndez, gli introiti per le lezioni private, oltre alle retribuzioni delle Messe. Ora rimanevano le lezioni private e le regalie delle monache di santa Isabel.

D’altra parte, con il passaggio al Patronato di Santa Isabel, don José María raggiungeva alcuni dei suoi obiettivi. Per un verso, disponeva di più tempo, necessità di cui sentiva l’urgenza per far crescere l’Opera; per un altro, otteneva un incarico pastorale che, fino a un certo punto, giustificava la sua residenza a Madrid. Quanto meno evitò il rischio di essere espulso dalla capitale. Nel mese di novembre Mons. Eijo Garay, vescovo di Madrid−Alcalá, stabilì che tutti i sacerdoti residenti nella sua diocesi inviassero al vescovado una scheda, dalla quale risultasse la loro occupazione pastorale. Per quel che venne a sapere José María Escrivá, questa disposizione mirava a «inviare alle loro rispettive diocesi i signori Preti che non siano della diocesi di Madrid−Alcalá»[107]. Siccome il nuovo lavoro di Escrivá si svolgeva sotto l’autorità del vescovo palatino, non dovette neanche compilare questa scheda.

Nonostante i cambiamenti, don José María non voleva perdere i contatti con i malati e i poveri. Desiderava portare loro, come aveva fatto sinora, la luce e la consolazione cristiana: «Nel Patronato de Enfermos —scrisse— il Signore volle che io trovassi il mio cuore di sacerdote»[108]. Ecco perché poche settimane dopo il suo arrivo a Santa Isabel, e grazie a una conversazione con il sacrestano della chiesa, entrò in contatto con la “Congregazione di San Filippo Neri dei secolari”[109]. I cosiddetti filippini costituivano una confraternita formata da laici di varie professioni civili e da alcuni sacerdoti, che assistevano i malati nell’Ospedale Generale. I loro compiti di volontariato erano preziosi, perché il personale del centro sanitario non era sufficiente per assistere gli oltre mille pazienti ricoverati.

La domenica i filippini si riunivano nella cappella dell’Ospedale alle quattro del pomeriggio per pregare. Poi, per due o tre ore, si distribuivano in coppie e giravano l’ospedale per assistere i malati. Spesso erano costretti a svolgere compiti sgradevoli, sia per le condizioni dei pazienti —bisognava lavarli, tagliare loro i capelli o le unghie, rifare i letti—, sia per le reazioni anticlericali di alcuni malati o delle loro famiglie. José María Escrivá collaborò a quest’opera di misericordia a partire da domenica 8 novembre[110].

La sua presenza nell’Ospedale Generale e in altri ospedali si intensificò col passare dei mesi. Il sacerdote Pedro Cantero lo accompagnò «moltissime volte»[111] in vari centri: l’Ospedale Generale, l’Ospedale Nazionale delle Malattie Infettive che aveva sede a Chamartín de la Rosa, l’Ospedale de la Princesa nella strada omonima, all’angolo di calle Alberto Aguilera, e l’Ospedale del Niño Jesús ubicato dietro al Parque del Retiro. Rimase impressionato dal modo con cui Escrivá diceva «ai malati parole di consolazione intense e profonde, non dolciastre, ma piene di amore e di fortezza»[112]. Allo stesso tempo, e come contropartita, il fondatore invitava i pazienti «a offrire al Signore le loro sofferenze, la degenza, la loro solitudine —alcuni erano veramente soli—, per il lavoro che svolgeva con i giovani, senza altre spiegazioni. Per questo era ragionevole che umanamente e soprannaturalmente si producessero degli effetti soprannaturali, perché il Signore voleva che l’Opera andasse avanti a prescindere dagli uomini, malgrado me stesso, che sono un povero uomo»[113].

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