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XVI
Como l’appetito de laude
fa operare molte cose senza frutto

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—Que fai, anema predata?—Faccio mal ché so dannata.

Agio mal ché infinito—omne ben sí m’è fugito;

lo ciel sí m’ha sbandito—e lo ’nferno m’ha ’lbergata.

—Dáime desperazione—de la mia condizione

pensando la perfezione—de la vita tua ch’è stata.

—Io fui donna religiosa,—settant’anni fui renchiosa;

iurai a Cristo esser sposa—or so al diavolo maritata.

—Qual è stata la cagione—de la tua dannazione,

ché speravan le persone—che fosse canonizata?

—Non vedeano el magagnato—che nel core era occultato;

Dio, a cui non fo celato,—ha scoperta la falsata.

Vergene me conservai,—el mio corpo macerai,

ad om mai non guardai,—ché non fosse poi tentata.

Non parlai piú de trent’agne—como fon le mie compagne;

penetenze fece magne,—piú che non ne fui notata.

Degiunar mio non esclude—pane ed acqua ed erbe crude,

cinquant’anni entier compiude—degiunar non fui alentata.

Cuoi de scrofe toserate,—fun de pelo atortigliate,

cerchi e veste desperate—cinquant’anni cruciata.

Sostenetti povertate,—freddi, caldi e nuditade;

non avi l’umilitate,—però da Dio fui reprovata.

Non avi devozione—né mentale orazione;

tutta la mia entenzione—fo ad essere lodata.

Quando udía chiamar la santa,—lo mio cor superbia enalta;

or so menata a la malta—con la gente desperata.

S’io vergogna avesse avuta,—non siría cusí peruta,

la vergogna avería apruta—la mia mente magagnata.

Forse me siría corressa,—che non sería a questa opressa;

l’onoranza me tenne essa—ch’io non fosse medecata.

Oimè, onor, co mal te vide—ca ’l tuo gioco me occide;

begl me costa el tuo ride,—de tal prezo m’hai pagata!

Se vedessi mia figura—moreri’ de la paura;

non porría la tua natura—sostener la mia sguardata.

L’anema ch’è viziosa—orribil è sopr’onne cosa;

tal dá puza estermenosa—en omne canto è macellata.

O penar, non sai finire—né a fin giamai venire;

sí perseveri tuo ferire—como fosse comenzata.

Non fatiga el feredore,—el ferito non ne more,

or te pensa el bello amore—che sta en questa vicinata.

La pena è consumativa,—l’alma morta sempr’è viva

e la pena non deriva—de star sempre en me adizata.

—Penso ch’io sirò dannato,—nullo bene agio operato

e molto male acumulato—en la mia vita passata.

—Frate, non te desperare;—paradiso poi lucrare

se te guarde dal furare—l’onor suo che t’ha vetata.

Teme, serve e non falsare—e combatte en adurare

si e’ ’n bon perseverare,—proverai l’umiliata[1].

[1] Le tre stanzie sequente erano in alcuni libri inanti le tre ultime:

O lamento mio lamento,—o lamento con tormento,

o lamento co m’hai tento,—de tal machia m’hai sozata!

O corrotto mio corrotto,—o corrotto pien de lotto,

o corrotto o’ m’hai adotto,—che sia nel foco soterrata?

Conscienzia mia mordace,—tuo flagello mai non tace;

tolta m’hai dal cor la pace—e con Dio scandalizata.

(Nota del Bonaccorsi).

Le Laude secondo la stampa fiorentina del 1490

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