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1. La fondazione dell’Opera

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Proveniente da Saragozza, José María Escrivá Albás arrivò a Madrid il 20 aprile 1927[28]. Aveva venticinque anni e ne aveva appena compiuti due come sacerdote. La sua personalità si distingueva per il carattere vivo e forte, la fede in Dio, la passione per il ministero sacerdotale, la simpatia e l’amore per la libertà. Da bambino aveva assistito alla morte di tre sorelle piccole e al fallimento del negozio paterno, che aveva comportato il trasferimento della famiglia da Barbastro a Logroño. A sedici anni aveva capito che Dio lo chiamava e che il cammino per adempiere la volontà divina includeva il sacerdozio. Allora era entrato nel seminario di Logroño e successivamente in quello di San Francesco di Paola a Saragozza dove, oltre a concludere gli studi di Teologia, aveva frequentato i corsi di Diritto in quella che si chiamava Universidad Literaria. Nel novembre del 1924, quando era ormai vicina la sua ordinazione presbiterale, morì suo padre, per cui si ritrovò capo famiglia e con la necessità di sostenere economicamente sua madre e i suoi due fratelli[29].

Escrivá voleva ottenere il dottorato di Diritto all’Università Centrale di Madrid, l’unica in Spagna che concedeva questo titolo. Perciò si iscrisse alla Facoltà di Diritto non appena arrivato nella capitale[30]. Si sosteneva con i compensi giornalieri di cinque pesetas e cinquanta centesimi, ricevuti per la celebrazione della Messa nella Chiesa pontificia di San Miguel[31]. Abitava in una pensione in calle Farmacia.

Una settimana e mezza più tardi —era il 30 aprile 1927— si trasferì nella Casa Sacerdotale, al numero 3 di calle Larra, di fronte al giornale liberale e riformista El Sol. La Casa era gestita da una nuova e attiva congregazione religiosa, le Dame Apostoliche del Sacro Cuore[32]. La residenza aveva trentuno camere, alcune non occupate. Lì José María simpatizzò presto con altri residenti, soprattutto con i presbiteri più giovani, come Jesús Gutiérrez Ayllón, Avelino Gómez Ledo e Fidel Gómez Colomo[33].

Fra la fine di maggio e i primi di giugno, la fondatrice delle Dame Apostoliche, Luz Rodríguez−Casanova[34], chiese per Escrivá al vescovado di Madrid−Alcalá le licenze ministeriali e la nomina a primo cappellano dell’Opera Apostolica del Patronato de Enfermos, che aveva la propria sede in calle Santa Engracia 13. Questa istituzione aveva lo scopo di fornire aiuti materiali, sanitari e spirituali a persone indigenti. Il Patronato disponeva del convento, dove vivevano otto Dame Apostoliche, a capo delle quali c’era la superiora, Rodríguez−Casanova, e vari edifici adiacenti: uno destinato a scuola di bambini, un altro alle mense di carità, e un terzo, quasi una clinica, ai malati privi di mezzi. Il 1° giugno Escrivá cominciò la sua attività pastorale nel Patronato. Immediatamente fece amicizia con il secondo cappellano, Norberto Rodríguez García[35].

L’attività sacerdotale di Escrivá nel Patronato de Enfermos consisteva nella celebrazione della Messa alle nove del mattino, la successiva esposizione dell’Eucaristia, il servizio al confessionale della cappella e la recita del rosario alle tre e mezzo del pomeriggio, alla quale faceva seguito la benedizione con il Santissimo. A queste, aggiunse altre attività di propria iniziativa. Così, durante alcuni fine settimana ascoltava le confessioni dei bambini che le Dame Apostoliche e le loro Ausiliari portavano al Patronato perché assistessero alla Messa e ricevessero la catechesi. Erano una parte delle migliaia di bambini delle oltre cinquanta scuole semi−gratuite che le religiose gestivano, disseminate nell’hinterland di Madrid. Altre volte don José María si trasferiva in queste scuole per ascoltare le confessioni dei bambini[36]. Prese anche l’abitudine di passare a mezzogiorno dalle mense di carità —una era la mensa dei cosiddetti “poveri vergognosi”— per parlare con qualcuna delle oltre seicento persone che ogni giorno ricevevano un pasto gratuito nel Patronato. Inoltre, visitava a casa loro numerosi malati, che confessava e ai quali portava la Comunione. Dette pure alcune lezioni di catechesi che le Dame Apostoliche organizzavano nei “quartieri più periferici”[37].

