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III. CODICI ATECO, NUOVA GEOGRAFIA DEL LAVORO, DETERMINAZIONE DELLE CATEGORIE DI RISCHIO DELLE ATTIVITÀ ECONOMICHE E PRODUTTIVE

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La verità è che la scelta da parte del Governo di ricorrere ai codici ATECO, indubbiamente facile da esprimere in termini di razionalità giuridica e quindi da implementare sul piano amministrativo e dei relativi controlli, si è poi subito scontrata con i dati di realtà relativi a cosa sono le imprese e il lavoro oggi.

La classificazione ATECO –in vigore dal 2008 e utilizzata a vario titolo per fini statistici, di tassazione e di referenziazione delle attività professionali e dei mestieri attraverso l’Atlante del lavoro e delle qualificazioni– fornisce una rappresentazione astratta e poco attendibile delle attività economiche e produttive che sono infatti raggruppate secondo le logiche di una “geografia del lavoro” vecchia perché ancora incentrata su una rigida distinzione tra settore primario (agricoltura e pesca), settore secondario (manifattura e costruzioni) e settore terziario (commercio e servizi)28. La dura e infastidita reazione del sistema produttivo alla logica dei codici ATECO riflette insomma, almeno istintivamente, quello che una ricca letteratura economica e non solo ha oramai mostrato con riferimento a quella che, con formula felice, è stata definita la “nuova geografia del lavoro”29. Una geografia economica che supera non solo i confini nazionali ma soprattutto gli steccati dei codici ATECO perché non risponde più a rigidi parametri settoriali e merceologici messi in secondo piano dalla emersione di più o meno strutturati ecosistemi territoriali del lavoro espressione di una variegata realtà imprenditoriale di tipo reticolare e cooperativo che si colloca poi in modo profondamente intrecciato e interdipendente dentro complesse filiere produttive tra loro integrate, tanto a livello locale che globale, e che mettono all’angolo la vecchia idea di impresa come organizzazione chiusa e autosufficiente. È la realtà delle catene di fornitura/subfornitura e delle catene globali di produzione del valore su cui si ipotizza sia passata con rapidità sorprendente rispetto alle epidemie del passato anche la diffusione del coronavirus30. Contesti produttivi e di impresa dove la parola chiave è quella della “connettività”31 e dove certo non manca, come ha clamorosamente mostrato l’esplosione di quelle irrisolte criticità del lavoro nei campi che fingevamo di non vedere, anche una ampia dimensione economica non censita dai codici ATECO, perché svolta in forma sommersa, clandestina o non dichiarata, su cui poggiano in ultima istanza queste “moderne” logiche economiche.

Ora, sappiamo bene almeno dai tempi di Sombart32 che, contrariamente a quanto riteneva Marx33, “l’economia non è il nostro destino”. E tuttavia non si dovevano certo attendere una pandemia e le drastiche misure di lockdown e chiusura delle imprese per prendere atto che l’attuale sistema dei codici ATECO, ancorato a schemi di ordinatori e di classificazione del Novecento industriale, è stato abbondantemente superato dal dinamismo dei processi economici e dalla spinta integrazione e complementarità delle attività produttive. Eppure attraverso il ricorso ai codici ATECO si sviluppano attività e processi pubblici che vanno ben oltre il comprensi-bile tentativo di fornire una rappresentazione a fini statistici delle attività economiche e tali da impattare non solo sul sistema fiscale, previdenziale e assistenziale34, ma anche su altri delicati processi di razionalizzazione giuridica legati alle tematiche lavoristiche come la codificazione dei mestieri e delle professioni (anche) ai fini della certificazione delle competenze, l’individuazione della macro-categoria di rischio (alto, basso, medio) delle attività economiche e, cosa ancor più rilevante ai fini della nostra analisi, la definizione di uno schema di classi di rischio e aggregazione sociale espressamente funzionale a una possibile rimodulazione delle misure di contenimento del contagio da Covid-19 nei luoghi di lavoro.

Della certificazione delle competenze –e dei relativi repertori nazionali e regionali dei titoli di istruzione e formazione, dell’apprendistato e delle qualificazioni professionali– ci siamo occupati in sede di commento della “riforma Fornero” del 2012 e dei suoi sviluppi operativi35. Non è pertanto il caso di attardarci in questa sede su questo snodo, che pure è centrale nello sforzo di costruire una più moderna razionalità giuridica del lavoro, se non per ricordare che, già allora, evidenziavamo il rischio di pervenire, anche a causa della referenziazione delle qualificazioni ai codici ATECO36, a soluzioni normative non adeguate perché basate su una rappresentazione burocratica e non realistica del dinamismo dei mestieri e della complessità dei moderni mercati del lavoro.

Decisamente più indicativo, rispetto alle sfide portate dalla emergenza sanitaria da Covid-19 agli assetti tradizionali di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori e copertura dei relativi rischi, è invece il meccanismo di determinazione delle categorie di rischio delle attività economiche e produttive ai fini della applicazione delle tariffe dei premi assicurativi. È sufficiente leggere il decreto interministeriale del 27 febbraio 201937, relativo alle nuove tariffe dei premi per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali delle gestioni “Industria, Artigianato, Terziario, Altre Attività”, per rendersi conto di come i complessi parametri di deter-minazione individuati dal legislatore siano ancorati a processi di razionalizzazione giuridica della economia del passato38. Pensiamo, per esempio, all’ambiente di lavoro in cui opera lo smart worker, che finisce per coincidere con l’ambiente in quanto tale; e pensiamo anche ai premi assicurativi relativi alle sempre più frequenti attività formative e di apprendimento realizzate in ambiente produttivo, ma senza vincoli contrattuali e/o occupazionali come nel caso della alternanza scuola lavoro e dei tirocini formativi e di orientamento. Anche su questo terreno, dunque, i tempi sembrano maturi per una nuova razionalità giuridica che non può certo limitarsi a piccoli aggiustamenti normativi facilitati da “meccanismi legislativi che consentano una più frequente rivisitazione della tariffa dei premi”39.

In questa direzione è vero che, nel tentativo di definire una mappatura delle classi di rischio e aggregazione sociale funzionale a una possibile rimodulazione delle misure di contenimento del contagio da Covid-19 nei luoghi di lavoro, INAIL si è ancora una volta attestata sul parametro formale dei codici ATECO40 adottato dal Governo per stabilire le attività economiche essenziali e quelle sospese. Nel documento, tuttavia, si legge testualmente che una siffatta attribuzione delle classi di rischio per i settori produttivi “è da considerarsi come orientativa per far emergere una consapevolezza integrata dell’attuale scenario di emergenza sanitaria” e comunque non esclude che, attraverso per esempio l’adozione di protocolli e apposite intese a livello di impresa, “le singole realtà aziendali possono mitigare sostanzialmente il rischio adottando un’adeguata strategia di prevenzione anche per rispondere a specifiche complessità che possono non emergere in un’analisi di insieme, in particolare per le piccole e medie imprese”.

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