Gradualmente, le visite fuori dal Patronato ampliarono il ventaglio delle sue conoscenze: dai poveri miserabili, che vivevano in case di lamiera a Tetuán de las Victorias, fino ai parenti e agli amici aristocratici di Luz Rodríguez−Casanova[38].

Il cappellano del Patronato percepiva circa 1.500 pesetas l’anno: 600 dallo stipendio e il resto da altre retribuzioni[39]. Un reddito inferiore alle 2.000 pesetas l’anno collocava una persona ad un livello di povertà, rendendo impossibile il mantenimento di una famiglia[40]. Per questo Escrivá cercò altre occupazioni che fossero compatibili con la sua attività pastorale.

Nell’anno accademico 1927−1928 ottenne un posto di professore di Diritto Romano e di Istituzioni di Diritto Canonico nell’“Academia Cicuéndez. Especial de Derecho”[41]. L’Accademia era un centro di «insegnamento privato di studi giuridici»[42], dove gli alunni, interni ed esterni approfondivano la conoscenza delle materie insegnate a Legge. La sede si trovava in una posizione invidiabile, perché occupava il primo piano di calle San Bernardo 52, angolo calle Pez, proprio di fronte alla Facoltà di Giurisprudenza. «Per la sua vicinanza all’Università era molto nota tra gli studenti di legge. Godeva di un grande prestigio», ricordava uno studente[43]. L’impegno di José María si concretò in due lezioni pomeridiane la settimana per più di quattro anni[44]. Inoltre dava alcune lezioni private a casa sua.

Nel novembre del 1927 il sacerdote prese in affitto un appartamento al quarto piano di calle Fernando il Cattolico 46. Sua madre Dolores, che aveva cinquanta anni, sua sorella Carmen, di ventotto, e il beniamino della famiglia, Santiago, di otto anni, si trasferirono dall’Aragona e vennero ad abitare con lui. José María era l’unico in grado di guadagnare quel tanto necessario per mantenere la famiglia, perché sua madre e Carmen si occupavano delle faccende domestiche[45]. Nei mesi che seguirono si concentrò sugli impegni pastorali che aveva assunto, oltre che sulle lezioni e la tesi.

Il 30 settembre 1928 José María Escrivá cominciò gli esercizi spirituali nel convento dei Lazzaristi, in calle García de Paredes. La mattina di martedì 2 ottobre, mentre compilava e leggeva alcune schede nelle quali aveva annotato idee e vicende della sua vita interiore, ricevette da Dio «l’illuminazione su tutta l’Opera» e «si rese conto dello splendido e pesante carico che il Signore, nella sua bontà insondabile, gli aveva messo sulle spalle»[46]. Escrivá ricevette una luce soprannaturale che dava un senso alle preghiere e alle ispirazioni degli anni precedenti, proiettandolo nella realizzazione di una missione specifica. Accolse nel suo cuore il messaggio divino, che consisteva nella diffusione tra i fedeli cristiani, sacerdoti e laici, della consapevolezza di essere chiamati a divenire santi in Gesù Cristo nelle occupazioni normali della vita quotidiana. Nello stesso tempo capì che sarebbe stata necessaria una istituzione per trasmettere questo messaggio nella Chiesa[47]. Emozionato, s’inginocchiò e rese grazie a Dio[48].

Fra l’ottobre del 1928 e il novembre del 1929 Escrivá non ricevette altre ispirazioni che potesse attribuire a Dio[49]. Sebbene avesse capito che il messaggio ricevuto richiedeva persone che lo divulgassero, resisteva al pensiero di fondare una nuova istituzione. Perciò cercò se esisteva, in Spagna o all’estero, una realtà ecclesiale che coincidesse con ciò che aveva visto, per domandare di essere ammesso. Chiese informazioni sulle diverse “opere” o movimenti cattolici nei quali i membri vivevano una donazione a Dio senza costituire una congregazione religiosa tradizionale e realizzavano attività apostoliche tra i fedeli[50]. Ebbene, tutte le istituzioni esistenti presentavano divergenze sostanziali con la luce da lui ricevuta il 2 ottobre 1928. Fra queste, un caso emblematico. Escluse la Compagnia di san Paolo, fondata pochi anni prima dal cardinal Ferrari, perché aveva capito che l’Opera era solo per gli uomini, e invece fra i paolini c’erano pure donne. Come avrebbe ricordato dopo: «Anche se l’Opus Dei non differisse dai Paolini in alcun altro aspetto che nel non ammettere neppure lontanamente le donne, la differenza sarebbe già notevole»[51].

José María Escrivá parlò del messaggio dell’Opera a sacerdoti e a persone di diversi ambienti, e anche a studenti che cercavano il suo aiuto spirituale. Lo divulgò progressivamente, e personalmente. Uno dei primi giovani con i quali ne parlò fu José Romeo, che aveva conosciuto quando stava a Saragozza[52]. Nel giugno del 1929 Pepe, come lo chiamavano familiarmente, era venuto a Madrid per sostenere un esame di disegno, una delle materie previe all’ingresso nella Scuola di Architettura. Nei giorni in cui si trattenne nella capitale assisteva alla Messa che José María celebrava nel Patronato de Enfermos. Un giorno, dopo aver fatto colazione, il sacerdote gli lesse e gli commentò alcuni appunti che si riferivano all’Opera. Romeo se ne entusiasmò e decise di aderirvi. Alcuni giorni dopo ritornò a Saragozza. Mantenne contatti epistolari con José María fino a giugno dell’anno successivo, quando si trasferì a Madrid per cominciare il corso di studi[53].

Quando passava da Madrid fra il 1929 e il 1930, Pepe presentava a José María alcuni amici dell’Associazione degli Studenti Cattolici, come Guillermo Escribano[54] o Pedro Rocamora[55]. Romeo pensava che fossero in grado di comprendere gli insegnamenti di Escrivá sulla vita cristiana e sull’Opera. Proprio per poterlo incontrare, Rocamora andava alla Messa che José María celebrava nel Patronato de Enfermos.

Da parte sua Escrivá ampliò il numero dei sacerdoti frequentati. Con alcuni di loro era stato ospite della Casa Sacerdotale delle Dame Apostoliche, li aveva conosciuti in occasione delle attività pastorali o li aveva anche fermati per la strada chiedendo loro di pregare per l’Opera. Fra i presbiteri amici, comunicò le sue ansie soprannaturali a Blas Carda Saporta, Manuel Ayala, Ángel del Barrio e Pedro Siguán —quest’ultimo, un religioso della Sacra Famiglia—[56]. Nel dicembre 1929 ebbe una lunga conversazione con il secondo cappellano del Patronato de Enfermos, Norberto Rodríguez García, e lo ammise nell’Opera. Poco tempo dopo Escrivá gli fece leggere alcuni fogli sui quali annotava quello che, secondo lui, erano luci ricevute da Dio. Finita la lettura —secondo ciò che ricordava don José María più tardi—, don Norberto gli disse: «La prima cosa da fare è l’Opera maschile»[57].

L’anno 1930 portò nuove sorprese. La più importante avvenne il 14 febbraio. Quel giorno José María Escrivá celebrava la Messa nella cappella della casa di Leónides García San Miguel, marchesa di Onteiro e madre di Luz Rodríguez−Casanova. Dopo la comunione, comprese che Dio voleva che nell’Opus Dei vi fossero anche le donne[58]. Allo stesso tempo, questa intuizione lo convinse che non doveva fare altre indagini, ma piuttosto dar vita a una nuova realtà ecclesiale, che sarebbe stata al servizio del messaggio ricevuto: «Era necessario fondare, senza alcun dubbio»[59], dirà in seguito. Da quel momento selezionò le persone a cui spiegare l’Opera e fece nuove amicizie tra i conoscenti di Pepe Romeo, gli studenti dell’Accademia Cicuéndez e alcuni parenti delle Dame Apostoliche e delle Ausiliari che collaboravano con loro.

Il 24 agosto incontrò Isidoro Zorzano, un ex compagno liceale di Logroño, che lavorava come ingegnere a Malaga nelle Ferrovie Andaluse[60]. Pochi giorni prima Isidoro aveva ricevuto una sua lettera nella quale gli manifestava il desiderio di rivederlo, se fosse capitato a Madrid. La mattina del 24 Zorzano aveva tentato invano di incontrare l’amico. Avendo la sensazione che si sarebbero visti, rimase a passeggiare in calle Nicasio Gallego. Anche Escrivá si sentì mosso a passare dalla stessa strada. Quando si videro, si salutarono affettuosamente. In quel periodo Zorzano cercava di capire ciò che Dio gli chiedeva per la sua vita. Aveva pure pensato di diventare religioso, ma non ci vedeva chiaro. I due amici conversarono con calma durante il pomeriggio. Isidoro arrivò alla conclusione che aveva trovato quello che cercava e chiese a José María di far parte dell’Opera[61].

In quel periodo, di solito nel pomeriggio della domenica, Escrivá andava a casa di Romeo per costituire un archivio di ritagli di giornali e di riviste su alcune istituzioni cattoliche. La conoscenza dello spirito e dell’apostolato di queste realtà ecclesiali aiutò don José María a meditare sull’Opera che stava avviando[62].

José María Escrivá cercava un luogo adatto per parlare del messaggio ricevuto sulla santità in mezzo al mondo, un luogo in cui incontrarsi con studenti, amici sacerdoti e anche operai[63]. L’appartamento in affitto di calle Ferdinando il Cattolico era troppo piccolo per ricevere visite[64]; né le cose erano migliorate quando, nel settembre del 1929, gli Escrivá Albás si erano trasferiti nella casa del cappellano del Patronato de Enfermos in calle José Marañón n. 4[65]. Ecco perché José María incontrava i sacerdoti e gli universitari nel Patronato de Enfermos, in locali pubblici o, semplicemente, per strada, fermandosi per fare una visita a Gesù Cristo nel tabernacolo di una chiesa. Talvolta andava con gli studenti in un chiosco che si trovava nella Castellana, quasi all’angolo con calle del Marqués de Riscal, oppure al Parco del Retiro. Seduto in mezzo ai giovani, José María leggeva alcuni appunti di carattere spirituale che raccoglieva in un quaderno: «Alcuni pomeriggi, all’imbrunire, ci leggeva pagine intere, o a volte soltanto due o tre pensieri»[66], ricordava Pedro Rocamora.

Un luogo spesso frequentato da Escrivá era “El Sotanillo”, che si trovava nei pressi della Porta de Alcalá. Era rinomato soprattutto per la cioccolata calda. Pur trovandosi in un piccolo seminterrato, disponeva di diversi tavolini che permettevano di parlare tranquillamente. Pepe Romeo, Pedro Rocamora o Julián Cortés−Cavanillas —quest’ultimo era uno studente dell’Accademia Cicuéndez[67]— andarono lì molte volte per fare merenda con José María Escrivá. Mentre assaporavano una cioccolata calda o una bibita, conversavano con il sacerdote di realtà divine e di realtà umane. Qualche volta don José María portava schemi o quadri sinottici sull’Opera e li commentava. Poi, ricorda Rocamora: «uscivamo e percorrevamo la calle di Alcalá e la Gran Vía fino ad arrivare alla Red de San Luis dove era solito prendere il tram che lo portava a calle Santa Engracia. Se non ricordo male, era il tram n. 28 che aveva un cartello che diceva “Linea di San Luis−Guindalera−Prosperidad”. Altre volte, arrivati a Cibeles, piegavano per Recoletos, passeggiando per calle Genova»[68].

Quando stava per iniziare l’anno accademico 1930−1931, Escrivá decise di modificare il suo lavoro pastorale. Il ruolo di cappellano del Patronato non gli assicurava la stabilità a Madrid. Egli rimaneva un sacerdote extradiocesano, trasferito per motivi di studio, e, viste le severe leggi ecclesiastiche sulla residenza dei presbiteri nella capitale, correva il rischio certo di essere rimandato nella sua diocesi[69]. Inoltre la cappellania del Patronato de Enfermos gli assorbiva la maggior parte del tempo, dedicato generosamente ai penitenti, alla catechesi e alla visita domiciliare dei malati. Ora —così ragionava— doveva impegnarsi maggiormente per l’Opera, stimolando l’apostolato e formando i primi membri[70]. D’altra parte, non sembrava opportuno che cercasse donne per l’Opera nel confessionale delle Dame Apostoliche, che era la sede centrale della congregazione. Infine, c’era anche un motivo umano, anch’esso rilevante: l’attività del Patronato era così logorante che, pensava: «lì mi annichilo, mi annullo. Intendo sul piano fisico: di questo passo finirò con l’ammalarmi e non potrò quindi svolgere un lavoro intellettuale»[71].

A questa situazione si aggiungeva l’evoluzione politica e sociale della Spagna. Il 14 aprile 1931 veniva proclamata la Seconda Repubblica. Niceto Alcalá−Zamora assunse l’incarico di presiedere un Governo provvisorio che aveva il compito di convocare le elezioni per una Costituente e governare il paese fino all’approvazione di una nuova Costituzione. Il re Alfonso XIII abbandonò la Spagna per evitare una possibile guerra civile.

La Repubblica annunciò la separazione tra la Chiesa e lo Stato. La Spagna non era più ufficialmente cattolica, interrompendosi così una tradizione secolare. La vita religiosa —Messa e altri atti di culto— non fu turbata dal nuovo sistema repubblicano. Cosa ben diversa fu da quel momento l’abitudine degli insulti per strada contro i sacerdoti che portavano l’abito talare[72].

Come molti cattolici, José María Escrivá accolse il nuovo regime —la Seconda Repubblica— con una certa preoccupazione. Il motivo stava nell’ideologia anticlericale di cui faceva sfoggio la maggior parte dei partiti politici del Governo provvisorio. Comunque, personalmente fece buon viso alla richiesta della Gerarchia della Chiesa che chiedeva ai cattolici spagnoli di accettare il nuovo potere costituito[73]. Tuttavia, ci fu un fatto congiunturale che lo riguardò: l’avvento della Repubblica fece tramontare la possibilità di essere nominato cappellano della giurisdizione palatina[74].

Quattro settimane dopo —l’11 maggio— avvenne “l’incendio dei conventi”, che interessò diverse località spagnole. A Madrid circa trecento giovani —in maggioranza dell’estrema sinistra repubblicana e anarchici— incendiarono nove conventi, cinque scuole e una dipendenza parrocchiale. Il Governo provvisorio mantenne per tutta la giornata un atteggiamento indolente finché, data la gravità degli avvenimenti, decretò lo stato di guerra e ordinò che l’esercito presidiasse le strade[75].

Come altri sacerdoti e i religiosi, José María Escrivá visse questa giornata vivamente preoccupato. A metà mattina, quando lo informarono che i rivoluzionari stavano dando alle fiamme la casa professa dei gesuiti in calle de la Flor, andò nella cappella del Patronato de Enfermos. Lì si vestì in borghese e, insieme a suo fratello Santiago, al padre e al fratello di Pepe Romeo, e a Julián Cortés−Cavanillas, uscì «con una pisside piena di Ostie consacrate avvolta in una veste talare e in un po’ di carta»[76]. Un taxi li portò da Santa Engracia 13 —dov’era il Patronato— fino all’abitazione della famiglia Romeo, al numero 134 della stessa strada[77].

Le minacce anticlericali e la sensazione di insicurezza provata durante “l’incendio dei conventi” facevano presagire nuove aggressioni alle istituzioni ecclesiastiche. Siccome il Patronato de Enfermos era un possibile obiettivo per gli incendiari, José María Escrivá cercò una casa sicura per la famiglia. Il 13 maggio gli offrirono un piccolissimo appartamento in calle Viriato 22, secondo interno a destra, di proprietà di Luz Rodríguez−Casanova. Per quanto sembrasse inadeguato ad alloggiare quattro persone, gli Escrivá Albás vi si trasferirono appena possibile. In questa «casa modesta»[78] sarebbero rimasti un anno e mezzo.

Nel frattempo, don José María proseguiva la ricerca di un nuovo incarico sacerdotale che gli permettesse di dedicare più tempo all’Opera. Conobbe nuove persone in grado di comprendere il messaggio di cui si sentiva depositario e conservò i suoi impegni accademici e pastorali. Nei primi mesi del 1931 gli avevano presentato altri giovani. Ad alcuni fece la proposta di seguirlo nell’Opera. Più precisamente, all’inizio di maggio —rispettivamente, nei giorni 1 e 6— due ragazzi si mostrarono disposti a formarsi nello spirito dell’Opus Dei: José Muñoz Aycuéns[79], un pittore, e Adolfo Gómez Ruiz[80], studente di medicina, amico di Pepe Romeo.

Nella Casa Sacerdotale delle Dame Apostoliche Escrivá conobbe anche un altro sacerdote secolare che poteva capire il messaggio dell’Opera. Si chiamava Sebastián Cirac. Lavorava come archivista della Curia diocesana di Cuenca, ma veniva spesso a Madrid per seguire i corsi di dottorato nella Facoltà di Filosofia e Lettere[81]. Dopo alcune conversazioni tra i due, Cirac decise di incorporarsi nell’Opera nel mese di luglio[82].

Il caso di Pedro Cantero —un sacerdote che Escrivá aveva conosciuto mesi prima all’Università Centrale— fu un po’ diverso[83]. Il 14 agosto parlarono dell’Opera e, come frutto di questa conversazione, Cantero si propose obiettivi più ambiziosi per la sua azione pastorale e apostolica. In particolare, durante i mesi che seguirono, i due sacerdoti visitarono i malati in alcuni ospedali. In seguito, però, i rapporti si attenuarono a causa dei rispettivi impegni pastorali[84].

Come era la personalità di José María Escrivá? Chi lo frequentava notava il suo «carattere aperto, l’aspetto cordiale e la simpatia irresistibile»[85], una personalità attraente che parlava «senza alcuna leziosaggine, perché non era per nulla, assolutamente per nulla, presuntuoso»[86]. Si distingueva soprattutto nella celebrazione dei sacramenti e negli atti di culto. Nella cappella del Patronato le Dame Apostoliche osservavano che Escrivá passava «lunghe ore vicino al Tabernacolo in conversazione con il Signore. Era solito stare in chiesa nei momenti in cui era vuota»[87]. Secondo Rocamora, «senza prediche, senza omelie, semplicemente con la maniera di dir messa, l’emozione con cui compiva il Sacrificio era talmente potente che si trasmetteva a chi gli stava vicino»[88].

Le persone che lo conoscevano —e, in modo particolare, i giovani— sentivano la voglia di parlare con lui. «Si rivolgeva ai giovani con il loro stesso linguaggio»[89], trasmettendo idee stimolanti. I suoi studenti dell’Accademia Cicuéndez si offrivano alle volte di accompagnarlo fino a casa sua dopo le lezioni, o all’uscita improvvisavano una tertulia[90]. Julián Cortés−Cavanillas ebbe «molti incontri, generalmente alla fine del pomeriggio e almeno una volta la settimana»[91]. Cortés, durante le passeggiate, «affrontava temi e problemi complessi di natura anticonformista»[92] ed Escrivá «li confutava o cercava di orientarmi, soprattutto nelle questioni religiose, riportandomi nell’alveo della stretta ortodossia»[93]. Manuel Gómez−Alonso, anche lui studente dell’Accademia, scrisse che era «facile fare amicizia con lui, e —ricordava— assai spesso, al termine delle lezioni, l’ho accompagnato camminando per strada verso casa sua»[94].

Il rapporto personale con José María Escrivá metteva in crisi perché affrontava i temi da un punto di vista sacerdotale con fede e, allo stesso tempo, in modo spontaneo. Non presentava un programma di vita strutturato, né faceva esposizioni sistematiche della dottrina cristiana o della luce ricevuta il 2 ottobre 1928. Trasmetteva il desiderio di diventare santo attraverso le realtà della vita quotidiana. Gli studenti si stupivano perché Escrivá parlava «come un uomo ispirato. Impressionava la sua profonda fede nel dovere fare “quello”»[95]. Qualcuno pensò che era «un sognatore»[96], perché lo vedeva «così solo, così disarmato, così privo di aiuti, da sembrare impossibile che quel “suo sogno” divenisse un giorno realtà»[97]. Un giorno Pedro Rocamora gli disse che le sue proposte di vita cristiana gli sembravano buone, ma erano troppo ambiziose. Il sacerdote lo interruppe: «Guarda che non è una mia invenzione; è la voce di Dio»[98].

I primi anni dell'Opus Dei

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